
La scomparsa di un grande campione Gigi Riva e l’articolo pubblicato ieri del Genoa Real Parasio, mi riporta con i ricordi a quel campetto dau Simiteu Vegiu, dove eravamo anche noi quattro ragazzini, a rincorrere un pallone.
Ho il grosso rammarico di non aver nessuna foto, insieme a miei amici, compagni del periodo più bello.
La nostra squadra si chiamava Folgore, scegliemmo questo nome per averlo letto su Intrepido o Monello, i giornalini di noi ragazzini negli anni 60
Io, Antonio e Angelo Fazio con Massimo Caneva, si andava anche in “trasferta” a giocare dalle case Fanfani, dove in un quadrato d’asfalto, si affrontavano gli avversari, Roberto Sava, i fratelli Zani e Alberto Petroni.
Queste due squadre diedero vita ad una formazione per affrontare i nemici di sempre, quelli du Pasciu per una volta non con la fionda, ma nel loro bel campetto dei Busci.
Vincenzo Berio, Mario Paviani, Roberto Botta e i fratelli Fazzari.
Ne uscivamo quasi sempre perdenti.
Impossibile contrastare le giocate di Vincenzo Berio, grande talento, veloce nel controllo palla e con un tiro potente.
Il racconto che segue è tratto dal mio racconto Olio di Oliva e Cotone
Sotto alla strada dau Simiteu Vegiu c’era il “campo” testimone suo malgrado di interminabili partite.
Dove neanche un filo d’erba riusciva più a crescere a causa delle nostre corse dietro al pallone.
Nuvole di polvere, consumando le suole di vecchie scarpe in disuso.
Il campo era in realtà un quadrato, delimitato con i riccioli di legno, prelevati dalla montagnola dove erano stati scaricati i residui di lavorazione della vicina falegnameria.
Avevamo costruito anche le due porte, con tre legni quasi diritti, fissati con lunghi chiodi.
La struttura era però instabile e guai a beccare la traversa con una pallonata!
Si rischiava di accoppare il portiere, il quale colto di sorpresa e senza possibilità di scampo, era colpito dalla caduta della traversa e di conseguenza dai due pali, che non essendo più collegati fra di loro, completavano l’opera rovinando sopra il poveretto!
Il pallone era sempre lo stesso, bucato, era inutile giocare con un pallone nuovo, gonfio, vista la vegetazione circostante, composta prevalentemente da rovi irti di spine.
Bastava un solo fuoricampo, e subito si udiva il sinistro sibilo dell’aria che fuoriusciva dai fori.
E la regola era: l’ultimo che aveva toccato la palla, doveva poi andare a recuperarla.
Quest’operazione, a volte si protraeva per diverso tempo, a seconda della potenza del tiro e della zona d’entrata.
Avventurarsi in quei grovigli di rovi, era un’impresa ardua e una volta individuata la sfera ci si aiutava con dei legni per recuperarla.
Si usciva strappati e sanguinanti da quell’inferno di spine, ma pronti a riprendere il gioco.
Mi regalarono un pallone di cuoio, fu un avvenimento eccezionale, una grossa novità!
Finalmente un pallone vero!
Questo aumentò l’impegno e l’agonismo nelle nostre partitelle.
E se per caso finiva in mezzo ai rovi, nessun sibilo sinistro!
Era giallo, ma ben presto perse il suo colore consumandosi per l’uso frequente, sopra quel nostro campetto di terra e sassi.
Disgraziatamente, dopo un lancio, terminato fuori campo, il pallone finì sotto le ruote di un’auto, esplodendo con un boato.
L’auto si fermò e il conducente che non gradiva i nostri schiamazzi, con aria soddisfatta ci restituì il pallone, o quel che rimaneva, simile oramai ad un berretto schiacciato, da cui, come una lingua rosa, fuoriusciva la camera d’aria.
Giurammo vendetta, e qualche giorno dopo, individuata la sua auto, armati di chiodi incidemmo due lunghe righe su entrambe le fiancate dell’auto e per finire, anche sul cofano.
Il pallone, invece, fu
riparato alla meglio, da uno zio di mio padre u barba Genio, che lavorava nella falegnameria.
Lo squarcio fu chiuso con un cordino, passante in mezzo a delle borchie in metallo.
Le borchie però con l’uso si assottigliarono e i bordi diventarono micidiali rasoi quando il pallone si stampava sulla pelle.
Neppure il buio della sera ci fermava, io e i miei amici giocavamo in notturna alla luce del lampione stradale.
Nessuno di noi possedeva un orologio, e le partite non seguivano nessuna unità di misura del tempo, ma erano regolate dal numero dei goal fatti.
Di solito la partita terminava al raggiungimento del 20° goal segnato.
Seguita poi dalla rivincita e dalla “bella”.
Alcune partite di “bella”, interminabili, finirono al raggiungimento del 40° goal!
Era il 1970 l’anno del mondiale di calcio in Messico.
Interminabili partite, emulando i nostri eroi oltre Oceano.
L’eroe di tutti era Gigi Riva e poi c’erano gli altri, la tifoseria era divisa dalla famosa “staffetta” Mazzola-Rivera.
Ricordo la finale vista a casa di Antonio e Angelo, esultammo al pareggio di Boninsegna nel primo tempo, uscendo sul terrazzo di casa, ma poi fu grande l’amarezza per il risultato finale.
Il nostro mondo era tutto lì, intorno al colle di San Donato, dove il fiume compie un’ampia curva, l’ultima, per poi riprendere la direzione giusta e scorrere verso il mare.
Ma nessuno poteva accompagnarci alla spiaggia e poi si diceva che prendere tutto quel sole, faceva male alla testa.
Con questa foto vorrei commemorare Gigi Riva che ci ha da poco lasciati, uno dei nostri eroi del pallone, di noi bambini degli anni 60.
