Quella Figgia du Burgu

Ho preso lo spunto, per questo racconto, da avvenimenti storici, li ho collegati a delle escursioni da me effettuate sul territorio della nostra città, completate con delle ricerche sul web, dai risvolti interessanti, e con questi ingredienti è uscito questo post, in cui ipotizzo una soluzione, ad un mistero risalente a molti anni fa.

Naturalmente essendo un breve racconto con qualche base storica, non può essere esaustivo delle tante vicende, che hanno caratterizzato il periodo di ambientazione.

È pur sempre uno scritto di fantasia, ma verosimile con il periodo storico, suscettibile di ulteriori aggiunte, modifiche e precisazioni.

Note Storiche di Varazze

Mario Garea, nel suo “Note Storiche di Varazze” accenna a degli scavi archeologici, effettuati negli anni 50, presso l’attuale Ortu du Parrucu, dove vennero alla luce diversi reperti di epoche eterogenee, anche qualche manufatto di epoca preistorica, molte le testimonianze architettoniche delle due, forse tre, antiche chiese di S.Ambrogio, che furono edificate all’interno delle vecchie mura del Castello Aleramico sulla collina di Tasca.

Durante le campagne di scavo, si ritrovarono alcuni affreschi, nella parete nord di una di queste chiese, ma prima di continuare gli scavi dove sorgeva la navata centrale, i lavori furono “poscia tralasciati. Il motivo ce lo fa intuire il Garea, durante gli scavi fu ritrovato lo scheletro di una fanciulla “che conserva al dito di una mano, tracce di una difficile operazione chirurgica la quale nel medioevo poteva eseguirsi soltanto a Bologna….”

I tre puntini sembrano come voler lasciare al lettore le ovvie conclusioni ….ma quali sono ?

Forse si riferiva allo stop lavori, per il fondato motivo, di scoprire altre tumulazioni o forse quello di riportare alla luce inconfessabili delitti sepolti fra quelle rovine?

Chi era quella giovane fanciulla e che c’entra la chirurgia bolognese?

Ad oggi è un enigma senza soluzioni.

U Cian de Donne

U Cian de Donne è stato cosi chiamato in onore delle tante mamme, figlie, mogli e ragazze che ebbero l’ingrato compito, della bonifica di questo rilievo, da prie, ruvei, brughe e erbui, facendolo diventare terra da pascolo e da fienagione.

Oggi testimone di questo immane lavoro è l’enorme catasta di pietre, che furono estratte da questo e da altri bricchi, e depositate dove forse si voleva edificare, una torre a scopo difensivo e di controllo.

Sulla sommità du Cian de Donne, si ha un’ampia e suggestiva vista a 360 gradi, comprensiva di uno scorcio dell’arenile della nostra città.

Questo racconto è ambientato nel basso medioevo, quando Varagine era sottoposta alla dominazione e ai capricci dei signorotti locali, sempre in bega fra di loro, a metà del XXIII secolo, erano i marchesi di Ponzone, insieme ai marchesi del Bosco e ai Numascelli, che avevano ampi possedimenti nel territorio della nostra città, in questo contesto, anche la Chiesa vantava diverse proprietà.

Quella figgia du Burgu

Angelica ( il nome le fu dato dal prete battezzante a cui i genitori chiesero che nome dare a quella bimba) era una ragazza di 16 anni, che come tante altre, sue coetanee, seguiva la mamma e i suoi fratelli nell’arduo lavoro, che il marchese di Ponzone aveva affidato ad alcune famiglie del Borgo, senza terra e sempre in cerca di un lavoro, quattru scuu, per tia`sciu na nià di figgi.

Famiglie scelte dal marchese, in base alle informazioni avute dai previ, carpite nel segreto di un confessionale donne, madri, mogli e ragazze , devote pie, di buon comando, per far diventar quella cima arida e brulla, du Cian de Donne, terra buona per il pascolo e la fienagione.

Un giorno di ottobre del 1244, si sparse la voce che dal castello del Terminus, l’attuale zona d’Invrea, al confine con il torrente Sputigiò, sarebbe arrivato il Papa, in molti pensarono ad una novella, del solito buontempone, ma tutto poteva essere.

Lo Spedale per pellegrini, che era sorto accanto a S.Maria di Latronorio, era sotto l’egida del trono di S.Pietro.

Ci fu chi giurò di averlo visto arrivare a S.Giacomo, attraversando il nuovo ponte ad arco della Maddalena, che valicava la sciumea dell’Arrestra.

Questo collegamento, fra le due sponde, tra Varagine e Cogolytus, accorciava di molto il tragitto di chi proveniente da Genua, doveva arrivare nella nostra città.

Si evitava quel lungo e periglioso percorso montano, da Hasta al Colle di S.Donato, che venne definitivamente abbandonato.

E u Scoggiu d’Invrea spauracchio dei romani, fu superato dau Punte du Spurtigio’

La viabilità medievale raggiungeva il centro città, da quella che oggi noi impropriamente chiamiamo via Romana.

La notizia dell’imminente arrivo di Innocenzo IV, mise in fibrillazione tutta la comunità di Varagine.

Molti si precipitarono au Cian de Freise, per osservare la sottostante zona del Latronorium e di S.Giacomo, ma del Papa e della scorta per il momento mancu a spussa.

A spussa, che invece proveniva da quel dito, a l’ea fetente, Angelica lo aveva lasciato sotto ad una grossa pietra, una di quelle che la sua gracile schiena da adolescente, doveva trasportare.

Era inciampata e cadendo a man gh’ea restò sutta a pria.

Urlò di dolore quella povia figgia, accorsero i fratelli e poi la mamma, donna di poche parole, che punì la figlia con un lerfun, su di un volto già rigato dalle lacrime, rimproverandola di non essere stata attenta e che comunque le pietre le doveva portare lo stesso, perché se arrivava il capatasso, erano guai se la vedeva a fo un belin!

Strappando con rabbia un lembo da fadetta di Angelica, fasciò alla belle e megiu quellu diu, visibilmente fratturato e sanguinante, lo bloccò, unendo insieme due dita l’anulare e il mignolo.

Le gridò di alzarsi e andare con i suoi fratelli, loro sì che erano bravi mica come lei che perdeva sempre del tempo a guardare il mare o i monti!

Quella donna, non aveva nessun sentimento di affetto, verso la primogenita, memore dei dissapori in famiglia, quando furono pressanti le aspettative per la nascita di un figlio maschio, che non arrivava mai, solo dopo altre due sorelle, stranamente morte dopo il parto, arrivarono i due eredi maschi.

Il secondo uomo di famiglia però era sempre lei, fin da subito, addetta a lavori pesanti nei campi e nelle zone prative, dove era abile ad adoperare a messuia.

Era quasi sempre insieme a suo papà e spesso lo superava in velocità nel taglio dell’erba, le piaceva star insieme a lui e voleva bene a quell’uomo, anche se da lui, Angelica ciappava de botte, specie quando tornava, ciuccu persu, in quella stamberga di Mascelli, e si percepiva che il capofamiglia aveva avuto una giornata storta.

Ma era democratico e un casciu o un lerfun, lo beccavano anche i fratelli e quella donna che chiamava muggè.

Le aveva insegnato molte cose e poi era bella la vita all’aperto, Angelica conosceva ogni sente` di quei bricchi, scurse, e rian non aveva paura della selva del Latronorium, con suo papà ci andava per funghi e a raccogliere le pigne da vendere in ciassa.

Ma la cosa più bella, era quello stupendo panorama, che si poteva godere dalle zone, oggi identificate con i toponimi di monte Grossu, Cian de Donne, I Funtanin, Cian de Frese e u ma, sempre uguale ma sempre bellu da vedde e poi lo sguardo scendeva giù, verso a Custea, Brigna, Beffadossu e le case delle Sevisse, dove si vedevano tanti ommi cun u piccu e pala.

Il Marchese, aveva fatto disboscare una grande porzione della selva del Latronorium, al fondo della Custea, creando una radura fra i rien da Ciusa e de Sevisse, quei braccianti, come schiavi, dovevano spianare dissodare, sradicar radici togliere le pietre, per rendere quella terra fertile e chissà perché erano gia`state edificate quelle due case con enormi fatiche, per portare I materiali da costruzione.

E Sevisse

Anche il papà di Angelica era laggiù in te Sevisse, dove si vedevano quelle nuvole di polvere alzate dall’uso dei piccuin e di bai, ma come fare a distinguerlo in mezzo a quella moltitudine, dove gli uomini lavoravano come le bestie per portar un tozzo di pane a casa?

Oggi le Sevisse sono un’oasi verde, in un paesaggio lunare, dopo i violenti incendi degli anni 90.

Chi arriva alle Sevisse, davanti al rudere della casa e ai resti di un altro edificio diruto, non puo’ fare a meno che meravigliarsi dell’enorme opera di livellamento, effettuata con la sola forza delle braccia, uomini ma anche donne che hanno modificato questa porzione di territorio, rendendolo fertile e formando na ciassa grande in quella foresta, che nel medioevo era parte del Latronorium.

Latronorium.

Confine naturale, dove i bricchi precipitano verso il fondo valle, formando una profonda gola, percorsa ed erosa dal fiume Latronium, oggi torrente Arenon, una porzione di territorio, oggi poco antropizzato, ma spesso nominato in antichi scritti come un territorio servegu, una selva inestricabile, fonte di leggende e di ancestrali paure e de taggiague

In ti Numascelli

Angelica riprese il faticoso camallo de prie, sentiva quel dito pulsare ed era un dolore lancinante, quando inevitabilmente lo urtava.

Una sera, prima di rientrare nella loro stamberga in ti Numascelli, una di quelle donne che frettan i vermi, tolse quella benda e fra le grida di dolore della ragazza, pose, recitando strane e incomprensibili parole, un unguento a base d’olio, da tenere sempre, fino a quando, non si vedeva uscire il pus purulento dalla ferita, quello era in momento del male, che usciva e quindi il dito poteva essere pulito.

Le dita furono ancora fasciate insieme, perché l’indomani si doveva partire presto dau Burgu, munto’ ai Ersci, poi fo u Rian da Moa, u Briccu da Pansa, attraversare i bellissimi terrazzamenti dei Funtanin e arrivare a quello che poi sarà chiamato u Cian de Donne.

Ma quella ferita si infetto` e Angelica aveva anche il braccio gonfio e livido non riusciva più a muoverlo senza sentir dolore, con grande disappunto di sua madre, le furono affidati lavori non più pesanti, era brava con la messuia e così fu adibita al taglio dell’erba.

Papa Innocenzo IV

Il Papa Innocenzo IV, arrivò ai primi giorni del mese di ottobre del 1244, con la sua corte, in fuga da Federico II che voleva farlo prigioniero, era diretto a Lione per mettersi sotto la protezione del re di Francia e da lì emettere la scomunica contro lo Stupor Mundi, fu ospitato per alcuni giorni dalle suore di S.Maria di Latronorium.

Qui si riposò dal lungo viaggio, poi il Papa, già Sinibaldo Fieschi di Lavagna natio e parlante l’idioma ligure, decise, dismessi i paramenti papali insieme ad alcuni suoi cardinali e qualche prete, di fare un giro di perlustrazione di quella porzione di territorio di cui si favoleggiava la presenza di grandi zone prative e per il pascolo e ottimo posto pe e primisse, verdue, tumote, fascio` cetruin, armugnin, persegue, articiocche e coi.

La corte papale era già stata in visita alla faraonica costruzione progettata dai Vallombrosiani, del Beo de S.Giacomo che prelevava l’acqua dal Deserto e la portava ai Cien de S.Giacomo.

La carita’ cristiana quel giorno non fu evocata, alla vista di quei bambini, che come bestie da soma, camallavan de prie, per costruire quel canale d’acqua.

Erano i famuli, bambini affidati dalle loro famiglie, ai frati dei monasteri perché fossero indrottinati al Cristianesimo.

Bocche in meno da sfamare per famigge cun de nie’ de figgi.

Piccole obbedienti braccia da lavoro per Vallombrosiani e Cistercensi

Accompagnavano il Papa in quella scampagnata,anche un gruppo di scagnozzi del marchese di Ponzone, e come sempre Teodorico, suo medico personale, che seguiva il pontefice in ogni suo agire.

Si ha un bel dire che i preti rifuggano dai piaceri della carne…. questo senz’altro non succedeva nel 1200, era cosa normale che i pastori di Dio si approcciassero al gentil sesso.

La corte al seguito del papa aveva visto quei bambini lavorare, ma dov’erano le loro madri e sorelle?

Fu inviato per la ricerca, un messo papale, con relativo accompagnamento.

Arrivati sui bricchi nei pressi du Cian de Donne, non si accorsero dello stupendo panorama, che da lì si poteva godere, furono distratti da altre cose….

Come fare a meno di notare tutte quelle mamme, figlie, ragazze, intente a dissodare quel colle?

Il timor di Dio si impadronì di quelle umili donne, che si inginocchiarono all’arrivo di quella piccola corte con i paramenti pontifici e il messo papale fu scambiato per il Papa.

Facili, prede quelle donne impaurite!

Furono adocchiate alcune di quelle figgie, tra cui spiccava Angelica, un delegato alla contrattazione si accordò per il giusto compenso da dare alla famiglia, in questo caso rappresentata dalla mamma di Angelica, che cedette dopo una breve trattativa, in affitto, quella figlia malvoluta e per giunta invalida, per due giornate di lavoro alla corte del Papa e intascò quella somma pattuita.

Naturalmente il tutto nella massima discrezione, ai famigliari e conoscenti andava detto, che quelle ragazze erano a servizio del Papa, suscitando le inevitabili invidie in paese!

Quella doveva essere la versione ufficiale, in pratica invece era una prostituzione minorile, non consensuale.

Era sempre stato, così in qualunque luogo di transito della corte di un Papa o quella di un re, c’era il luogo e il tempo delle preghiere, degli affari, delle alleanze e poi quello del piacere.

Si imbandivano grandi tavolate e si addobbavano camere da letto.

Tiranni, papi e re, erano sempre timorosi per la loro incolumità e allora le loro preferite, erano sempre presenti nel seguito.

A soddisfare le loro voglie carnali, con le donne locali, erano clerici o laici, che si deliziavano alla corte di papi e re.

Quale miglior posto, appartato e discreto, poteva essere scelto per compiere quell’infamia, se non quel posto fuori dal mondo delle Sevisse?

Sembrava fatto apposta, e forse era stato concepito proprio per quello scopo.

Come qualche secolo dopo, quando le palazzine di caccia di Vittorio Emanuele II, servivano per tutt’altra cosa, non per niente fu sopranominato il re dai cento figli!

Fu così deciso che quelle fugaci relazioni si sarebbero consumate proprio in quella radura, nella selva del Latronorium.

L’arrivo del Papa, portò una ventata di buone novelle nella comunità di Varagine, gente semplice laboriosa, testa bassa e travaggiò, piena di paure e succube del potere religioso.

Furono, giorni di festa per omaggiare in pompa magna il pontefice, fu proclamato anche il cessate lavori, del costruendo prato delle Sevisse e del Beo di S.Giacomo con l’obbligo di confluire in città per acclamare il papa.

Al papà di Angelica non gli pareva vero, di poter stare qualche giorno in famiglia ma come mai Angelica non c’era?

Angelica con le sue forme da donna adulta, fu adocchiata subito da quegli occhi scrutatori, di bellezze femminili, e senza mezzi termini, le fu detto che doveva recarsi in quella casa delle Sevisse, non doveva far nulla, solo di de sci ai previ e ai so amisci e se tutto andava a buon fine, quei bel vestito che doveva indossare, per quella eccezionale occasione, sarebbero stati i suoi.

A questo punto le cose precipitarono, e chissà se andarono a finire in altro modo rispetto al finale di questo racconto.

Alle Sevisse, Angelica febbricitante per l’infezione, al dito con il braccio dolorante, terrorizzata per quello che le stava per accadere, si accasciò al suolo e nessuno dei presenti, sapeva che fare per farla rinsavire.

Uomini di fede e parolai, incapaci e pavidi, in preda al panico per un possibile scandalo, inviarono un messo a chiamare Teodorico, che arrivò quando già le ombre della sera, avevano reso arduo percorrere il sentiero.

Frate Teodorico dei Borgognoni

Sul web si trova, a volerlo cercare, molta documentazione, che spiega ad esempio l’esistenza di una rinomata scuola chirurgica a Bologna, uno dei padri fondatori fu Ugo dei Borgognoni, che da Lucca si trasferì nella Dotta, insieme al figlio frate Teodorico, che si formò come chirurgo alla scuola del padre.

Frate dell’ordine domenicano, da dove aveva ereditato rigide regole, ma non aveva recepito quelle emanate nei concilii dei papi Innocente II e Bonifacio VIII che avevano posto il veto all’esercizio, da parte degli ecclesiastici della medicina chirurgia e delle leggi.

Ma quando si formarono le prime università laiche a Bologna e a Salerno, dove erano insegnate medicina e chirurgia, la chiesa non si oppose alla frequentazione e alla stessa docenza, in quelle università da parte degli ecclesiastici e quel veto diventò poco più che un consiglio, ma anche quello fu disatteso e non furono pochi gli esponenti del clero, che studiarono e praticarono le discipline mediche.

Teodorico, si distinse per una cospicua produzione scientifica, tra cui la sua “Chirurgica” dedicata al padre.

Dove si ritrovano, tradizione e modernità e in particolar modo è trattata una chirurgia esterna, dedicata alle ferite, fratture e alle lussazioni.

Le ferite erano da lui curate, con un preparato a base di vino, una soluzione alcolica e con fasciature, senza usare unguenti o olii o peggio seguire l’antico metodo della suppurazione, cioè lasciare che la ferita spurgasse il male come era nella medicina tradizionale, molto spesso con esiti fatali a causa delle infezioni.

Padre e figlio furono i primi a trattare le fratture scomposte o esposte con criteri asettici e minimamente traumatizzanti e per l’uso di un unguento mercuriale.

Teodorico ebbe anche il grande merito di aver contribuito all’alleviamento del dolore con quello che può essere definito un sostituto medievale dell’anestesia ovvero la spongia somnifera.

La Spongia Somnifera

A questo punto, serve pubblicare gli ingredienti dell’anestesia usata da Teodorico, per alleviare il dolore, specie a seguito di un’operazione alle mani di gran lunga la parte più sensibile del corpo umano

Oppio, succo di more acerbe, giusquiamo, succo di coconidio, succo di foglie di mandragora, succo di edera, succo di mora silvestre, semi di lattuga, semi di lapazio, e cicuta un’oncia per ognuno dei suddetti ingredienti.

Queste droghe dovevano essere mescolate in un vaso di rame fatte bollire insieme ad una spugna finchè tutto il liquido non si consumi e si rapprenda nella spugna.

Quando serve bisogna mettere la spugna per un’ora in acqua calda e tenerla sotto alle narici del paziente finchè l’operazione non sia ultimata.

Per svegliarlo dal sonno servirà un’altra spugna imbevuta di aceto.

L’Eutanasia

Frate Teodorico, uomo di scienza e poi di religione, rianimò Angelica e alla luce di un lume, si accorse subito della gravità della situazione, quando ebbe sfasciato quel nauseabondo bendaggio, imprecò, contro l’ignoranza di chi non aveva curato quella ferita.

Iniziò subito il medicamento di quella mano gonfia livida, già preda della cancrena che come una macchia nera aveva coinvolto anche il braccio, applicò una soluzione alcolica sulla ferita.

I dolori erano troppo forti, la frattura scomposta, aveva perforato la carne e la ragazza impazziva dal dolore.

Teodorico prese a cuore quella povera ragazza, la fece portare nell’ospedale del Latronorio, sottraendola alle grinfie di qualche bavoso cardinale in quella casa delle Sevisse.

Parlò molto quella notte la povera Angelica, forse aveva un cupo presagio di quello che sarebbe successo e raccontò a quel frate, che era al suo capezzale, del suo piccolo semplice mondo, della sua vita grama, a togliere quelle pietre dai bricchi a prendere botte ogni giorno, destino comune di tutte le donne.

Disse che sarebbe scappata, un giorno da quella città, da quel borgo troppo chiuso, dove tutti sapevano di tutto, una comunità molto religiosa, ma dove si gioiva in segreto delle disgrazie altrui, dando poi pubblicamente la colpa al diavolo e ai suoi inferi.

Era una creatura pura e quel nome Angelica, rispecchiava la sua semplicità, una storia come quella di tante altre ragazze come lei, cresciute troppo in fretta, che nonostante tutto avevano mantenuto la gioia di vivere.

Ma in questo angolo di mondo stretto tra ma e bricchi, se nascevi maschio avevi tante possibilità anche di svago, ma se eri donna dovevi sulu travaggio’ e fo di figgi.

Teodorico uomo prima di scienza e poi di chiesa, erudito e di grande fama, non seppe che cosa dire e per tutta la notte, vegliò Angelica, tenendogli una pezza bagnata in una soluzione di acqua e aceto, su quella fronte febbricitante.

Tante volte Teodorico, aveva sentito la morte arrivare e sapeva che quella per cancrena, era una delle più orribili.

Era arrivato troppo tardi a Varagine, per amputare mano o il braccio e salvare la vita di Angelica, un senso di impotenza e di pietà si impadronì di quell’uomo di scienza.

Noi non sappiamo se quello che successe il giorno dopo, fu ordito per porre fine alle sofferenze o se fu un effetto accidentale di quella empirica anestesia.

Durante l’operazione le ossa del dito di Angelica, furono ricomposte, la ferita ricucita medicata e steccata con una porzione di fusto di canna di fiume.

Ma l’operazione fu interminabile e quella spugna, troppe volte fu passata sotto il naso della povera Angelica.

La scienza dell’ anestesiologia era ai primordi e tutto era regolato dalle reazioni del paziente, ad ogni sussulto di dolore, la spugna era prontamente messa sotto le narici della poveretta, nessuno seguiva parametri vitali nessuno si accorse che il cuore di Angelica si era fermato.

Chissà come saranno andate quel giorno le cose, in quell’ospedale per pellegrini del Latronorio, ma Teodorico uomo di scienza aveva conosciuto tanta troppa sofferenza e molti si rivolgevano segretamente a lui per porre fine al loro calvario terreno.

Lui uomo di religione e poi di scienza, sapeva di contravvenire ad un dogma del Cristianesimo, quella della vita prima di tutto, ma che vita era quella di tanti disperati?

Perché far soffrire così tanto un essere umano, senza speranza di guarigione?

Una crudeltà inutile.

Non possiamo dirlo con certezza se quella fu un’eutanasia.

Teodorico non cercò di riportarla in vita, neanche provò a farle respirare la spugna con l’aceto e in quella Spongia Somnifera, c’era forse una quantità eccessiva di cicuta? .

Usciì con le lacrime agli occhi e qualcheduno disse di averlo poi visto lassù, au Cian de Donne, con le mani rivolte in alto, verso un cielo, mai visto di un blù così intenso.

Dissero che era lassù, per raccomandare l’anima di quella povera ragazza e anche la sua, forse per qualche grave ignoto peccato da lui commesso.

Resto` molto tempo seduto sopra un cumulo, di quell’enorme giacimento di pietre, quel posto era proprio come lo aveva descritto Angelica.

Era il suo mondo, piccolo semplice, con quello spettacolo di monti e mare, da dove un giorno sarebbe fuggita, ma dove invece, si concluse la sua giovane vita.

Teodorico, ritornò a valle, quando vide dall’alto, il corteo papale, che si era messo in moto, per proseguire il viaggio verso la Francia.

Arrivato sulle alture di Castagnabuona, ora monte Croce, videro l’esercito di Federico II, che stava per sbarcare a Savona e tagliare la strada alla corte papale.

A questo punto fu grazie a chi conosceva bene il territorio, che si trovo`un percorso alternativo, nascosto alla vista, l’antica via romana lungo il torrente Maegua.

Naturalmente come in molte altre vicende di chiesa, tutto fu messo a tacere e Angelica fu dichiarata morta, non per un’operazione andata male e neanche per l’uso eccessivo di quella spugna.

Fu data una spiegazione ad uso di una comunità, quella di Varagine da sempre succube e credulona, alle parole di ogni potere.

La colpa era del diavolo, che aveva seguito, il papa con un esercito di centomila spiriti maligni, che si erano impossessati di quella povera ragazza, comandati da Satana in persona!

Ma nulla potè il re degli inferi, contro la fede incrollabile del frate domenicano, che esorcizzò quella ragazza e sconfisse tutti quei diavoli, cacciandoli nella selva del Latronorium.

Il frate però, non riuscì a salvare quella povera ragazza, il cui corpo fu predato del demonio, Angelica fu sacrificata, per proteggere la chiesa e salvare la vita del Papa!

E la prova del contatto con gli inferi, esibita a quel popolo credulone e mantenuto nell’ignoranza, era quel braccio di Angelica, livido nero come la pece!

Alla famiglia restituirono il corpo della fanciulla, vestito con i suoi poveri panni, sopra cui, una mano ignota, pose un bel vestito, quello promesso a Angelica in quella casa alle Sevisse.

Fu seppellita, con gli onori che si riservano ad una Santa, nei pressi della chiesa di S.Ambrogio, sulla collina di Tasca.

1 commento su “Quella Figgia du Burgu”

  1. Che bel racconto e… che bravo che sei! Lo penso tutte le volte che leggo un tuo post! Continua così… è un piacete leggerti. Ciao.

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