
foto dal web
di Carlo Buccitti
Correva l’anno 1957.
Nelle prime ore del pomeriggio, durante la bella stagione, andavo a giocare “sulla piazza della chiesa” dove trovavo i miei amichetti: ricordo Filippo, Alfredo, Beppe, Ambrogio.
Il parroco Mons.Callandrone era solito, a quell’ora, riposarsi sulle sedute in pietra ai lati della porta di San Giuseppe.
Un giorno arriva sulla piazza un ometto mal vestito, cantava e gesticolava: si rivolge al Parroco chiedendogli l’elemosina.
Monsignor Callandrone infila la mano nella tasca della tonaca e gli porge una moneta.
Una signora che assiste alla scena gli si rivolge dicendogli:
“ Sciu parrecu cu nu ghe dagghe ninte perchè u và da Maiostin-a a beive !! “
Il Parroco alza le braccia come in segno di resa e replica prontamente:
“U m’ha dumandou e mì g’ho dètu”
Sono passati 67 anni ma quella frase mi è rimasta scolpita in testa.
Mons.Callandrone conosceva sicuramente quell’uomo e soprattutto conosceva la sua triste storia.
Io, bambino di 5 anni, la storia di quell’uomo la conobbi dopo qualche mese.
Sul retro del caseggiato, dell’albergo della mia famiglia c’era una porta di servizio che affacciava su un viottolo, ricavato dalla tombinatura del “beo”che alimentava il frantoio di “Pantelin” .
A ridosso del muretto a secco, che costeggiava il viottolo delimitando le fasce di Tonina Caniggia, in prossimità della porticina di servizio, era posizionata una panca che mio padre aveva fatto costruire dal falegname “Zaccaria”.
Quella panca, che conservo ancora oggi, serviva a cameriere e cuoche per riposarsi un po’ durante le brevi pause di lavoro. Spesso, all’ora di pranzo, sulla panca sedevano viandanti, mendicanti, zampognari: mio zio Giuva portava loro un piatto di pasta e come diceva lui
“Quello che oggi passa il convento”.
Un giorno arrivò l’uomo, a cui il Parroco aveva fatto l’elemosina, non si sedette sulla panca, ma entrò subito da quella porticina accedendo alla cucina dell’albergo, dove era in pieno svolgimento il servizio ristorante .
Camminava a passo di danza, gesticolava e cantava:
“Marina Marina Marina, ti voglio più presto sposare ecc.ecc”
Una cameriera, scappò urlando temendo di essere importunata . Mia zia Mina (che dirigeva la cucina) quando lo vide esclamò : “MANUELU !! perchè ti vegni a st’ua? Stanni bravu e settite lì de foa che poi te demmu quarcosa“. Così come era entrato, se ne uscì a passo di danza e si sedette sulla panca: mio zio Giuva, come era solito fare, gli portò subito un abbondante piatto di pasta e un bicchiere di rosso.
Io, bambino di 5 anni, incuriosito e anche un po’ impaurito, sbirciavo dalla porticina.
I bicchieri di rosso divennero presto 2, 3 e forse altri ancora (mio zio Giuva era così) e Manuelu dopo un po’ con mio sommo dispiacere, se ne andò via, più ciucco di quando era arrivato.
Quello stesso giorno, mia zia Mina mi spiegò, con grande commozione, chi era Manuelu.
Emanuele Ottolenghi, apparteneva ad una ricca famiglia ebrea. Abitavano in una lussuosa villa, non lontano dalla sua casa e per questo lo conosceva bene.
La famiglia di Manuelu, gestiva la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica di Varazze. Era una famiglia agiata.
A seguito delle leggi razziali del ’38, le fu confiscato ogni bene, furono deportati e non tornarono più.
Manuelu si salvò e dal dispiacere, rimasto solo, ridotto in miseria, si diede all’alcool.
Mons. Callandrone, parroco di S.Ambrogio, già durante il ventennio e la guerra, evidentemente conosceva Manuelu e la tragedia della famiglia Ottolenghi.
I meno govani, si ricorderanno sicuramente di Manuelu, stava prevalentemente a Mioglia, ma veniva spesso a Varazze.
Morì investito da un’auto credo negli anni 70.
Ringrazio Carlo Buccitti per questo suo bel ricordo giovanile, di Emanuele Ottolenghi u Manuelu.
La sua famiglia, era proprietaria da “Fabrica da Lusce” la centrale idroelettrica in località i Posi.
L’impianto utilizzava la caduta dell’acqua dal serbatoio de Gruppine.
Forniva energia elettrica alla tensione di 125V, al Pero, Alpicella, Faje, Casanova e alla Valle Teiro, Deserto e Sciarborasca.
