Na Paeta un Segelin e Quattru Biglie

Tratto da” Olio di Oliva e Cotone” di Giovanni Martini

Ovviamente, dopo avere ingurgitato krapfen e bevuto la gassosa, era interdetto ogni contatto con l’acqua.

Erano tassative le tre ore per la digestione, dopo ogni introduzione di cibo, prima di fare un’altro bagno e quindi dopo la merenda, basta giochi in d’acqua.

Quello era il momento degli scavi nella sabbia, fatti con la paletta e il secchiello.

I primi castelli, erano rudimentali, primitivi, bastava riempire il secchiello di sabbia bagnata poi capovolgerlo e il gioco era fatto, al centro si metteva un bastoncino, di quelli trovati in loco, che simulava l’asta della bandiera, bastava quello insieme con l’approvazione degli adulti ed eravamo i bambini più felici del mondo.

Poi quei primi manufatti, affinando le tecniche costruttive, diventavano veri e propri castelli di sabbia, con le torri di guardia, il recinto delle mura e se il maniero, era assemblato, in prossimità dell’acqua, ecco anche un fossato con l’acqua, per renderlo invincibile.

Il rapporto con il catrame per noi bambini, nonostante le infinite raccomandazioni, era disastroso, i piedi e le mani erano le parti più predisposte ad essere unte da quel rifiuto oleoso, ma stampi nerastri si trovavano anche sul costume e in altre parti del corpo, soprattutto a seguito del gioco con le biglie….

Il modo migliore per fare una bella pista nella sabbia, era quello di trascinare l’amico di turno per le gambe, in modo da far incidere la battigia con il suo sedere e disegnare così il tracciato della pista.

Le biglie erano le classiche, in plastica trasparente, con all’interno il volto di un ciclista, si potevano comperare da Mumitta, oppure tramite apposite macchinette ogni pallina 30 lire.

Il gioco consisteva nel colpire a turno con la classica “zecca” pollice-indice la propria pallina, cercando di farle percorrere più pista possibile e soprattutto, restare dentro il percorso, era arduo poi rientrare in gara a seguito di un fuori pista .

Altre biglie altri giochi.

Con quelle di vetro, spesso ex tappi di gassosa riciclati, si giocava a “garullo” o cerchio, ma il fondo doveva avere più consistenza e allora si giocava sulla terra.

Dopo l’uomo dei krapfen e del cocco fresco, c’era un fotografo che percorreva la battigia, armato di campanello e fischietto, sempre vestito di bianco per attirare l’attenzione, scalzo con i pantaloncini corti, nella mano la fidata macchina fotografica, un’altra macchina era invece portata a tracolla.

Con la prima macchina, senza rullino, scattava una finta fotografia, attirando l’attenzione del soggetto e poi se ne aveva l’approvazione, allora, ne scattava delle altre, con l’altra macchina quella che aveva il rullino.

Era il compianto, Pino Galussi “ u Casun”tutte le generazioni di bambini hanno a casa, almeno una foto, scattata al mare da lui, o immortalati con le tortore, nei giardini dalla vasca dei pesci rossi, era un po’ insistente, ma con educazione, sapeva far bene il suo mestiere.

All’orizzonte passavano continuamente delle navi in arrivo o in partenza dal porto di Genova e qualcheduno gridava “ guardate è la Michelangelo no forse la Raffaello !“

Erano le due bellissime navi passeggere, ammiraglie della Società Italia a questo punto i bambini erano fatti uscire precipitosamente e tratti in salvo!

Per la paura dell’”onda oceanica” prodotta da queste navi, che si diceva avesse già procurato diversi danni ai stabilimenti balneari e travolto dei bagnanti!

Restavamo così a fissare l’orizzonte e ad aspettare con ansia l’arrivo delle micidiali onde.

E dopo poco, in lontananza si vedevano delle lunghe increspature sul mare piatto e dopo qualche minuto, un paio di onde non certamente pericolose arrivavano sul bagnasciuga e gli unici danni potevano essere la distruzione dei castelli di sabbia, imprudentemente costruiti troppo vicino al mare o qualche asciugamano inzuppato.

Poco prima del ritorno, c’era la cerimonia della pulizia mani piedi e altri parti del corpo che erano ripuliti dal catrame, con un poco di olio che diluiva il catrame e poi con il cotone per asportarlo, il tutto accompagnato dai mugugni della mamma.

Si lasciava l’arenile, quando il sole era già calato a malincuore, ma speranzosi di ritrovare il nostro castello, ancora intatto la prossima volta.

Ma il giorno dopo nessun castello fu mai ritrovato indenne.

Con il buio la spiaggia riviveva, con i bagni fatti di notte, compagnie di giovani si davano appuntamento sotto la luna, a volte accendevano un falò e s’udiva il suono di una chitarra.

Noi bambini invece si andava a dormire presto con il fastidio del sibilo delle zanzare in picchiata sulle nostre epidermidi.

Al mattino con mia sorella si contava chi aveva più punture.

Oggi le zanzare, sono sparite, o preferiscono altro sangue.

Lascia un commento