
Il Zenagliano era l’idioma dialettal-italiano parlato negli anni del secondo dopoguerra Sciu da Teiru, nelle frazioni, ma anche nel Borgo, Solaro e S.Nazario, da chi madre lingua zeneise era costretto a imparare una nuova lingua, l’italiano.

Dopo l’unità d’Italia e per tutto il secolo XIX si scontrarono sulla questione italiano/dialetto, due posizioni abbastanza inconciliabili: I manzoniani avevano sperato di poter condurre attraverso la scuola una duplice lotta, volta da un lato a sradicare la «malerba dialettale», dall’altro a imporre come tipo linguistico unitario il fiorentino.

Altri, come il De Sanctis, l’Ascoli, il d’Ovidio erano decisamente sfavorevoli ad una lotta indiscriminata contro i dialetti, nei quali scorgevano i depositari di un ethos locale da non disperdere… i dialetti, perciò, non andavano messi in ridicolo, ma studiati e confrontati con la lingua italiana (De Mauro 1973, 88-89).
E’ noto che l’atteggiamento ufficiale delle autorità fu vicino alle posizioni dei manzoniani ma in realtà l’obbligo”, vuoi per la scarsa efficienza delle istituzioni scolastiche primarie “carenze legislative, povertà delle finanze comunali, ostilità del clero, degli amministratori locali e del ceto dirigente conservatore contrario alla diffusione dell’istruzione” agli inizi del nuovo secolo i bambini continuavano a rivelare gravi carenze linguistiche, e questo anche perché, tra le altre cose, i maestri tendevano ad usare in classe il dialetto o «un misto di dialetto e lingua letteraria», il che «val peggio dell’uso del puro dialetto» (Relazione, in De Mauro 1973, 93).

Nel secondo dopoguerra, il boom economico con l’industrializzazione indotto dalla ricostruzione, fu un altro potente fattore di mobilità interna, soprattutto dal sud al nord, ed i fenomeni migratori, dalle campagne alle città e quindi di incontro di lingue e di culture.
Quando poi nel 1962 fu introdotta in Italia la scuola media unica che innalzava l’obbligo scolastico a 14 anni, un nuovo pubblico di scolari tradizionalmente fermi all’istruzione elementare, vale a dire i figli delle classi operaie e contadine, si affacciarono per la prima volta alla scuola superiore, e questa radicale trasformazione nella composizione del pubblico scolastico non fu indolore.
La dialettofonia diffusa nelle classi popolari si abbatté sugli insegnanti della ‘nuova’ scuola media unificata cogliendoli del tutto impreparati. Anche perché costoro, a differenza dei maestri elementari da tempo abituati al modesto compito di istruttori di tutti i cittadini nelle abilità di base del ‘leggere, scrivere e far di conto, non riuscirono a percepire il disagio le difficoltà degli studenti.
Le ‘insufficienze’ accumulate nelle diverse materie erano per lo più interpretate come il frutto di disattenzione, scarsa applicazione allo studio, quando non di scarsa intelligenza. Il risultato fu che molti ragazzi, immessi per obbligo nella scuola media, ne venivano espulsi dopo uno o più anni di frustranti esperienze.
La fuga dalla scuola, e quindi l’evasione dall’obbligo, fu per molti di quei ragazzi la soluzione quasi scontata del problema.
A Vase
Tutti questi ultimi elementi erano presenti nella società della nostra citta’ negli anni 50/60 ricordo i pensierini delle elementari infarciti con parole dialettali e poi il fenomeno dell’abbandono scolastico, dovuto anche alla troppa rigidità del corpo insegnante, lungi da applicare quello che oggi è chiamato “il sei politico”

La media era pura matematica, e così alcuni nostri compagni non appena raggiunti i 14, anni abbandonarono la didattica, per il mondo del lavoro, dove peraltro erano già impiegati e mai sopportati in questa duplice condizione di scolaro/lavoratore dalla scuola statale, anzi a volte e di questo ne sono testimone, trattati anche in malo modo e spronati all’abbandono scolastico, a questo proposito è bene saper che nell’elenco del registro di classe nell’ultima colonna a fianco del nome dello scolaro era scritta la professione del padre, un retaggio del ventennio fascista rimasto in essere anche negli anni del dopoguerra.

Le carenze accumulate negli anni delle elementari, poi si scontavano alle medie specie nell’uso corretto dell’italiano abituati in famiglia e con gli amici a parlar in dialetto poi si finiva per fare un miscuglio, citato da De Mauro come «un misto di dialetto e lingua letteraria», il che «val peggio dell’uso del puro dialetto» è il cosidetto Zenagliano, parlato, se capita, ancora oggi tra di noi alunni degli anni 60, termini pratici inseriti, in una frase in lingua italiana, utilizzati con efficacia e velocità per descrivere cose, azioni o ricordi, evitando così anche una problematica traduzione nella patria lingua.
Molte parole sono diventate patrimonio linguistico, correntemente usato oggi anche dalle generazioni più giovani quali rumenta, abelinato, sguarato, zetto, carruggio, tomate ecc.ecc.
Oggi, a quarant’anni da quelle accesissime polemiche tra apocalittici e integrati, tra nostalgici delle parlate locali e fautori delle magnifiche sorti e progressive, sembrano tutti sconfitti di fronte al pauroso ristagno economico, culturale e linguistico. L’allarme lanciato da De Mauro chiama in causa anche il nuovo governo, che finora, ha detto lo studioso, «sembra aver dimenticato l’istruzione». Istruzione e scuola sono i due concetti chiave. Se nel dopoguerra, fino agli anni Novanta, il livello di scolarità è cresciuto fino a una media di dodici anni di frequenza scolastica per ogni cittadino (nel ’51 eravamo a tre anni a testa), oggi si registra, con il record di abbandoni scolastici, un incremento pauroso del cosiddetto analfabetismo di ritorno, favorito anche dalla dipendenza televisiva e tecnologica. Non deve dunque stupire che il 33 per cento degli italiani, pur sapendo leggere, riesca a decifrare soltanto testi elementari, e che persista un 5 per cento incapace di decodificare qualsivoglia lettera e cifra. Del resto, pare che la conoscenza delle strutture grammaticali e sintattiche sia pressoché assente persino presso i nostri studenti universitari, che per quanto riguarda le competenze linguistiche si collocano ai gradini più bassi delle classifiche europee (come avviene per le nozioni matematiche). da Corriere della Sera Cultura “Se sette italiani su dieci non capiscono la lingua“
