
Con Cesco e Peo a Tana di Levrè
Levrè….levre? No la lepre, non c’entra nulla con questo toponimo, che deriva dal genovese levrusi, lebbrosi, tradotto nella parlata di Alpicella/Faje abbreviato ed accentuato, in Levrè.
Non esistono documenti, che attestino un’antica presenza di un gruppo di lebbrosi nella Tana di Levrè, ma i toponimi fanno sempre riferimento a fatti o avvenimenti realmente accaduti e tramandati anche in forma verbale, come in questo caso, ed è probabile quindi, che nel medioevo, oppure più recentemente, questo sia stato l’ultimo rifugio che trovarono delle persone colpite da un male che non dà scampo.
La Tana di Levre’ e’ un riparo sotto roccia, che si trova sul versante marino del monte Greppino, introvabile in mezzo ad un mare di pietre, sono diverse le storie relative a questa grotta che fu anche rifugio di partigiani.
Questi anfratti, sono stati creati dall’incastro di giganteschi massi, trasportati, in uno dei periodi di glaciazione terrestre, dal movimento della massa di un enorme ghiacciaio, che scavalcava questo monte con le sue propaggini, spostando e facendo roteare, queste gigantesche rocce verso valle.
Queste rocce anche di notevoli dimensioni, sono rimaste in questa posizione, come una gigantesca cascata immobile, da qualche milione di anni, dopo lo scioglimento e la scomparsa del ghiacciaio.

Cesco ci guida alla ricerca della Tana di Levrè, dalle Faje, imbocchiamo la strada che conduce alla Colletta, lasciamo l’auto, dopo un paio di tornanti, per prendere un’ipotetico sentiero, non più tracciato e si sale per almeno mezz’ora, verso il versante sud del monte Greppino, tra ampie radure rocciose e boschi misti de ersci, pin, castagne, freisce, con le immancabili brughe, stupendi i due panorami verso le Faje, Genova e verso la nostra città e il mare.

Serve u marasso du Cescu e le tesuie di Peo, per districarsi fra i rovi, mentre raggiungiamo la pietraia.
Non esistono segni di riferimento, solo una bozza di sentiero, un passaggio di animali selvatici, che ci porta al cospetto di un’enorme macigno.

Qui inizia una difficoltosa discesa, in mezzo alla cascata di pietre, tra fenditure e cavità, scivolando sopra la superfice di grandi rocce fortemente inclinate e anche pericolanti, alla ricerca di un improbabile appiglio, cercando di indovinare il percorso meno pericoloso, in mezzo ad una immenso puzzle di rocce.
Cescu ci avvisa che siamo arrivati… ma dov’è sta grotta?

La Tana di Levrè è un anfratto, quasi nascosto alla vista, a cui si accede a carponi, l’ambiente interno è diviso in due da una roccia abbattuta.

All’interno, un’ampia cavità, permette di stare in posizione eretta.

Almeno cinque o sei persone, potevano vivere e pernottare al suo interno, la luce solare penetra tra le ampie fessure, la Tana di Levrè è ben illuminata e arieggiata, cosa alquanto necessaria, per chi doveva vivere lunghi periodi, in questo riparo, altre fessure più piccole, sono state invece tamponate, con muretti di pietre.

L’ambiente è molto suggestivo, con le variegate colorazioni dei muschi, licheni e delle rocce, contrasti di colori esaltati dai raggi del sole, sulle pareti non ci sono tracce di segni, incisioni o scritte.

Dopo le foto, purtroppo di bassa qualità, strisciamo via da sotto la pietra, che divide la “zona giorno dalla zona notte” e usciamo all’aperto. All’esterno si ha una bella vista, verso le località sottostanti del Poggio e del Bin…. una cosa strana, ma curiosa è la presenza di alcuni alberi di ciliegie, che crescono in prossimità e in mezzo a queste rocce, forse i semi da cui sono scaturite quelle piante, erano stati gettati da chi, si era rifugiato in questo anfratto.

E’ tempo di ritornare…. Io e Peo, osservando preoccupati, l’ardua risalita che ci attende, rinunciamo ad effettuare il ritorno, da dove siamo arrivati, con una laconica frase “Mi de lì nu ghe passu ciù!”.
Optiamo per un altro percorso, un saliscendi che si rivela più ostico del previsto, con grandi massi da superare, districandosi in mezzo a ruvei, brughe, grattacu e spine da furnu e qualche scavenna in te die.
Cesco che è risalito facendo lo stesso percorso della discesa ci sta aspettando per il ritorno.
Belù giu!! Grazie a Cesco e Peo!
Sconsiglio di avventurarsi alla ricerca di questo anfratto, troppi i rischi quando si affrontano le cascate di rocce, visto la precarietà di rocce anche di notevoli dimensioni, che in caso di distacco, possono diventare un serio pericolo per la propria incolumità

Come tutti i ripari sotto roccia, anche la Tana di Levrè, sarà stata, in primis, rifugio di animali e uomini, le testimonianze delle frequentazioni umane, sono evidenziate dalla presenza di alcuni cumuli di pietre a tamponamento delle fessurazioni. Chissà chi si sarà riparato, dalle intemperie sotto a questi inquietanti massi è probabile, che qui si insediavano dei piccoli nuclei nomadi del paleolitico intenti ad effettuare battute di caccia o a raccogliere i frutti di stagione.
L’uomo abbandonò questi rifugi, nell’epoca neolitica quando divenne stanziale e costruì le prime capanne di legno e fango.
Queste dimore furono poi nel tempo utilizzate da viandanti, senza fissa dimora, e da chi doveva sfuggire a persecuzioni, come succedeva per i lebbrosi, costretti, per segnalare la loro presenza a portare un campanello, legato alle caviglie, cacciati dai centri urbani ma anche dalle campagne e dalle coltivazioni che occupavano gran parte del nostro entroterra, solo il Monte Greppino, dall’aspetto roccioso e inospitale, non aveva di terrazzamenti e coltivazioni, ma fortunatamente alcuni ripari sotto roccia dove potersi nascondere.
E chissà forse i lebbrosi arrivano fin quassù, per un viaggio della speranza, in prossimità nella villa dell’Alpicella, dove si venerava S.Antonio Abate e si era sparsa la voce, che i monaci di quella chiesa, avevano degli unguenti per curare le malattie della pelle.

Il santo è raffigurato da anziano, con un campanello e un maialino ai piedi, a simboleggiare la vittoria dell’eremita contro le tentazioni. Nella cultura contadina S.Antonio è stato eletto protettore di tutti gli animali domestici.
In ossequio al santo i monaci antoniani iniziarono ad allevare i maiali e con il grasso di questi animali confezionavano degli unguenti per curare le infezioni della pelle, tra cui il fuoco di S.Antonio.
La lebbra si accanì anche nella nostra Liguria e in particolare a Genova, nel medioevo molti furono i casi di persone rinchiuse nei quattro lebbrosari della città.
Anche a Varazze sarà arrivato il male “scabroso” e quel toponimo la Tana di Levrè, sta a testimoniare la cattiveria degli uomini che si accanì su di un gruppo di lebbrosi cacciati da ogni zona della nostra città e costretti a vivere gli ultimi giorni della loro vita, sotto una pietra come degli uomini primitivi!
Ma è triste dover fare una constatazione di fatto, se degli esseri umani bisognosi di ogni cosa, furono cacciati da ogni luogo, dove avranno chiesto pietà e carita’, respinti minacciati a tal punto, da cercare un buco fra queste rocce, dove nascondersi, allora c’è da chiedersi, dov’era la carità dell’uomo, l’amore per i propri simili?
Perché degli esseri umani sono stati costretti a terminare la loro già triste esistenza come degli animali?
Mi piace pensare che ci sia stato un uomo o qualche famiglia che, con quella pietà che manco’ ad altri uomini anche di fede, fornisse loro del cibo e altri generi di necessità lassù a quella povera gente, in quella cascata di rocce, nella Tana di Levrè.
In Italia la lebbra fece la sua comparsa già nell’antica Roma, un notevole incremento di casi si ebbe nel medioevo Questa malattia scomparve ma non fu debellata del tutto dall’Europa nel XV secolo.
Ancora oggi in Italia si verifica una media di quindici nuovi casi ogni anno,
I malati non sono soltanto immigrati stranieri ma anche turisti e lavoratori italiani che sono rimasti contagiati durante viaggi in zone a rischio.
A Genova i casi di lebbra sono curati presso il reparto di Dermatologia Sociale il reparto degli Hanseniani o dei lebbrosi del San Martino di Genova
Ricevo e pubblico da Paola Vallerga e Lorenzo Vallerga il seguente commento
“La lebbra è in tutto il mondo, specie in India e in Africa ma, ora, è arrivata anche in Italia, anche se, incredibile a dirsi, vi è sempre stata. In una località della Liguria vi sono parecchi lebbrosi che, però, si continuano a curare presso il Centro Osservatorio di Genova, unico in Italia, e non sono contagiosi. Però non esiste un vaccino, non si può prevenire la malattia, è necessario curarsi continuamente. In quella località, chiamiamola X, si narra che da centinaia d’anni esiste la lebbra e non si sa per quale motivo non siano mai riusciti ad estirparla come un’erba gramigna.”
