
……sono stato bambino Sciù da Teiru, cresciuto, tra na Sciumea un Boscu e un Campu da Ballun……. e gli alberi da frutta…
In questo periodo dell’anno eravamo tutti indaffarati nelle nostre scorribande per boschi, a giocare in riva al Teiro, a sudare nelle infinite partite di calcio sotto il sole
La frutta, era una specie di pausa in questa nostra frenesia quotidiana.
Sciu da Teiru, tutti facevano l’orto e nelle fasce avevano degli alberi de Scesce, Nespue, Armugnin o Bricoccole, Perseghe, Brigne, Nisoe, Fighi e Merelli.
Nel periodo delle fruttificazioni, noi bambini eravamo molto attenzionati e ogni adulto era autorizzato a usar ogni mezzo, per salvare i suoi frutti e guai, poi dire, che il vicino ci aveva sorpresi nel suo orto e bastonati o presi a calci nel sedere, c’era il rischio di buscarle un’altra volta dai nostri genitori.
Gli adulti erano molto meno di oggi, propensi al dialogo con i figli, e guai a combinare qualcosa, arrivare a casa malconci sporchi o in ritardo per pranzo o cena, sberle e botte erano quotidiane.
Non di rado, chi con la vendita della frutta ci campava, aveva un cane da guardia e lo aizzava contro i ladruncoli sorpresi nella sua proprietà, ma quelle bestiole ci conoscevano bene, avevano preso carezze e pezzi di pane dalle nostre mani e si limitavano ad inseguirci, fino al limite della proprietà e poi ritornavano indietro scodinzolando.
Nella nostra capanetta in mezzo al bosco, faceva bella mostra una cartina, da me disegnata, del nostro territorio, dove erano marcati i sentieri, ruscelli, case e la posizione degli alberi da frutta e se a guardia c’erano dei cani.
Depredavamo gli alberi, ben prima che la frutta raggiungesse la maturazione.
A lato del campetto da calcio, c’era un grande albicocco proprietà dei falegnami Mario e Michè, che non seppero mai che gusto avevano le loro albicocche!
Confessai questi furti, un giorno, qualche anno fa, quando ero andato in visita da Michè, lui ridendo mi minacciò con la mano.
Ci arrampicavamo fin sui rami più sottili per raccoglier quei frutti ancora verdi e aspri.
E che dire di quel grande campo di fragole dau Muin a Vapure, depredato a notte fonda mangiando merelli e sputando la terra.
C’era però un’occasione che ci riconciliava con il mondo degli adulti, un’occasione in cui noi bambini eravamo utili.
Nelle festività di S.Giovanni, e di S. Donato, era tradizione fare i falò.
Qualche settimana prima della ricorrenza, s’iniziava ad accatastare il materiale, la maggior parte del combustibile proveniva dal bosco, rami secchi e brughe.
Un’altra buona fonte di approvvigionamento, erano gli scarti di lavorazione, legna e riccioli, presi presso le tre falegnamerie di via Montegrappa.
Per molti era anche l’occasione di disfarsi di quello che non si riusciva a bruciare nella stufa.
I rifiuti ingombranti erano accantonati in attesa dei falò, dal vecchio comodino sgangherato alle sterpaglie dell’orto, anche gomme d’auto, poca la carta e il cartone quello era ancora utilizzato nelle cartiere.
Nottetempo sparivano, alcune cose dalla catasta, recuperate per essere riutilizzate.
Tutto serviva allo scopo, finirono nel falò anche due pneumatici d’autocarro “gentilmente offerti” da un autotrasportatore.
Quelle carcasse con le tele d’acciaio a vista, dopo una settimana dal rogo, fumavano ancora!
La raccolta e il trasporto dei materiali, furono effettuate, le prime volte, con l’aiuto degli adulti, poi solo noi a gestire il tutto.
Riuscivamo a raccogliere una quantità enorme di materiale e le cataste erano impressionanti.
Al centro, sopra un palo, era issata “ la biondina “di solito una vecchia bambola, che forse simboleggiava ancora nell’inconscio collettivo, la strega data alle fiamme.
All’ora prestabilita, gli abitanti della parte finale di via Monte Grappa, si radunavano intorno alla catasta.
Prima di appiccare il fuoco, si attendeva l’arrivo del vicino di casa o dei famigliari e se qualcheduno tardava allora partiva sempre uno di noi, in bici per avvisarlo.
Appena faceva buio, si accendeva il falò.
All’inizio la gente era stretta intorno al fuoco, ma poi era costretta, ad allontanarsi per il forte calore sprigionato.
Quando le fiamme raggiungevano “la biondina” un applauso spontaneo scoppiava fra i convenuti a vedere il falò
In quell’occasione con tutta la gente del rione riunita, si parlava del più e del meno, si rideva, qualcheduno raccontava storielle allegre, si stringevano mani, ci si dava delle pacche sulle spalle si stava in compagnia, c’era sempre una bottiglia di vino e una torta da dividere a fette.
Noi bambini rallegravamo la serata, con spettacoli pirotecnici, fatti con paglia di ferro, incendiata e poi fatta roteare con uno spago, durante la rotazione per effetto della forza centrifuga si staccavano dei tizzoni, creando un cerchio di scie luminose.
Ricordo le grida di meraviglia delle donne e noi incitati a farle sempre più grandi e più veloci nella rotazione.
Le donne….. l’età dei giochi per noi forse si era protratta più del solito.
Fu proprio dopo un falò, l’ultimo, che i miei due grandi amici se ne andarono.
Il loro papà aveva costruito un’altra casa, più grande e bella, ma dall’altra parte della città.
Ricordo quando ci salutammo, li vidi scendere giù dalla strada in discesa, e io andai loro incontro, come al solito, ma era l’ultima volta.
Ci stringemmo la mano come fanno i grandi.
Ci salutammo, con la promessa che sarebbero, poi tornati a giocare, qualche volta insieme a me.
Li guardai andare via.
Ma la promessa non fu mantenuta, non ci rivedemmo più Sciu da Teiru.
Solo qualche volta per caso, in città.
Per la prima volta, provai una sensazione profonda di delusione e sconforto.
Era finita un’età, quella più bella della mia vita.
