
Il racconto di una fiera del bestiame, di molti anni fa descrive un mondo che non esiste più, era quello, oggi impropriamente tirato in ballo, del chilometro zero.
Un tempo era tutto a Km0!
Generazioni di gente volenterosa, capace e costante, otteneva dalla terra e dai boschi del nostro entroterra, il proprio e l’altrui sostentamento.
Taià e rubelle a legna.
Cuii e castagne e mette a secchè in tu seccou
Vita grama au sciattu du su e sutta l’aigua.
A ranchè e patate
A cuii coi, coinavuin, fascioi duin.
A cavè cun na sappa burchi
A camallè e belaine.
A immascee e fo cabanin de pree.
De da mangè ai fanci
Oggi chi si addentra nel nostro entroterra troverà numerose testimonianze, specie quelle in pietra, rimaste per ricordarci l’immenso lavoro e le quotidiane fatiche perpetrate per secoli, da chi ci ha preceduto in questo parte di mondo.
Sono con Mauro Buschiazzo ex collega nella Centrale di Vado Ligure, oggi l’unico allevatore di bovini dell’Alpicella.
Ritorniamo un po’ indietro nel tempo, com’era a Fea de Bestie negli anni 50/60?
Ciassa dell’Arpiscella la sera del 17 gennaio
Festeggiato il santo patrono, San Antonio Abate, ora l’attesa della comunità dell’Arpiscella era tutta per il giorno successivo, quella della grande Fea de Bestie.
Erano centinaia i bovini, provenienti da ogni dove.
Rumor di zoccoli, muggiti, vociare di gente e quarche Giastemma, “Tantu u preve u l’ha facciu Santantoniu e dorme ancun!”
C’era chi si ritrovava per la prima volta dopo un anno, allora erano strette di mano e pacche sulle spalle
“Cumme ti stai, to muie’e i to fanci? E quante bestie t’oi?”
Allevatori, contadini, boscaioli convenuti in Ciassa già nelle prime ore del mattino, per prendere i posti migliori e iniziare a contrattare il prezzo di acquisto o di vendita di un animale.
Chi aveva na bella Vacca Toella, un’animale da tiro o un bel manzo buono per fare un bue, lo portava in piazza, anche solo per farlo vedere e farsi apprezzare come allevatore.
Qualche anno prima, la piu richiesta era a Cabanina, l’unica razza bovina ligure, le cui vacche facevano poco latte, ma erano buone bestie pe Rubbelo’.
Poi arrivo’ la vacca bianca piemontese, poderoso animale anche lui adatto al tiro.
Una coppia di buoi di razza piemontese era in grado di tirare carri con grandi carichi, come la legna da ardere, fin a Vraze.
Vacche e buoi convenuti all’Alpicella da S. Antonio Abate, protettore degli animali per la tradizionale benedizione di buon auspicio per l’anno da poco iniziato.
In piazza all’Arpiscella, erano presenti anche commercianti di bovini, avvisati dal passaparola o da intermediari quando erano adocchiate delle belle bestie da acquistare.
Non mancava chi si Rattellava per un torto subito l’anno precedente o per una parola non rispettata, vecchi rancori venivano a galla.
Anche le mucche avevano le loro antipatie e non di rado tentavano di darsi delle cornate, prontamente allontanate dai loro conducenti.
Alcuni Banchetti da Dusi rimasti dal giorno della festa del santo, riducevano la capienza della piazza.
Serviva altro spazio anche per la cerimonia di benedizione e allora le mucche, degli ultimi arrivati erano tutte allineate lungo la strada dalla piazza fino a Turazza, al bivio Ceresa/Faje e a scendere versu u Runcu ad arrivare al cimitero e oltre !
Negli anni 50/60 erano almeno duecento gli animali, tutti bovini radunati in Ciassa per a Festa de Bestie.
La conta totale dei capi di bestiame compresi quelli rimasti nelle stalle all’Alpicella, era di circa mille esemplari!
Al termine della messa, la statua del santo patrono era portata in piazza e il Parroco o chi per esso, benediceva gli animali lì convenuti.
Questo gesto sacro era valido per tutti, anche per quelli che non avevano trovato posto in ta Ciassa dell’Arpiscella.
Benedetto del sale, contenuto in te un Cavagnin.
Confezionato in sacchetti, il sale era per i proprietari degli animali, che lasciavano un’offerta per la chiesa.
Dato poi in pasto ai bovini.
Negli anni a seguire fecero la loro comparsa in piazza, per ricevere la benedizione divina, e il sale consacrato, altre razze di animali, cavalli, asini ecc.
Oggi praticamente solo cani e gatti.
L’atto finale di una compravendita, dopo la stretta di mano che suggellava l’accordo raggiunto con la somma pattuita, era un gottu de vin, spillato da una bottiglia di produzione propria, che era stata portata in saccoccia con tanto di gotti.
Oppure una bevuta al bancone de n’Ostaia.
L’Ostaia du Dardaja e le altre tre, che erano presenti nella borgata dell’Alpicella, facevano buoni affari nelle giornate della fiera.
Ai loro tavoli si poteva gustare la Zeaia.
Chi portava il nome del santo protettore era molto nominato in quei due giorni di festa:
“ Tognu paga un po da beive !”
Ma poi offrivano da bere anche Giuguanni, Battesta, Tugnin…..
Mauro riporta un botta e risposta sentito pronunciare in piazza da Tugnin bunanima.
Cumme te le facciu Santantonio?
Ben
Quante votte te resio’?
Perché?
Se nu te resiò tre otte Santantoniu nu ti l’è facciu!
Visto il periodo dell’anno se le condizioni meteo, erano proibitive, allora a Fea de Bestie era annulata.
Si partecipava comunque alla messa lasciando un offerta per il sale benedetto da portare alle vacche rimaste nella stalla.
Il cinema parrocchiale era molto affolato, se la temperatura, in Ciassa era particolarmente rigida.
Ancora qualche anno poi niente più proiezioni, a seguito della diffusione degli apparecchi televisivi.
Al termine della giornata in Ciassa all’Arpiscella, rimanevano gli abituè i Ciucchetuin quelli che erano sempre “Carichi”
Zuvni e belle Fie si davano appuntamento pe ande’ a bale’ ai Marmi.
Un fisarmonicista suonava musica per ballo liscio.
C’era un grande caminetto che riscaldava il locale.
Nelle Ostaie si giocava a carte ed era normale bere una bottiglia di vino a testa durante il gioco.
Ma poi vigeva il detto “Te paghè na butia ti, aua perché nu devu paghene una anche mi”
C’era chi aveva u Vin Cattivu, l’ubriacatura violenta e cercava di mordere chi gli capitava a tiro!
A volte volavano quattru pugni.
Ma il giorno dopo si ricordava solo che era stata una Bella Festa!
Non si portava rancore e si ritornava amici come prima.
Alcuni dati, possono far comprendere l’entità dell’allevamento bovino nel nostro entroterra, nei primi decenni del secondo dopoguerra.
Ogni giorno il latte munto la sera e al mattino presto, era messo in ti Biduin du Laite e affidato a dui Lacieri o Leitò.
I trasportatori, che con i loro camion arrivavano in Ciassa all’Alpicella.
Solo per quanto riguarda Arpiscella, ogni giorno erano circa tremila i litri di latte consegnato alla Centrale del latte di Varazze.
Altro latte arrivava dalle frazioni in primis dalle Faje e Casanova
Ovviamente una parte della produzione era destinato per uso proprio.
Chiedo a Mauro che cosa è successo in tutti questi anni che ha di fatto azzerato il numero di capi bovini in tutto il nostro entroterra.
Negli anni 70 all’Alpicella erano ancora una decina gli allevatori di bovini per carne da macello.
Ai prati di Polzemola, Pozemmua, unica zona prativa dove era possibile l’uso dell’imballatore da fieno, efficace macchina agricola utilizzata nelle nostre campagne a partire dagli anni 50, si producevano ancora circa duecentomila ballotti di fieno del peso di circa 15 kg cad.
Sembra una quantità enorme ma solo per lo Scivernu, lo svernamento di una vacca, serviva 15/20 q.li di fieno.
Fu forse la chiusura del macello comunale in tu Pasciu, negli anni 80 a determinare l’inizio della fine dell’allevamento bovino nel nostro entroterra.
Ma quella fu una concausa di una progressiva decimazione degli allevamenti bovini, iniziata con lo spopolamento del nostro entroterra.
Collassati poi con i bassi prezzi imposti dalla grande distribuzione.
Chi oggi alleva dei bovini, come per tante altre cose è solo mosso dalla passione, per questo tipo di attività, e lo fa senza badare ai costi benefici.
Mauro mi racconta della vacca Valencia, buona bestia pe rubellò.
Lui da bambino la metteva sotto la lesa e si faceva portare da Ciampanù verso Pratorotondo, la vacca conosceva la strada e non c’era bisogno di guidarla.
C’era anche suo nonno per Seigò l’erba o far della legna.
Valencia era lasciata libera e lei brucava tutto il giorno.
Al ritorno sua nonna, le andava incontro per mungerla prima che perdesse per strada u Laite.
La Valencia animale docile da lavoro e da latte era come tutte le vacche, molto importante nell’economia famigliare. Oggi Valencia è sempre ricordata nei racconti di quegli anni.
Ringrazio Mauro Buschiazzo per aver portato a conoscenza aspetti sconosciuti di un’attività, quello dell’allevamento bovino, un tempo fonte di lavoro, sostentamento e ricchezza del nostro entroterra.
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foto Archivio Storico Varagine
