Mascee e Panse Voe

Durante i nostri vagabondaggi giovanili, inoltrandoci tra le eriche, pungitopo e rovi, nella zona del rio Riva e la Suia, (la zona soprastante, tra  via Scavino e il campo di atletica ) scoprimmo un posto misterioso, con grandi terrazzamenti, da almeno un secolo abbandonati, nascosti alla vista dai grandi alberi di lecci, che hanno colonizzato, affondando le loro radici, questo acclive pendio, trasformato dal lavoro dell’uomo, in fasce coltivabili.

Nessuno guardando un bosco così fitto, può pensare che anche qui si nasconda una parte di quel grande patrimonio, spesso dimenticato, della nostra comunità, fatto di muretti a secco.

Questo posto negli anni 70, diventò luogo di passatempi e di avventure di noi ragazzi, ma altri ragazzi erano stati qui, molto tempo prima e non per giocare.

Chi erano quelle persone, di cui non abbiamo memoria, che hanno edificato migliaia di km de mascee, i muretti a secco, strappando da un territorio aspro e inospitale, ettari di terra da coltivare, radicando cosi la permanenza di popolo, quello ligure, in questa parte di mondo?

Chi oggi ha pazienza e voglia di osservare, con accuratezza, questi manufatti, non può fare a meno di pensare, alle conoscenze tecniche, all’abilità ma soprattutto all’enorme fatica, profusa dai nostri avi, nel realizzare queste opere, la cui esecuzione è stata tramandata, da padre in figlio e poi al nipote.

 Generazioni a spaccarsi la schiena, sciu da un briccu o na riva, immense fatiche e continui soprusi da parte dei committenti o signorotti locali.

Bestie da lavoro, analfabeti, succubi di ogni potere.

Da questa povera gente, anche il clero riusciva a trarre qualche profitto, tramite le offerte e i lasciti testamentari.

Ogni edificio di culto della nostra città e dell’entroterra è stato edificato con il lavoro, sudore e immense fatiche di questa povera gente, senza alcun compenso per devozione o per aver salvo un posto in paradiso.

Sottoscrizioni, offerte di risorse materiali ed economiche, per edificare gli innumerevoli luoghi di culto, un centinaaio circa, tra Chiese Cappellette, Conventi, Monasteri, Edicole Votive, presenti nel comprensorio della nostra città.

Luoghi di culto edificati per servire ad una grande comunità di fedeli, incamerati nei beni delle Diocesi e oggi venduti per profitti privati.

 Anche i bambini in età scolare, partecipavano alla costruzione delle mascee, a loro erano affidate le mansioni secondarie, ma non meno importanti, come quella del trasporto del vitto, con l’immancabile buttigiun, de vin all’ora di pranzo.

Vino, che annebbiava la mente a uomini diventati bestie da lavoro, attenuava la loro fatica e fame, faceva pensar loro, di vivere in un mondo migliore.

Mascee e panse voe.

Questo è il verosimile racconto, ipoteticamente ritrovato in un cassetto, di un ragazzo di molti anni fa, anche lui, nato e cresciuto Sciu da Teiru.

Ovviamente essendo il ragazzo di madre lingua Zeneise, lo svolgimento è scritto in Zenagliano

Le vacanse

La maestra ci ha dato da scrivere, in bela mano, le vacanse di questa estate.

Io questa estate ci andavo con il mio papà, che faceva i risso’ de prie in ta ciassa da giescia e le muagge delle mascee, di là da S.Dunoù.

La mattina ci portavo i panetti, che mi preparava sempre la bitega du Pasciu e il bottiggione del vino che mi toccava empi’ dalla damigiana.

Visto che sono stato promosso, mi hanno regalato lo spallone nuovo, che ma cucito la mia mamma, per camallare le corbe, che io però ci metto i panetti e il vino da portare a papà e al barba, che travaggiano con le prie e la tera.

Poi con la mia corbetta, camallo i tocchi sciappati, da mettere derè alle miagge, che cusci l’equa quando ciove a sciorte ben.

 Mio barba, mi ha mostrato, come vedde e mette e prie in ta mascea e duvve gan a vena, pe sciapparle cun a pichetta e poi dagghe i corpi cun a massetta per mettila ben a posto.

Sensa che nesciun me l’ha ditu, mi sono messo a camallare le prie, dalla cava di Busci , fino qua e i ommi alua, mi dicevano dove scarigole e mi divan “bravu figgiou” e mi eu cuntentu de do na man.

a cava di Busci

 Dumeniga, sono sgrogiato e mi è cheita la corbetta e tutte le prie si sono spantegate, mio papà mi ha fatto un braggiù e mi ha dato un casu in tu cu, cuscì devo imparare a non inversare più le corbe.

La sera mi faceva male un pè, ma non ce l’ho detto, perchè poi mi braggiavano e mi davan de botte e di stare più attento.

Mio barba, mi vo ben e alua ghe vagu sempre derè a camallare le prie e l’aggiutto tanto con il sappino, a runsare la terra.

 Quandu la campanna di S.Dunou suona messogiorno, me so a se rampiga fino qua, per portare da mangiò e a me disce sempre, “ma cumme ti te spurcò e ti spussi cumme na crava!”, alua mi fassu a pegua, tantu ben che tutti rian, anche me so a rie, che io ci voglio bene a mia so, anche se me piggia in giu.

Fa tantu cadu e alua i ommi posan un po’ e osse e seran  gli occhi, sutta au figu.

pausa pranzo in una cava foto dal Web

Cun me so andemmu in tu rian da Riva, a a serco’ i baggetti.

Poi quandu suona dui botti me so a va via, cun i bagetti in te na buttiggia e mi invece, restu ancun in tu briccu a travaggio fin che ghe da lusce.

 U baccan, u l’arrive sempre u giurnu doppu dumeniga, u parlà cun me papà e u barba e misua de quanti palmi sono le miagge fatte e ci da e palanche, che tutte le volte me papà u mugugna che sono poche e u disce au baccan “cosa ghe daggu da mangiare a ste panse voe di me figgio’!”

U baccan mi ha guardato e ghe disce “dagghe de prie da susso!’”.

Mio barba alua non ci ha più veduto ci a detto che è un “stondaio e che ci inversava tutte le mascee”.

 U baccan alua se missu a rie e u ma tio’ na palanca, ma io non lo mica presa la palanca, alua lui mi ha detto, “prendila è la tua”.

 Ma mi go missu un pe in simma e l ‘ho sutterò.

 U baccan mi ha ditu”sei come tuo padre mugugnate sempre ma siete solo dei poveri cristi gnoranti con la fame nelle ossa!”.

A palanca poi l’ho deta au me papà che mi ha dato un pattone perché il baccan, ghea restato male che ho sotterato la palanca, e che poi finisce che lo licensia.

Chi non ci aveva la fame in te osse, u lea u preve che vegniva a benedettere le fasce ogni meise e faceva solo quattro fasce perchè aveva tanta pancia che ci aveva lo scioppone e benedisceva, con l’acqua e mio papà ci dava due palanche perché cusci le fasce restavan in pè.

Che una votta, non ce ne avevano dato e u giorno doppu ci hanno trovato una fascia inversata e che mio barba, era andato in ta giescia e ci ha preso il campanaro per il collo, che quasi lo stranguiova.

E alua, aua u preve non benedisceiva ciù e prie, ma sulu i cristien, che mio barba non vuole, perché dice che porta male e faremo la fine delle mascee che deruano.

Questa è stata una bela estate abbiamo fatto tante mascee che mio papa’ mi dice di non scrive ciu’ ninte, perché a scoa nu serve pe’ fo e mascee.

foto b/n Archivio Fotografico Varagine

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