
Il nostro mondo era tutto lì, intorno al colle di San Donato, dove il fiume compie un’ampia curva, l’ultima, per poi riprendere la direzione giusta e scorrere verso il mare.
Il mare, invece era lontano, culturalmente, colpa forse delle mie origini e poi nessuno poteva accompagnarci e si diceva anche che prendere tutto quel sole, faceva male alla testa.
Allora meglio il fiume a due passi da casa e a tiro di voce quando il mangiare era pronto.

Ora però non è più possibile raggiungerlo, perché due grandi muri di cemento, costruiti dal genio civile dopo l’ultima rovinosa alluvione, offrono protezione alle zone circostanti, ma ne impediscono, di fatto, l’accesso.
Quando ero bambino, invece lo si raggiungeva con facilità, davanti alla casa c’era il “campo” poco oltre iniziava un fitto bosco fatto di rovi e canne, il terreno ricoperto d’erba alta con le ortiche, che vanamente ostacolavano le nostre corse a gambe nude.

Degradando verso il fiume, il terreno diventava sabbioso, ogni tanto qua e la spuntavano grosse pietre, intorno alle quali l’acqua scavava profonde buche.
Il fiume, in autunno faceva paura, per le sue piene improvvise e la notevole portata d’acqua, dopo un violento acquazzone.
D’estate invece l’acqua scorreva lenta e il fiume diventava luogo di giochi e passatempi, per noi bambini, poi a poco a poco con l’avanzare della stagione calda, diventava solo un rivolo melmoso e di solito asciugava del tutto e i pochi pesci, che erano rimasti intrappolati nelle pozze d’acqua, morivano saltellando nel fango.

Non erano bei tempi quelli, per quanto riguardava l’ambiente, il fiume era inquinato e nelle sue acque si trovava di tutto, a volte anche roba interessante e fantastica agli occhi di un bambino!
Ma a monte erano in piena attività alcune cartiere, la cromatura del Pero, numerosi scarichi fognari e il mattatoio del Parasio, i cui scarti di lavorazione delle carni galleggiavano sull’acqua e se rimanevano bloccati fra due sassi, erano consumati sul posto da un nugolo di mosche nere e vermi biancastri, emanando un tanfo nauseabondo percepito a parecchi metri di distanza.
Non mancavano le discariche improvvisate, lungo le cui scarpate, noi bambini ci arrampicavamo, sempre alla ricerca di qualche “tesoro “, che il solito sprecone aveva gettato via.

Per completare questo scenario apocalittico, nel fiume finivano anche gli scarichi del Cotonificio, che tingevano le acque del fiume con colori pastello, ma quelli fortunatamente erano più a valle.
La voglia di giocare era però immensa, e non si badava a queste cose.
D’estate a piedi nudi, con i pantaloncini corti, un coccio di bottiglia o una pietra aguzza, prima o poi nell’arco della giornata la si rimediava sempre.

Ma ripensandoci oggi, quelle ferite e quei tagli, si rimarginavano quasi subito, come se le piastrine del nostro sangue, che hanno il compito di coagulare, fossero allertate, quando noi eravamo a giocare in quel luogo, per noi paradisiaco, ma per loro apocalittico, pieno di nemici da combattere.
Eravamo sempre in preda ad una frenesia incontenibile, che solo il calar del sole o il grido di una mamma sul terrazzo di casa, interrompeva, con la concessione però di un’altra dilazione, perché si era sempre intenti a fare qualcosa di non procrastinabile.
In un pomeriggio di molti anni fa, io fui letteralmente “salvato dalle acque “.

Non ho un ricordo nitido dell’accaduto e in parte questo ricordo, lo devo a chi poi me lo ha raccontato.
Ricordo però la grossa pietra piatta che, proprio al centro del fiume, fungeva da approdo e partenza delle nostre barchette di legno.
Di solito l’acqua che scorre sotto grosse pietre ha una certa profondità, sufficiente quindi a creare un serio pericolo per un bambino.
Riuscii comunque a gridare quando caddi in acqua, mentre la corrente mi trascinava via verso la cascata.
In preda al panico non riuscivo a trovare un appiglio, una qualsiasi sporgenza per fermarmi.
E con la bocca aperta nel tentativo di chiamare aiuto, ingurgitai qualche sorso d’acqua.
Per mia fortuna però attratta dalle grida, arrivò una donna, una vicina di casa, abbandonò le borse della spesa, non esitò un istante, entrò in acqua e mi afferrò saldamente, trascinandomi fuori della corrente, poco prima del salto della cascata.
Probabilmente fatale per un bambino, visto anche la presenza del grosso buco sottostante, tuttora visibile.
Quel giorno, però arrivato a casa, tutto bagnato, raccontato l’accaduto e lo scampato pericolo, sono stato “scaldato”, ma non dalla reazione chimica che genera una fiamma ma da un’altra reazione di tipo “ fisiologico”.
Gli adulti erano molto meno propensi al dialogo, rispetto a oggi, e guai a disubbidire o a combinar qualcosa di storto!
In seguito dell’accaduto, per un certo periodo mi fu interdetto l’accesso al fiume.

Crescendo, altri giochi e passatempi erano “consumati” lungo il corso del fiume.
Ad esempio la caccia ai “mungagi”, le bisce d’acqua, che specialmente nel periodo estivo popolavano il corso d’acqua facendo strage di pesci e rane.
Appena si avvistava il malcapitato, silenziosamente, era circondato e dopo il segnale convenuto, un vero e proprio bombardamento, con pietre e massi si abbatteva sul rettile, il quale nella vana speranza di salvezza abbandonava l’acqua guadagnando la riva in cerca di riparo nella vicina vegetazione.
Questo di solito gli era fatale, ed erano inutili le sue movenze quando un colpo più preciso degli altri gli spezzava la schiena.
Al termine della caccia, come un trofeo, i serpenti erano appesi a un bastone e portati con un certo orgoglio, in visione agli adulti.

Anche la direzione del fiume subiva la nostra “violenza” con sbarramenti fatti di terra e pietre, si deviava il corso dell’acqua, creando degli invasi dove le nostre barchette erano al sicuro dalla corrente.
Eravamo specializzati in queste costruzioni, di solito lo scafo era ricavato direttamente dal pieno di un pezzo di legno, di solito d’abete, materiale tenero che poteva essere lavorato con lo scalpello, un foro al centro serviva per alloggiare l’albero maestro.
Qui erano appese le vele, ricavate da ritagli di stoffa, fissati con filo da cucire, per evitare il ribaltamento, una deriva di piombo era fissata con dei chiodi sotto lo scafo.
Non erano però imbarcazioni da regata, bensì vere e proprie navi da guerra.
Una volta messe in acqua, da riva noi bambini, simulavamo i tiri di cannone con piccole pietre che alzavano spruzzi d’acqua, come avevamo visto disegnato in qualche giornalino.
Non mancavano le liti quando un tiro maldestro colpiva una di queste imbarcazioni strappando le vele che con tanta cura erano state sistemate.
O peggio quando una pietra fuori norma spezzava l’albero maestro….
A questo punto vigeva la legge “occhio per occhio- dente per dente “, e lo stesso danno con l’aggiunta di rabbia, era rivolto alla barca avversaria.
S’innescava a questo punto una reazione a catena, il cui esito finale, spesso era la completa distruzione dei manufatti, canale e diga compresi, in preda ad un furore incontenibile si distruggeva tutto e ci si lasciava giurando di non vederci mai più!
Passavano così alcuni giorni, un paio al massimo, poi ci si ritrovava nuovamente nel fiume all’inizio com’estranei, poi con un pretesto qualsiasi di nuovo insieme.

La pesca era un altro momento di svago, d’estate, quando il fiume stava quasi per asciugare del tutto, quello era il momento della caccia alle anguille, che lasciavano le pozze fangose in cerca d’acqua pulita, ma era un’impresa catturarle.
Riuscivano sempre a sgusciare via, costruimmo anche un paio di pinze rudimentali, in legno, ma erano mastodontiche e poco maneggevoli.
Uno di noi, Massimo, ebbe in regalo una vera canna da pesca, con tanto di mulinello, era una vera novità, abituati a pescare con le mani sotto le pietre, o lanciando dei sassi nell’acqua.
Ora, invece, si poteva adescare il pesce comodamente seduti su una pietra.
Un giorno decidemmo che il miglior collaudo, era una battuta di pesca al “lago scuro” Risalimmo a piedi il corso del fiume.(Il lago in realtà è una pozza d’acqua profonda che non asciuga mai, neanche in piena estate, poiché e scavato dall’acqua nella pietra, l’aggettivo è però appropriato, l’acqua è scura non si vede il fondo). Si favoleggiava la presenza di pesci enormi.

Ripenso oggi al rischio di scivolare in acqua, di battere il capo sulla roccia, e nessuno di noi capace a nuotare.
Non fu una pesca fortunata, solo un piccolo cavedano dopo qualche ora di noiosa attesa. All’arrivo d’alcune persone, per attirare la loro attenzione, il pesciolino ormai morente fu riattaccato all’amo e gettato in acqua.
Successe tutto all’improvviso la piccola canna si piegò in modo esagerato per il peso di quel pesciolino, una grossa anguilla attratta dalle movenze del pesce morente, lo inghiottì con un sol boccone, rimanendo a sua volta intrappolata nella lenza.

Mi precipitai ad aiutare l’amico, la lenza resistette miracolosamente e così anche la canna, tirammo fuori dall’acqua un bestione enorme, probabilmente da qualche anno padrone di quella pozza d’acqua.
Certamente una fine ingloriosa, sconfitto da due inesperti ragazzini, alle prime armi nella tecnica della pesca.
Grande fu lo stupore della gente che assistettero alla scena.

Non fu facile slamare quel pesce, si contorceva con vigore e dopo poco fu quasi completamente avvolto nella lenza che si trasformò nella temuta “parrucca “incubo di tutti i pescatori con la canna.
Poi con una grossa pietra lo colpimmo ripetutamente finché rimase immobile a quel punto, lo trasportammo non senza qualche difficoltà sulla strada, dove nel frattempo si era radunata una piccola folla.
Fu cucinato in umido dalla mamma del nostro amico, una porzione spettò di diritto anche a me, ma dopo la seconda forchettata rinunciai disgustato dal sapore grasso e d’acqua stagnante che avevano le sue carni.
foto Archivio Fotografico Varagine.
