
Da Ramugnina in direzione della Guardia, oltrepassata a Postetta sento il mio nome, provenire da una sbarraggia.

E’ Ambrogio Giusto, u Canaetta, che emerge dal suo mimetismo, ci salutiamo e mi avvicino per far due chiacchere, con lui e il suo amico di caccia al passaggio.

Si parla di questa zona, crocevia di antiche strade e sentieri, case sperdute nascoste alla vista, ma dove hanno vissuto per molti anni, famiglie che qui traevano il loro sostentamento, coltivando e allevando animali.
Un duro lavoro, tramandato da generazioni, chissà chi erano quelle persone che hanno edificato case, muretti a secco fasce e strade in questa zona così lontana da ogni centro abitato.
Ambrogio ricorda la madre, che da Custò de Beffadossu, ogni giorno, saliva da questi sentieri, per raggiungere la via Gianca e arrivare al Cotonificio, dove lavorava.
E gli anni giovanili, quando tutta questa zona era un grande bosco di pini e lui insieme a molti altri, che arrivavano anche da Vase, erano qua a raccogliere le pigne, da bruciare nella stufa.
Per raggiungere e Sevisse e poi a Ca da Luigina, mi consiglia un altro itinerario, diverso da quello che mi ero programmato, che passa dal briccu di Lapassui, seguendo, come segnavia i tralicci della linea elettrica.
Il sentiero è ben marcato e zigzaga fra le brughe.
Arrivato sul crinale, ho una stupenda vista verso il Beigua e la piana di Sciarbuasca.

Scheletri di alberi, residui dei devastanti incendi degli anni 90, sembrano totem, testimoni dell’incuria e delle devastazioni di un patrimonio arboreo, perso per sempre, un delitto, a mio parere, non indagato a sufficienza, per scoprire i responsabili o chi ha avuto dei vantaggi da questo disastro.

Il sentiero ora scende ripido e appare in lontananza,a Ca de Sevisse ancora eretta, ma con il tetto quasi del tutto crollato.

Il crollo del tetto ha divelto anche il tavolame del piano sopraelevato.

A Ca de Sevisse, i vecchi alberi da frutta, il lavatoio, un altra costruzione adiacente, completamente diruta

E poi quel bellissimo campo, unica zona ancora verde in mezzo alla brughiera, un tempo coltivato ad ortaggi, e cereali.

Si ha una bella sensazione a stare in questo posto, nascosto alla vista, ma con la bella cornice du Munte Gross e da Custea.
Una tragica storia è legata a Ca de Sevisse, quella di una giovane coppia, na niò de figgi e un virus maledetto, accaduta nel mese di novembre del 1918.
A Ca de Sevisse
Pantaleo conobbe Antonietta, alla festa di S.Ermete a Sciarborasca e come facevano tanti zuenotti, che per andare dalla loro bella valicavano bricchi a piedi anche di notte, anche lui andava in veggia, fino alla località Custa’, dove abitava la sua bella, partendo da Varazze.
Piaceva anche a Antonietta, la Ca de Sevisse, un’edificio ad un piano con la classica disposizione delle case coloniche, stalla e ricovero degli attrezzi a piano terra, ad uso abitativo la parte superiore, c’erano poi lì vicino, quei resti diruti di chissà che cosa è lì poteva essere costruita, con il tempo una seconda abitazione.
Doveva comunque essere una sistemazione provvisoria, in attesa di avere una casa propria, ma arrivarono i figli…… anzi na niò de figgi, erano otto sette fratelli e una sorella, Antonio all’età di undici anni, morì a causa della difterite, l’ultimo nato si chiamava Pellegro ed era il papà di Lino.
Era il lavoro che regolava la giornata di quella famiglia in ta Ca de Sevisse, Antonietta quasi tutte le mattine, andava al mercato a Varazze a vendere uova e latte, Pantaleo si occupava del terreno, c’era sempre da dissodare in quel grande campo, c’era il beo che raccoglieva l’acqua del rian, da tenere pulito, come anche i sentieri uniche vie di accesso.
I bambini in età scolare, andavano a scuola a S.Pietro a circa un’ora e mezzo di cammino.
I figli più grandicelli, davano una mano con gli animali domestici o a raccogliere frutta e verdura.
Una vita semplice, una famiglia contadina, come tante altre, abituate alla fatica nei campi e nelle faccende domestiche, ma anche rallegrate dalla spensierata età dei figli sempre pronti ad ogni tipo di gioco o passatempo nei prati, boschi o nell’acqua dei un rian da Ciusa o de Sevisse ma anche ai laghi dell’Aniun, per fare il bagno o a pescare.
Nelle festività ci si vestiva da festa per andare alla messa solitamente a Casanova qualche volta dai frati al convento del Deserto.
Ma le cose sarebbero purtroppo cambiate, in mezza Europa, infuriava la guerra, ma una subdola malattia, aveva iniziato a mietere più vittime di quante ne potessero fare tutte le armi di quegli eserciti.
In Italia, in provincia di Imperia, nel 1918, si stava lavorando per continuare il tracciato della ferrovia, nel ponente ligure e al cantiere di Arma di Taggia cercavano degli operai, Pantaleo decise di accettare quel lavoro, per aiutare finanziariamente la sua famiglia.
Lasciò a malincuore la sua gente in quella casa alle Sevisse.
Ai figli più grandicelli Juan di quattordici anni e Giuseppe di tredici anni, il papà affidò loro, il compito delle faccende da fare, accudire la mucca e l’asino, galline conigli le coltivazioni e si raccomandò di mantenere pulito, sgombro da terra e pietre quel beo dell’acqua.
Ninna di 10 anni già aiutava la mamma nelle faccende domestiche, aumentate a dismisura dopo l’ultimo arrivato, Pellegro, che aveva due anni e mezzo.
Senza un uomo in casa, non era facile tirare avanti in quella casa delle Sevisse, l’autunno del 1918 arrivò presto, con i primi freddi, e si doveva riscaldare quella grande casa, i più grandicelli, memori delle raccomandazioni del padre, facevano scorta di pigne raccolte riempiendo grandi sacchi a volte più pesanti di chi li doveva trasportare su quelle esili spalle, i fratelli maggiori, si dividevano i compiti per accudire gli animali e nelle altre faccende.
Un giorno Ninna, vide la sagoma di un uomo, sul sentiero che saliva dall’Invrea, riconobbe subito il suo papà a cui lei voleva un gran bene, e gli corse incontro felice, per abbracciarlo.
Pantaleo era molto affannato, a stento riusciva a parlare, arrivato a casa disse di essersi ammalato di bronchite e anche se febbricitante aveva deciso di lasciare momentaneamente il lavoro e ritornare dalla sua famiglia, pensando di stare qualche giorno con i propri cari, magari riuscire a sbrigare qualche lavoro, aiutare la sua famiglia e non ultimo per rivedere la sua Antonietta.
Quella sera, ascoltò tutte le cose che erano successe durante la sua assenza, raccontate dai suoi vice, Juan e Giuseppe, ma ebbe parole di gratitudine anche verso Ninna, una piccola donnina, per l’aiuto che dava in casa.
Colpi di tosse persistenti, non lo fecero dormire quella notte, e le seguenti.
Dopo qualche giorno, si ammalò anche Antonietta, Ninna prese in cura i suoi genitori, ma le cose precipitarono in poco tempo, quei colpi di tosse si colorarono di sangue, l’influenza spagnola che imperversava in Europa, che nessuno aveva diagnosticato nè si sapeva che cosa fare per combatterla, aveva contagiato quel cantiere di Arma di Taggia.
Furono giornate difficili chissà, se qualche frate dal Deserto era arrivato fino alle Sevisse per portare un pò di conforto religioso, perchè dei medici manco a parlarne, l’epidemia aveva colpito duro, anche in città.
Pantaleo morì una sera di novembre e nella stessa notte Antonietta a seguito dell’immenso dolore per la morte del suo uomo e con l’angoscia nel cuore, pensando a quei poveri suoi figli senza più il loro papà, non riuscì a superare una crisi e a poche ore di distanza, morì anche lei , lasciando nella disperazione più totale quei bambini nel buio della notte alle Sevisse.
Alle prime luci dell’alba, in un freddo giorno di novembre un bambino solo disperato, Juan, affrontò il lungo sentiero che portava in località Costata, dove viveva il papà di Antonietta, Giovanni, per dare la tremenda notizia e avere aiuto per se e i suoi fratellini.
I corpi dei genitori furono trasportati con una barella alla chiesa di Casanova per i funerali.
Due giorni dopo quella maledetta malattia si prese anche la vita di Giuseppe.
Gli animali furono venduti per avere le risorse per i funerali e per i figli che furono tutti adottati dai parenti più stretti.
E’ passato un secolo da quegli lontani accadimenti e ora che ho conosciuto, questa triste storia, ogni volta che ritornerò ancora alle Sevisse, cercherò i segni che restano sempre anche quando le persone sono andate, via i segni di chi in quella casa in quel grande e fertile campo ha lavorato faticato ha visto crescere i suoi figli e avrebbe voluto vederli diventare grandi e poi diventare vecchio stare accanto alla sua Antonietta nella loro Ca de Sevisse.


Ancora una foto, come un saluto alle Sevisse e mi dirigo verso la casa da Luigina, seguo il solito sentiero tracciato dagli animali selvatici, ora non solo brughe, ma molte piante di mirto e lentisco.

Intravvedo il rudere della casa, circondata da giovani piante, ma anche da un’impenetrabile bosco di rovi, che sempre si trovano in corrispondenza delle piante di ulivo.
Semi di rovi, sparsi con le feci, dagli uccelli, che si nutrono di more e che trovano poi i loro posatoi, sugli ulivi.

Un tappeto di fiori di vinca, copre tutto il terreno e tra qualche giorno, sbocceranno anche i narcisi, un fiore che perpetua il ricordo, di chi ha ingentilito, molti anni fa questa dimora.

Anche questa casa e il terreno, dove il lavoro, la fatica di generazioni, era il pane quotidiano, sta per essere fagocitata dalla vegetazione e fra qualche anno la natura la renderà invisibile, cadrà nell’oblio e come molte altre cose costruite dai nostri vecchi, alla fine, la nostra comunità ne perderà ogni memoria.

Sulla via del ritorno, fa bella mostra di se, un posa come quelle descritte da u Canaetta, per chi doveva camallare u lensò o bellainin-a de fen o u saccu de pigne.
Arrivato in prossimità di questo cumulo di pietre, u camallu aveva un poco di sollievo, riprendeva le forze, si asciugava il sudore, scaricando il peso sui massi, per poi continuare il tragitto in salita verso a Pustetta.

Il sentiero, lascia il posto ad una strada lastricata, a tratti slavata e franata, ma dalle fattezze già viste e di tipologia molto antica, servirebbero degli studiosi archeologi o storici per catalogare sul posto, questa viabilità.

Arrivati su di un pianoro, se ne perdono le tracce, ma alcuni cumuli di massi, stanno a testimoniare, l’esistenza di qualche manufatto, un punto di osservazione o un Castellaro.
È arrivata al termine questa mia escursione, ritorno sulla strada della Guardia. Ambrogio e il suo amico, se ne sono andati da tempo, non ho udito colpi di fucile, forse per loro è stata una giornata da capotto.
Saluto alcune persone, in arrivo dal comodo sentiero che scende dalla Madonna della Guardia, ben curati nell’abbigliamento e per niente affaticati,.
Mi sun tuttu straffugiò, spellò dai ruvei e cun e punte de bruga in tu collu! Mi chiedo chi me lo fa fare. Molto meglio seguir facili strade!

Ma già penso alla prossima, ancora una volta, alle Sevisse.
