Quella Barca du Fen

Furono inverni freddi, quelli degli anni 40.

L’inizio di quell’ultimo anno di guerra il 1945, stava mantenendo l’andazzo dei precedenti, con le abbondanti nevicate, arrivate in anticipo ad imbiancare Sassello e dintorni.

D’estate, c’era l’immensa, impenetrabile foresta della Deiva, che proteggeva, dava riparo e garantiva innumerevoli vie di fuga a molti giovani, quelli che avevano scelto di vivere, quelli che avevano declinato la chiamata alle armi, rifiutando l’arruolamento nella repubblica fantoccio di Salò.

Ma rifugiati e nascosti in quei boschi, c’erano anche giovani adolescenti, che già dall’età di sedici anni, potevano essere prelevati e arruolati con la forza dalle milizie fasciste e magari mandati in un campo di addestramento, per essere inquadrati in qualche milizia fascista, obbligati a far adunate e patetiche marce con il passo dell’oca.

Anche loro, scelsero di andare in montagna, magari seguendo un fratello maggiore, uno di quelli, che la guerra l’aveva già vista e vissuta e scampato al gelo della steppa russa o alle sabbie del Sahara.

E dopo l’otto settembre, quei contadini, destinati a essere carne da cannone avevano deciso di vivere, e di non imbracciare mai più un’arma, contro altri loro simili.

Il freddo di quell’inverno del 44, non poteva essere sopportato per molto, anche se si era al riparo in te un seccau o sutta na pria là in ta Deiva, non si poteva accendere dei fuochi per scaldarsi , era troppo pericoloso, il fumo li avrebbe traditi, le spie erano sempre all’erta, pronte ad una delazione anche solo per un paio di scarpe……

Con una spessa coltre di neve, era arduo, impossibile, per le vivandiere, addentrarsi nella foresta e raggiungere il punto convenuto, dove consegnare i viveri e poi tutte quelle orme, sulla neve fresca, bastava seguire quelle e il loro nascondiglio non sarebbe stato più sicuro.

E allora questi giovani, renitenti di leva e antifascisti, lasciavano i loro nascondigli e scendevano verso valle, alla ricerca di un rifugio, nei pressi di un’abitazione, dove qualcheduno poteva offrir loro un riparo per la notte, un piatto caldo e magari riuscire a scaldarsi intorno ad una stufa.

Spesso si avvicinavano alla loro casa, dove abitavano, genitori, fratelli e sorelle, ma era grande il rischio, che correva quella povera gente, i manifesti parlavano chiaro, chi nascondeva un disertore o un antifascista, era passibile di pena di morte e per rincarare la dose di terrore, le case di chi trasgrediva, quegli ordini sarebbero state date alle fiamme!

Nei solai delle case di campagna, dove c’erano i depositi di fieno, erano stati creati improvvisati nascondigli, ma guai a togliere quelle grandi scale di accesso quello, era un chiaro segnale che lì c’era qualcheduno nascosto.

Allora meglio cercare un’ altro nascondiglio, all’esterno, in te barche da fen, dove erano accatastate le balle di paglia, all’interno, era ricavato un vano capace di contenere due, tre o più persone.

Proprio in te na barca da fen ad Alberghè, erano nascosti in quattro, Pierino, Miglio, Pierin e Pippu, da dove con il favore del buio, potevano uscire, per rifugiarsi in casa, ricongiungersi brevemente con i famigliari, il tempo strettamente necessario per un veloce pasto caldo e un po’ di sollievo, accanto ad una stufa, il tutto avveniva nel silenzio e buio totale, con un paio di fratelli o sorelle di guardia ad una finestra o all’esterno della casa nei pressi di un’altura.

Il possidente del latifondo, il noto fascista generale Ulderigo Nassi, aveva intimato a mio nonno, u Chichin, di non dar rifugio a quei due figli, ricercati dai fascisti.

Pierino e Miglio erano i miei cari zii, i fratelli di Catte mia mamma, il generale Nassi, disse a Chichin di consegnarli a lui, che sarebbero stati in buone mani.

Ma in quel piccolo paese, si sapeva di chi presentatosi alle autorità fasciste, dopo un breve periodo di diserzione, era sparito nel nulla.

Mio nonno, non si fidò, delle parole di quell’uomo, autoritario, ma che sembrava disponibile ad aiutare i suoi figli.

Come poteva fidarsi di un uomo, che aveva provocato la morte per assideramento, di due suoi figli neonati, forse due bambine, perché credeva in una grande forte razza italica e sottopose quelle fragili creature, ad un abluzione nell’acqua gelida, in una sorta di selezione naturale

Ogni giorno aumentava di numero, l’elenco dei disertori e renitenti di leva, la volontà popolare, voleva la fine di quella inutile guerra e allora in un impeto di rabbia, furono organizzati, nei mesi di dicembre 44 e gennaio 45, dei grandi rastrellamenti, mirati soprattutto a terrorizzare quella povera gente, che senz’altro stava nascondendo disertori e aiutando i partigiani.

Nisio era un ragazzo, aveva 14 anni, un giorno alle porte di Sassello vide arrivare una colonna militare, pensò subito ai fratelli nascosti là in quel pagliaio, doveva correre veloce a casa per dare l’allarme e allora si arrampicò su per la scarpata dau Sullaiò, ma così facendo insospettì alcune camice nere, perchè quel ragazzo stava scappando?

Nisio fu bloccato e fatto salire su un camion, gli intimarono di dire dove erano nascosti i fratelli, ma lui non proferì parola, allora fu percosso brutalmente, l’automezzo fece un giro per le strade del paese perchè le botte che stavano rifilando a quel ragazzo, dovevano essere viste da tutti, per terrorizzare quei sudditi ingrati, protettori di vili e traditori della patria.

Nisio, condotto in comune, fu sottoposto ad un altro interrogatorio e nuovamente malmenato, ad ogni colpo il berretto gli cadeva dalla testa, lui lo raccoglieva, per poi perderlo di nuovo a seguito di un’altra percossa.

Arrivò suo padre, mio nonno, per chiedere pietà per quel suo figlio, chissà forse malmenarono anche lui, sospettato di tener nascosti quei suoi due figli.

Nisio, Tonia, Pierino, Ida, a nonna Maria, Miglio, Catte, Angela

Questo ed altro succedeva nelle nostre campagne.

Molto diverso e pericoloso era nascondersi in un centro urbano, serviva una rete di persone di cui fidarsi ciecamente, muoversi di notte era praticamente impossibile.

Anche le riunioni degli antifascisti dovevano essere ben organizzate e ci voleva sempre qualcheduno al di sopra di ogni sospetto, pronto con le armi a far da guardia anche a sacrificarsi per la libertà, uno di cui fidarsi ciecamente.

Ma per un paio di scarponi a Varazze….si poteva anche chiudere una porta e avvisare i tedeschi, che prelevarono alcuni antifascisti e li deportarono nei campi di lavoro, questo successe in un oscuro periodo della nostra città, fatto di terrore e di ignobili delazioni, con la deportazione di 45 cittadini rei di essere antifascisti o renitenti di leva, un’aspetto mai indagato, di quella guerra civile, che si scatenò, dopo l’otto settembre, i nomi di 16 di loro non più ritornati,si possono leggere nel monumento ai deportati.

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