I Coggipigne

I fatti narrati in questo post, mi sono stati raccontati da Renato Righetti classe 1936, che ringrazio per la sua gentile disponibilità, lui è stato un ragazzo Coggipigne, a fine anni 40 e come tutti, aveva il suo nomignolo, u Neigru, per via della sua pelle sempre scura, anche il fratello più piccolo, Rolando, detto il Pecetto, partecipava alla raccolta, erano sei i figli della famiglia Righetti.

I Coggipigne, era un termine un po’canzonatorio, nei confronti di chi, solitamente ragazzi di 12/13 anni, per racimolare due soldi si arrampicavano su dai bricchi e sopra i pini, ritornando per l’ora di pranzo, con 60/70 chili di pigne, dentro a un sacco, da portare a spalle giù dalla via Bianca e poi ritornare anche nel pomeriggio, con un panino in tasca per la merenda.

Le pigne sono un ottimo combustibile, erano molto usate nei primi anni del dopoguerra, nella nostra città, quando in ogni casa c’era almeno una stufa per riscaldarsi e far cuocere il mangiare e poi non serviva la carta, bastava dar fuoco ad una pigna per iniziare la combustione.

Questa è la storia di quattro ragazzi, u Neigru cun u Pecettu, Sanguinettu e Minetto detto u Legnettu, cresciuti troppo in fretta, durante la guerra e poi negli anni 50, già al lavoro come gli adulti.

Erano i figgiò di Muinetti, dal nome della borgata, all’inizio della via Bianca, dove risiedevano, qui arrivava il beo dalla ciusa della Besestra, che faceva girare le macine dei frantoi, una parte dell’acqua di scarico, era deviata verso gli orti della Camminata, mentre la quota maggiore, sottopassava con un sifone il letto del Teiro e proseguiva con un beo, fino al mulino da grano dei Pantellin , nei pressi dell’Assunta, prima però irrigava gli orti della Lomellina, in sponde destra del fiume.

Troppo zueni, per andare a lavorare e poi a far che cosa? La loro unica arte e mestiere, era una cosa comune a tutti quelli nati e cresciuti Sciù da Teiru, quella di essere padroni di un mondo, fatto di infiniti passatempi e giochi, scalzi nel greto di un fiume prima a giocar con le barchette e poi a dar la caccia a anghille, baggi e mungagi, le bisce d’acqua o a far scorribande per boschi a costruir capanette, tirar con u frustò, fionda e poi nei prati con l’erba lunga duvve rubatose e scrugì, non c’erano confini per quel mondo, bastavano un paio di amici e si saliva anche su dai bricchi, più in alto a vedere diventare piccole le cose.

E chissà quante volte quei quattro ragazzi avranno fatto, per gioco o per altro, la salita della via Bianca, specie nel periodo delle scesce, perseghe, armugnin e brigne ma anche delle fave e merelli, andar per frutta, era pericoloso per la propria incolumità, perché gli adulti erano molto meno comprensivi, nei confronti dei bambini, le coltivazioni facevano parte dell’economia di molte famiglie ed erano sempre sorvegliate, e se ti beccavano a rubar sopra un’albero o in un campo coltivato, allora bisognava essere veloci a scappare, per non beccar delle legnate, ma guai dirlo a casa, che il vicino di casa ti aveva legnato!C’era il rischio di prenderle un’altra volta!

Ma era tutta arte che entrava e che un giorno, sarebbe servita a un buon Coggipigne per riuscire a salir e scendere da ogni tipo d’albero.

Arrivo’ il 25 aprile, annunciato alle 6 di mattina, dal rombo dei camion tedeschi, che transitavano carichi di soldati della Wermacht in via Piave, verso il Giovo, quello era il segnale che la guerra era veramente finita, ma era anche il via libera al saccheggio, dei locali presso l’Hotel Genova, lasciati liberi da quell’esercito di occupazione, tutta la città partecipò a svuotare completamente quell’edificio, chi arrivò tardi o era solo un bambino, si dovette accontentare delle cose scartate dagli altri, come uno stivale destro da ufficiale e uno sinistro da soldato, la taglia era un po’ grande, ma era la stessa per entrambe le scarpe e poi il piede sarebbe ancora cresciuto, finalmente un paio di scarpe ai piedi du Neigru da portare tutti i giorni della settimana !

Arrivarono i primi aiuti anche alimentari a poco a poco l’economia della città si rimise in moto, ma c’era bisogno di tutto, soprattutto di combustibile e la legna era ancora di gran lunga quello più usato, ma era venduta a caro prezzo e anche le pigne allora acquisirono il loro valore.

Finì così per quei quattro amici, l’età dei giochi, non più a perder tempo in Teiro o nei boschi del Buontempo e Carmettu, intuirono la possibilità di far qualche soldo con la raccolta e vendita delle pigne e fu proprio da questa altura, che iniziarono la loro attività di Coggipigne e da questo bosco di grandi pini marittimi discesero molte volte, lungo i sentieri e poi giù verso casa imboccando la Via Bianca, con i sacchi di juta stracolmi, a stento trattenuti legati con uno spago.

C’era chi tollerava, un moderato prelievo di legna e pigne dalla sua proprietà, era rimasta ancora a differenza di oggi, la solidarietà fra concittadini, ci si aiutava anche così, chiudendo un occhio, lasciando raccogliere un po’ di pigne a quattro ragazzotti dei Muinetti. Ma quando la cosa divenne “imprenditoriale” allora fu giocoforza, allontanare in malo modo i Coggipigne dal bosco del Buontempo.

Ma le pigne non finivano mai! Altri boschi potevano essere visitati la Costea di Casanova fu il secondo sito di raccolta e se non bastavano quelle alla base degli alberi, allora si saliva sui pini dei boschi che circondavano la cappella del Beato Jacopo o sul Muntadò. Agili come dei primati, facevano cadere quelle rimaste sui rami, anche quelle verdi, che se miste insieme alle secche maggioravano il peso sulla bilancia e di conseguenza il ricavato della vendita.

Dei quattro amici il più lesto a saliscendere dagli alberi era u Legnettu! Era uno spettacolo vedere questi ragazzi arrampicarsi sulla ruvida corteccia, arrivare in cima ai rami anche quelli più sottili per far precipitare anche l’ultima pigna rimasta! E quel brav’ uomo di Steva sensa brassu, che coltivava le ultime fasce della via Bianca, li guardava con nostalgia, la guerra gli aveva portato via un braccio e da giovane anche lui era stato un Coggipigne

Lungo i percorsi c’erano le pose e il ricordo della loro ubicazione è ancora vivo nella memoria di Renato che mi elenca tutti i posti, dove erano questi mucchi di pietra, spesso i ragazzini Coggipigne portavano sulle spalle dei sacchi molto pesanti, ben superiori al loro peso corporeo, il tragitto in discesa era cadenzato dalle pose dove si fermavano per qualche minuto, qui riprendevano fiato e forze per arrivare alla posa successiva.

Erano giovani e forti inevitabili le gare a chi riusciva a portare il sacco più pesante u Neigru battè ogni record, riusci a scendere dalla via Bianca con un carico di ben 86 kg di pigne, la maggior parte erano verdi!.

Delle pose elencate, restano solo quelle che si incontrano nelle praterie verso la Costea o nella zona della Madonna della Guardia, molte sono derute e restano soltanto dei muggi de prie..

Gli “affari” andavano bene, la raccolta era effettuata durante tutti i mesi dell’anno e con i proventi della vendita effettuata in via Piave, nei pressi dello spaccio del Cotonificio, ci si poteva toglier qualche sfizio un gelato un toccu de figassa e andare al cinema la domenica, con il vestito e le scarpe della festa.

Nei primi anni del dopoguerra i cinematografi spuntarono come funghi nella nostra città, e raddoppiavano di numero con la bella stagione, quando aprivano le sale cinematografiche all’aperto, sotto le stelle, grande successo ebbe al cinema Eden, la proiezione della pellicola di “Tarzan, l’uomo scimmia”, che svolazzava nella giungla di albero in albero……ma come mai non averci pensato prima?…..era possibile evitare di scendere per poi salire su un altro albero raccogliendo delle pigne? Una perdita di tempo inutile, risolta da Tarzan con le liane. Ma liane non ne abbiamo e come fare allora? Risolto l’enigma gli alberi di pino erano abbastanza ravvicinati e flessibili, ed era possibile farli ondeggiare e poi al momento giusto saltare sull’albero adiacente, senza dover effettuare il saliscendi, naturalmente non ci si curava dei lividi e graffi e il sangue delle ferite.

Con la bella stagione il caldo sul Muntadò, l’Aniun a Noia o il Monte Grosso era insopportabile come il canto delle le cicale che si scaldavano al sole di quelle estati degli anni cinquanta.

Ogni tanto dal cielo arrivava l’interminabile rombo dei Douglas, i primi aerei di linea, quadrimotori ad elica, da guardare con il naso all’insù, una scusa a se stessi, per una pausa nel lavoro, per asciugarsi la fronte dal sudore, forse pensando che poteva esserci una vita migliore …chissà cosa avrebbero fatto da grandi quei quattro ragazzi.

Nei caldi pomeriggi di luglio si posticipava la raccolta scendendo per un bagno nei laghetti dell’Arzocco, con la poca acqua che era rimasta prima che asciugasse del tutto.

Il mare era laggiù distante dai Coggipigne, con la sue spiaggia i primi turisti i bagni, un mondo diverso allegro scanzonato, una tentazione per un ragazzo, ma i vecchi dicevano che prendere tutto quel sole faceva male alla testa…..

Di quelle grandi foreste di conifere, che ricoprivano le pendici dei nostri bricchi, visitate dai Coggipigne, non resta più nulla.

Ripetuti incendi, negli anni 90, hanno devastato tutte le nostre colline, l’ultimo grande incendio, fu il 10 settembre 2001, quando un furioso incendio devastò tutto l’entroterra di levante, a Leistra, Beffadossu, S.Giacomo, S.Anna, u Desertu, u Muagiun, a Ramugnina, l’Aniun, a Custea, l’Arsoccu, u Cavettu, u Briccu da Pansa, a Madonna da Guardia, i Cian de Donne e de Freisce, Invrea , 80 ettari d boschi e praterie andarono in fumo.

Le tecnica era la stessa, per tutti gli incendi, che erano appiccati all’imbrunire, sempre nelle giornate con vento di tramontana, molte volte le fiamme, hanno iniziato, la loro scia di rovina, nei pressi della Ramognina.

Quando faceva buio, nell’aria si sentiva l’inconfondibile odore dell’incendio e dal rossore, che rischiarava il cielo si intuiva, quale era la zona, interessata dal fuoco.

Poco riuscivano a fare di notte, i volontari e VV FF per circoscrive l’incendio, solo con la luce solare potevano volare i Canadair, e le loro spettacolari evoluzioni, attiravano un sacco di gente, in so punte a Vase, spettatori, con il naso all’insù, di uno spettacolo di rovina.

La nostra comunità rassegnata, si abituò a questi ripetuti roghi.

Già da tempo, sui bricchi che sovrastano l’abitato di Varazze, non esisteva più l’economia del bosco , nessuno andava più a cogge de pigne, a fo u giassu pe e bestie, a pascolar degli animali o a tagliar legna, un bosco, che bruciava divenne per tutti un qualcosa da vedere, senza indignarsi più di tanto

Poco o niente svelarono le indagini, archiviate per mancanza di indizi certi e con l’onnipresente fatalismo all’italiana, si disse che erano stati i soliti piromani, gli autori degli incendi.

Mai si parlò di mandanti o di chi, da quello scempio, aveva avuto dei vantaggi.

Totem di alberi, sulle nostre colline, ci ricordano di un’irreparabile danno arrecato al territorio, di un reato, diventato uno dei tanti misteri italiani.

Quei bei boschi, de pin dumesticu, che i me oggi nu vedian mai ciù.

Renato Righetti 15/05/2020. Tanti anni dopo, sono salito fino al B.Giacomo, ed oltre, tutto mi era estraneo, tutti i sentieri d’allora non mi ci ritrovavo più, nemmeno i boschi dove ero di casa ogni giorno non erano così nei miei ricordi. Anche la via Bianca non è più quella di una volta, ho sentito che nella prima parte hanno fatto dei gradini. A parere mio era meglio prima. Quando tagliavamo dei Pini, molto di rado, scivolavano facilmente sulle pietre bianche.(altro non soò, solo sentito dire). Ciao a quelli sciu da Teiru.

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