Le Partite di Calcio

Tratto dal mio racconto “Olio di oliva e Cotone”

A metà anni 60 arrivo’ “gente” nuova

Li conobbi una mattina d’inverno Antonio, Angelo e Mauro e poi Massimo che era il più giovane e si aggregò a noi dopo qualche tempo.

Mio padre aveva la falegnameria ed io fornii loro il materiale per costruire spade di legno e ipotetici fucili, anche i riccioli di legno erano utilizzati nei nostri giochi.

Diventammo amici.

Sotto alla strada il “campo” testimone, suo malgrado di interminabili partite, dove neanche un filo d’erba riusciva più a crescere a causa delle nostre corse dietro al pallone.

Fra nuvole di polvere, consumando le suole di vecchie scarpe in disuso.

Il campo da calcio era in realtà un quadrato, delimitato con i riccioli di legno, prelevati dalla montagnola dove erano stati scaricati i residui di lavorazione della vicina falegnameria.

Avevamo costruito anche le due porte, con tre legni quasi diritti, fissati con lunghi chiodi, la struttura era però instabile e guai a beccare la traversa con una pallonata!

Il pallone era sempre lo stesso, bucato, era inutile giocare con un pallone nuovo, gonfio, vista la vegetazione circostante, composta prevalentemente da rovi irti di spine.

Bastava un solo fuoricampo e subito si udiva il sinistro sibilo dell’aria che fuoriusciva dai fori sul pallone!

E la regola era: l’ultimo che aveva toccato la palla, doveva poi andare a recuperarla.

Quest’operazione, a volte si protraeva per diverso tempo, a seconda della potenza del tiro e della zona d’entrata.

Avventurarsi in quei grovigli di rovi, era un’impresa ardua e una volta individuata la sfera ci si aiutava con dei legni per recuperarla, spesso si usciva strappati e sanguinanti da quell’inferno, ma pronti a riprendere il gioco.

Mi regalarono un pallone di cuoio, fu un avvenimento eccezionale, una grossa novità.

Finalmente un pallone vero, inconsciamente questo aumentò l’impegno e l’agonismo nelle nostre partitelle.

E se per caso finiva in mezzo ai rovi, nessun sibilo sinistro!

Era giallo, ma ben presto perse il suo colore consumandosi per l’uso frequente.

Disgraziatamente, dopo un lancio, terminato fuori campo, il pallone finì sotto le ruote di un’auto, esplodendo con un boato.

L’auto si fermò e il conducente che non gradiva i nostri schiamazzi, con aria soddisfatta ci restituì il pallone, o quel che rimaneva, simile oramai ad un berretto schiacciato, da cui come una lingua rosa, fuoriusciva la camera d’aria.

Giurammo vendetta, e qualche giorno dopo, individuata la sua auto, armati di chiodi incidemmo due lunghe righe su entrambe le fiancate dell’auto e per finire, anche sul cofano.

Il pallone, invece, fu

riparato alla meglio, da uno zio di mio padre, Genio, che lavorava nella falegnameria lo squarcio fu chiuso con un cordino, passante in mezzo a delle borchie in metallo.

Le borchie però con l’uso si assottigliarono e i bordi diventarono micidiali rasoi quando il pallone si stampava sulla pelle.

Neppure il buio della sera ci fermava, io e i miei amici giocavamo in notturna alla luce del lampione stradale.

Era il 1970 l’anno del mondiale di calcio in Messico, ricordo le interminabili partite, emulando i nostri eroi oltre Oceano.

foto tratta dal web

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Dedicato ad un’amica

di Francesco Baggetti

L’urto era stato violento, quell’auto non si era fermata allo stop.

Lo aveva preso in pieno sbalzandolo dalla moto.

Aveva perso conoscenza,

immerso in mondo di buio e di silenzio

Ascoltava il suo cuore e il suo battito accelerato

Ma quella voce…..

Lei?

Non era possibile?

Sentiva o forse stava sognando, che una strana forza incitata da quella voce, lo stava trattenendolo a terra come a mantenere in vita, dare forza ad un corpo esamine.

E quella voce…. quel nome ripetuto diverse volte, che gli diceva

-Ti ricordi di me ?-

Poi più nulla, ora una luce accecante, penetrava le sue palpebre

Riprese i sensi sull’ambulanza, era ritornato lucido e razionale, chiese notizie dell’accaduto, aveva delle ferite? E quello con l’auto, era forse scappato?

La sirena si faceva largo nel traffico del rientro serale per arrivare al Pronto Soccorso.

La prognosi fu riservata per qualche giorno, poi fu dichiarato fuori pericolo.

Con la frase di rito:

– A l’è andeta ben! –

Di quell’incidente ricordava solo quell’auto che gli rovinava addosso e la voce di una donna, il suo nome e quella strana sensazione, come di

una forza che lo aveva ancorato a terra.

Chiese, a chi lo aveva soccorso se era stato rianimato, sul posto, gli risposero di no, quelli della Croce Rossa lo avevano trovato riverso sull’asfalto, confuso ma cosciente.

Quella voce, gli si era insinuata in testa e voleva delle risposte.

Qualche giorno dopo parlando con alcune persone, che erano accorse in suo soccorso, raccontò della voce che aveva sentito, c’era forse una donna, una ragazza vicino a lui, quando era riverso a terra?

Ma nessuno ricordava di aver visto una persona che gli stava prestando soccorso, anche perché l’ambulanza arrivò in pochissimo tempo.

Fu dimesso ingessato con il busto e una lunga prognosi

Ebbe modo di pensare di documentarsi sulle cose che accadono nei fine vita.

Moltissime le storie che sono nel web, le più disparate, molte incredibili, oniriche ecc. la maggior parte legate all’intercessione divina di qualche Madonna o Santo in paradiso.

Una di quelle storie, lo fece trasalire con un brivido.

A scrivere era un muratore, scampato dopo una caduta da un’impalcatura, che udì la voce del padre defunto, mentre lui era riverso a terra, che gli diceva di tenersi forte, perché stava arrivando la Nera Signora.

Fu questa lettura che gli fece ricordare bene, un particolare realmente accaduto.

Mentre lui era supino le sue mani, comandate da quella voce si erano messe a scavare e le sue dita erano finite dentro una fessura.

Ricordava bene quell’appiglio! Ecco perché le sue unghie erano nere di catrame.

Impossibilitato a muoversi visionò delle foto del luogo dove avvenne l’incidente e vide quella lunga crepa sull’asfalto.

Dove lui quella sera si era aggrappato come ad un’ultima speranza di vita

Il nome che aveva sentito pronunciare quella sera, era quello di una sua cara amica, scomparsa molti anni prima.

Una ragazza solare, che un male implacabile l’aveva strappata alla vita.

Erano passati almeno una ventina d’anni dalla sua morte.

Ma anche se il tempo passa, non si dimenticano mai i volti, la voce e altre cose, delle persone a noi care e lei lo era.

Un’amica, niente di più, le loro vite si erano intrecciate nelle lunghe serate estive.

Quelle passate con gli amici, i cosiddetti Giovani del Muretto. Il ritrovo all’ora prestabilita, era presso le panchine in pietra, presenti ai lati dello stradone, in una piccola borgata di case.

Ore felici spensierate come lo sono quando si è giovani.

Lui aveva un fiore bianco, in mano, ma non ricordava più bene, dove era la sua lapide.

La trovò, sotto al suo nome era scritto

– Ricordatemi-

Si mi ricordo di te amica mia.

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Il Forte Baraccone

Questo fortificazione, da’ il nome al monte, sopra cui è stato costruito.

A metà del seicento, la Repubblica di Genova, decise di costruire questo forte e di dotarlo di una cospicua guarnigione, con lo scopo di contrastare i violenti scontri armati, tra i Quilianesi e gli Altaresi, che si contendevano lo sfruttamento dei boschi di questa zona di confine, tra i due comuni.

Il Baraccone fu poi trasformato nell’800 in batteria e dotato di un telegrafo ottico, per comunicare con il forte Settepani.

Da Altare, inizia la strada sterrata per il forte, si supera una vecchia cava in località Bocca d’Orso e si continua per un lungo tratto in piano, con una bella vista verso il mare, si devia, verso destra e a questo punto, la strada sale, per arrivare alla zona prativa della Nocetta, si svolta ancora a destra e sempre in salita, ad un bivio, si prosegue dritti e si arriva al Forte Baraccone a 649 m.

Bella costruzione seicentesca, dotata di numerose feritoie per armi da fuoco, la copertura del tetto è in pietra, c’è un’unica piccola entrata è possibile effettuare, con prudenza, la visita dell’interno, sconsigliata l’esplorazione del piano superiore, visto lo stato degradato della soletta e la presenza, inquietante, di un nido di api, in forte attività, bello il cromatismo che si crea, tra le pietre e i mattoni in terracotta, utilizzati per le volte.

Con Giorgio, si parla delle evidenti modifiche, che questo manufatto, ha subito nei secoli, ma poi, attratti da alcuni funghi “grammi” facciamo un breve giro di perlustrazione, alla ricerca di quei graditi frutti del sottobosco, che hanno attirato in un’anelata ricerca, torme di cercatori, arrivate fin quassù, in auto, con il rischio, ad ogni fosso, della rottura di qualche sospensione o peggio della perforazione della coppa olio motore!

Auto, moto da fuoristrada, qualche mountain byke, escursionisti, un paio di podisti e molti con il cestino da raccoglitore di funghi esperto, tutti convenuti nei boschi della Consevola, per i loro passatempi preferiti.

Boschi a perdita d’occhio, ecco la selva descritta dagli antichi romani!

Faggi, castagni, aceri abeti, molte le zone disboscate e le cataste di tronchi a bordo strada, un’economia silvestre, da sempre praticata in questi boschi.

Si riprende la strada, che ora segue il percorso dell’Alta Via dei Monti Liguri.

Arriviamo al Colle del Termine, da dove si dipartono le strade per le Tagliate e in direzione di Roviasca, qui è da visitare il Sentiero della Memoria Partigiana, con le grotte Comando e Rifugio, ma ci siamo attardati, nella visita del forte, decidiamo che questa sarà la nostra prossima escursione da effettuare in primavera.

Giorgio mi parla delle case, che presto incontreremo, lungo questa strada, tutte adibite in antichità, a posto di ristoro e riposo per chi transitava lungo questo tracciato.

Ci fermiamo al cospetto di queste costruzioni, oramai in rovina, chissà qual’e’ la storia, che qui è passata e chi erano le persone, che qui lavoravano e vivevano?

In un sottoscala un vecchio “ronfou” l’antesignano fornello da cucina.

Da queste strade, costruite per raggiungere le varie fortificazioni, poste lungo la dorsale dello spartiacque, si poteva raggiungere, ogni località della costa, tramite delle carrareccie secondarie, che si staccavano dalla via principale, oggi diventate strade carrabili, sono utilizzate per raggiungere Roviasca Segno, Vezzi ecc.

Il nostro secondo obiettivo, erano i secolari faggi di Benevento, ma arrivati a Colla S Giacomo, desistiamo dall’intento, per l’ingente massa di fango presente sulla strada.

Una targa, sopra un cippo, ricorda le battaglie, che in questo territorio, videro contrapposti l’esercito napoleonico, contro l’alleanza piemontese austriaca con un bel paragone storico relativo alle libertà civili e l’unione europea.

Scendiamo verso Mallare, dove ci aspetta Roby, per un gradito caffè e una chiacchierata al bar, ci lasciamo con il proposito, di una visita ai faggi a piedi, partendo da Mallare.

Molto lungo l’itinerario, per raggiungere il forte Baraccone, da effettuare in sicurezza, con l’utilizzo di un mezzo da fuoristrada, visto lo stato del fondo stradale a tratti molto dissestato.

Procedere sempre a bassa velocità, visto la presenza di molti veicoli e di persone a bordo strada.

Un’altro grazie, all’amico Giorgio per avermi guidato, a ogni bivio e crocevia, solo una volta, colpa del disboscamento che fa perdere i riferimenti, abbiamo imboccato una strada sbagliata.

Nessun problema, anche in presenza di tratti di strada molto scoscesi, con il Samurai, gentilmente messo a disposizione, per questa escursione da Alessandro, dopo aver tolto, tutta la sua attrezzatura da lavoro.

I Trei Nicci

La vecchia viabilità che da Casanova sale verso Campomarzio/ Faje, incontra Via Canavelle in località Trei Nicci

Qui l’Antica Religione aveva i suoi riti in questa Cruscea de Vie “u se ghe sente”

In questo luogo l’uomo antico udiva le voci dei suoi antenati e poneva il figlio neonato nelle tre nicchie scavate nella roccia a contatto della madre terra, per averne la protezione.

I cristiani presero possesso di questo luogo di culto erigendo una gigantesca edicola votiva chiamata i Trei Nicci.

4 Novembre

Cosa c’è da festeggiare ?

Tratto da Friuli Sera.

Il 4 novembre Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate fu istituita nel 1919 per commemorare la vittoria italiana nella prima guerra mondiale.

Poteva avere un senso a quell’epoca, oggi diventa anacronistico far coincidere una festa con una delle peggiori carneficine militari della storia dell’uomo.

Volendo anche giustamente dedicare una giornata alle Forze armate, la data andrebbe modificata o quantomeno tolta, la retorica relativa al primo conflitto mondiale e alla “vittoria”.

La Prima Guerra Mondiale fu infatti uno scontro tra grandi potenze imperialiste, che portò solo milioni di morte, atrocità, barbarie, distruzione e devastazione e divenne prologo di quella che sarà pochi anni dopo, la Seconda Guerra Mondiale, che allargò ulteriormente la strage ai civili e fu preludio ideologico al fascismo e al nazismo.

Se il 4 novembre, resta legato a quegli episodi di guerra, andrebbe abolito, soprattutto dopo che da tempo gli storici hanno evidenziato la realtà di quanto accaduto.

La Prima Guerra Mondiale, combattuta tra l’estate 1914 e l’autunno 1918, vide coinvolti ben 28 Paesi divisi in due schieramenti: l’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia, Italia e alleati tra i quali gli Stati Uniti entrati in guerra nell’aprile 1917) e gli Imperi Centrali (Austria-Ungheria, Germania e alleati).

Teatri di guerra, oltre all’Europa, furono anche i territori dell’Impero Ottomano, quelli delle colonie tedesche in Asia, nonché tutti i mari.

Si stima che in totale siano stati mobilitati circa 65 milioni di uomini, con un bilancio di vittime calcolato in 9,7 milioni di morti e 21 milioni di feriti molti dei quali con gravi mutilazioni.

Per comprendere quanto davvero la Prima Guerra Mondiale, sia stata uno dei conflitti più sanguinosi della storia dell’umanità basta ricordare le stime di quanti persero la vita.

Tra gli Alleati si contarono circa 2 milioni di morti tra i soldati russi, 1,4 milioni francesi, 1,1 dell’Impero britannico, 370.000 serbi, 250.000 rumeni e 116.000 statunitensi.

Nello schieramento degli Imperi Centrali: 2 milioni i soldati tedeschi oltre a 1,1 milioni di austro-ungarici, 770.000 turchi e quasi 100.000 bulgari.

Per quel che riguarda l’Italia (che all’epoca poteva contare su una popolazione di poco superiore ai 35 milioni di abitanti) il bilancio fu pesantissimo.

L’Italia mobilitò nella Prima Guerra Mondiale ben 6 milioni di uomini: di questi furono 651.000 i militari morti.

Poi si devono aggiungere più di 500.000 di vittime civili.

Insomma i numeri sono drammaticamente chiari, ed è chiara anche la ragione di quella guerra non fatta certamente per migliorare le condizioni del popolo, eppure l’Inutile Strage continua ad essere festeggiata e si perpetua la propaganda della “vittoria” ma in realtà non ci fu nessuna vittoria, ed il paese uscì con le ossa rotte, preludio all’avvento della dittatura che presto si affacciò ad ammorbare il paese.

Se proprio si volesse ricordare quei tragici eventi di guerra, si dovrebbero commemorare le vittime, ma quelle di ogni guerra, esprimendo un lutto che sia anche solenne impegno ad opporsi alle armi come metodo di risoluzione delle controversie internazionali, del resto in questo viene in aiuto la Costituzione Italiana che all’articolo 11 è chiarissima: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Viene da chiedersi se in questi anni abbiamo davvero rispettato il dettato Costituzionale o se con le vari definizioni di “operazioni umanitarie o di polizia internazionale” abbiamo davvero onorato il dettato costituzionale.

E le nostre fabbriche di armi?

Se non altro per questo, festeggiare una vittoria militare, appare, a dir poco, decisamente stucchevole.

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Il Sole del Tramonto

di Francesco Baggetti

Era sceso alla Stazione Principe, poi nel Centro Storico, aveva preso quel caruggio, che da Macelli di Soziglia risale verso via Garibaldi.

In quella zona di Genova dove convive il sacro e il profano.

….vecchio professore cosa vai a cercar in quel portone….

Il sole del tramonto allungava le ombre, lei era all’angolo di quel caruggio.

….dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi….

Lo salutò con un bel sorriso.

Quante volte quella donna, lo aveva preso per mano e portato in paradiso.

Non era la più bella, né la più giovane.

Un giorno gli aveva chiesto perché aveva scelto proprio lei, in mezzo a tutte quelle ragazze giovani e procaci.

…A vederla salir le scale….

Le belle gambe sottili, fasciate nelle calze a rete, ad ogni scalino scoprivano la pelle ambrata delle sue cosce

– Ti piacciono le mie gambe? Acarezzale sono tue.-

La scala stretta e irta, portava ad un pianerottolo, aprì la porta e da li entrò un raggio di sole.

Si sentiva a casa

– Me sa che te piace piu mia casa, che mio culo!-

Disse lei con accento sudamericano, e subito iniziò a danzare e a intonare una canzone.

La stanza in penombra, era attraversata dalla luce che filtrava delle persiane.

Sopra il grande letto, pupazzi e cuscini, ornavano quell’alcova.

Aveva un bel corpo, giovanile, armonioso, ma la vera età era scolpita sul suo volto e di vecchi pensionati come lui, chissà quanti ne aveva conosciuto e consolati.

…..Quando incasserai, dilapiderai mezza pensione……

Erano i migliori clienti, gentili e senza pretese o fantasie strane, avevano quel sottile piacere di fare una cosa proibita, per ritornare giovani.

Gli chiese il solito regalino, oltre la tariffa concordata

…Diecimila lire per sentirti dire “micio bello” e “bamboccione”….

Acconsenti e mise sul como’ una banconota da 50.000 lire.

…la chiamavano bocca di rosa…

Slaccio’ la cintura

Mise un cuscino a terra.

I lunghi capelli iniziarono ad ondeggiare, la sua bella schiena era lì, arcuata, nuda.

Una vertigine di piacere lo avvolse.

L’eccitazione del momento, gli diede il coraggio di quelle parole

mai dette.

Non aveva mai amato un’altra donna.

Le chiese di smettere con quel mestiere, lui aveva una buona pensione, un’appartamento di proprietà a Pegli e poteva andare a vivere con lui.

D’altronde lei doveva pensare per il suo futuro, mica poteva fare la vita fino a 70 anni.

Ma le parole si perdettero nei gemiti e non riuscì a dargli fiato.

Lei aveva capito tutto, ma non volle ferire i sentimenti di quell’uomo.

Finse di non comprendere e

allegra spensierata si congedò da lui

-Amore mio! Cosa dici? Se finisco di fare lavoro? Certo che finisco bene sempre, poi così tu ritorni e magari lo dici ai tuoi di amici! Ciao amore mio torna presto!-

Cantando e ballando, lo accompagnò alla porta.

La stanza in penombra, era trafitta dalla luce delle persiane, lei lo segui con lo sguardo scendere in strada, nel caruggio.

Aspettava quel cenno di saluto, che lui rivolgeva sempre alle sue persiane chiuse.

Una lacrima le solco’ il viso, scavato dal tempo e dalla vita.

Quella donna era stata il sole del suo tramonto.

Sarebbe ritornato ancora ai Macelli di Soziglia, ma non più a vederla salir le scale

Ispirazioni dalle canzoni di Fabrizio De André

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1°Novembre 1968

U Teiru quel bellissimo passatempo di noi bambini, nel novembre 1968 si trasformò in una furia devastatrice, travolgendo e trasportando tutto quello che era nel suo alveo.

Dalla cascata, aCiusa da Fabrica, erose e trasportò via, la scarpata formata nel tempo da discariche abusive di terra pietre e da chissà che cosa altro, svelando u Beo da Fabrica sepolto da tutti quei detriti.

Era il canale ben conservato, che in antichità, faceva girare un mulino per cereali e l’acqua di risulta era poi utilizzata nel Cotonificio.

Per noi bambini fu una bella novità, un’altra cosa da esplorare.

Messi gli stivali, con i miei compagni di gioco, andammo un pò in giro, arrivammo in tu Pasciu, dove l’acqua che era defluita aveva lasciato fango detriti, desolazione e tanta disperazione.

Successe alle prime luci dell’alba del 1 novembre 1968

Il Teiro in piena dopo una notte di grande pioggia, distrusse il ponte in acciaio, nella località Fratin usci’ dagli argini a Gambun distrusse il ponte dal Lagoscuu.

Dau Punte du Rissulin in tu Pasciu i vegetali trasportati dall’acqua formarono una barriera, facendo esondare il Teiro e allagando il Parasio e i Busci.

La locanda della Besestra fu semidistrutta.

Il torrente in piena superò gli argini nella Lomellina, dove era già esondato il rian di Moerana

L’ Arzocco, con il Teiro in piena, non pote’ scaricare le sue acque e allago’ la zona della Camminata.

La piena arrivò anche nella zona del Solaro

Dove ci furono due vittima a causa di elettrocuzione, Angelo e Piergiorgio Boasso panettieri.

Acqua e fango invasero i piani terra delle abitazioni.

Molte le auto fuori uso.

La forza dell’acqua, dai Pelosi, fece crollare parte del muro di sostegno della strada, nella parte alta di via Montegrappa.

Lì vicino la furia dell’acqua, trasporto’ via tutto il materiale, di quella che era una vera e propria discarica abusiva, svelando la bella opera di presa per il Cotonificio.

Dalla Ciusa da Fabbrica, l’acqua scavo’ fin sotto le fondamenta della falegnameria Baglietto Paolo, gran parte del legname, che era accatastato, fu trascinato via dall’ondata di piena del Teiro.

E mai più recuperato

Negli anni 70, era il fiume a far paura, per l’impressionante quantità d’acqua delle sue piene e quasi sempre, erano allagate le zone del Bolzino, Parasio, Lomellina e della Camminata.

Furono stanziate delle risorse dopo la tragica esondazione di Genova del 1970, eretti dei muri d’argine, rialzati e ricostruiti i parapetti di via Montegrappa, via Piave e via Emilio Vecchia.

Oggi il Teiro non è più il problema primario, in caso di nubifragio, anche a seguito della modifica del deflusso dell’ Arzocco.

Con il fenomeno delle tempeste”autorigeneranti”grandi quantità d’acqua sono liberate sui litorali e questo porta spesso al collasso la parte finale tutta “tombinata” dei rii affluenti del Teiro.

Foto Archivio Storico Varagine.° novembre 1968.

U Teiru quel bellissimo passatempo di noi bambini, nel novembre 1968 si trasformò in una furia devastatrice, travolgendo e trasportando tutto quello che era nel suo alveo.

Dalla cascata, aCiusa da Fabrica, erose e trasportò via, la scarpata formata nel tempo da discariche abusive di terra pietre e da chissà che cosa altro, svelando u Beo da Fabrica sepolto da tutti quei detriti.

Era il canale ben conservato, che in antichità, faceva girare un mulino per cereali e l’acqua di risulta era poi utilizzata nel Cotonificio.

Per noi bambini fu una bella novità, un’altra cosa da esplorare.

Messi gli stivali, con i miei compagni di gioco, andammo un pò in giro, arrivammo in tu Pasciu, dove l’acqua che era defluita aveva lasciato fango detriti, desolazione e tanta disperazione.

Successe alle prime luci dell’alba del 1 novembre 1968

Il Teiro in piena dopo una notte di grande pioggia, distrusse il ponte in acciaio, nella località Fratin usci’ dagli argini a Gambun distrusse il ponte dal Lagoscuu.

Dau Punte du Rissulin in tu Pasciu i vegetali trasportati dall’acqua formarono una barriera, facendo esondare il Teiro e allagando il Parasio e i Busci.

La locanda della Besestra fu semidistrutta.

Il torrente in piena superò gli argini nella Lomellina, dove era già esondato il rian di Moerana

L’ Arzocco, con il Teiro in piena, non pote’ scaricare le sue acque e allago’ la zona della Camminata.

La piena arrivò anche nella zona del Solaro

Dove ci furono due vittima a causa di elettrocuzione, Angelo e Piergiorgio Boasso panettieri.

Acqua e fango invasero i piani terra delle abitazioni.

Molte le auto fuori uso.

La forza dell’acqua, dai Pelosi, fece crollare parte del muro di sostegno della strada, nella parte alta di via Montegrappa.

Lì vicino la furia dell’acqua, trasporto’ via tutto il materiale, di quella che era una vera e propria discarica abusiva, svelando la bella opera di presa per il Cotonificio.

Dalla Ciusa da Fabbrica, l’acqua scavo’ fin sotto le fondamenta della falegnameria Baglietto Paolo, gran parte del legname, che era accatastato, fu trascinato via dall’ondata di piena del Teiro.

E mai più recuperato

Negli anni 70, era il fiume a far paura, per l’impressionante quantità d’acqua delle sue piene e quasi sempre, erano allagate le zone del Bolzino, Parasio, Lomellina e della Camminata.

Furono stanziate delle risorse dopo la tragica esondazione di Genova del 1970, eretti dei muri d’argine, rialzati e ricostruiti i parapetti di via Montegrappa, via Piave e via Emilio Vecchia.

Oggi il Teiro non è più il problema primario, in caso di nubifragio, anche a seguito della modifica del deflusso dell’ Arzocco.

Con il fenomeno delle tempeste”autorigeneranti”grandi quantità d’acqua sono liberate sui litorali e questo porta spesso al collasso la parte finale tutta “tombinata” dei rii affluenti del Teiro.

Foto Archivio Storico Varagine.

E Anime da Grangia na Carampa-na e Strie e na Prinz Verde

La zona du Muin a Vapure è l’ultimo luogo di silenzio della nostra città, un posto dove il tempo si è fermato.

Qui regna il degrado, la rumenta l’oblio degli uomini.

La lelua, è riuscita a nascondere anche quel grande arco della Grangia, un capolavoro unico nel suo genere.

Dimenticato da tutti

Ma anche questo edificio era delle anime.

Quando un nicciu una casa un rudere come oggi è la Grangia ha un collegamento con le anime dei defunti, allora bisogna sempre chiederci che cosa c’era o c’è da nascondere.

L’edificio delle anime in Cantarena de Rensen era così chiamato perché la gente doveva girare al largo e non preoccuparsi dei rumori all’interno dove la notte si produceva la carta venduta sottobanco.

U Nicciu de Anime lungo la strada Vegia de Castagnabunna era così chiamato perché luogo di incontri amorosi e quindi non dovevano esserci occhi indiscreti da quelle parti.

Anche noi bambini del Sciu da Teiru, avevamo lo spauracchio delle anime che in questo caso indossando un lenzuolo erano chiamati fantasmi!

Era nella Grangia dall’altra parte del nostro fiume.

I muri laterali ancora parzialmente eretti di questo grande edificio medievale, impedivano di vedere che cosa si celava di così inquietante al suo interno.

E quel grande arco le dava un che di sacro e forse chissà magari nel XI secolo era veramente una chiesa, ma gli storici ci dicono tutt’altra cosa.

La Grangia era funzionale agli interessi terreni, nel vero senso della parola, dei Cistercensi grandi costruttori imprenditori e sfruttatori di mano d’opera.

Nel 1961 c’era stato l’eccidio di Kindù in Congo era ancora vivo il ricordo di quella strage di italiani e allora si era sparsa la voce, che nella casa da Suia, ci abitavano dei congolesi, che nell’immaginario collettivo, era ancora l’atavica paura dell’uomo nero

C’era qualcosa da nascondere in quella casa?

Probabilmente si, perché per rafforzare la tesi, si diceva che quel grande prato, vicino alla casa dopo il bosco, dove noi bambini scavezzacolli eravamo di casa, era ancora infestato da bombe antiuomo residui della guerra.

Lina Ghigliazza, mi ha raccontato della figura mitologica da Carampa-na che viveva nelle peschee e in ti buttassi ed era il terrore di lei e degli altri bambini.

A Carampan-na secondo i racconti degli adulti allungava le zampe ben oltre il bordo della peschea o del butassu per afferrare le esili gambine dei bambini e trascinarli nell’acqua putrida di quegli invasi senza fondo.

A ripensarci, invece chissà quanti bambini avrà salvato anche solo nominandolo, quell’animale mitologico!

Il terrore che incuteva, li teneva ben lontani dalle innumerevoli peschee che rappresentavano un pericolo mortale per i bambini, perchè tutte prive di protezione anticaduta.

La paura da Carampan-a aveva sortito l’effetto voluto dagli adulti!

Sempre Lina mi ha raccontato che c’era anche a Ca du Diau.

All’inizio della discesa della Via Romana, dove strani segni e anche del sangue erano apparsi sui muri e si udivano voci incomprensibili.

Ma era un diversivo per tener lontano le persone, specie i bambini, da quella casa dove c’era un centro di smistamento di materiale di contrabbando.

E poi strani episodi come quello di quei sfortunati ragazzi delle Sevisse, che uscirono a stento da un bosco di rovi e il giorno dopo videro la vicina di casa piena di graffi in volto e sulle braccia.

Era la prova che le streghe erano anche lì in quel posto sperduto.

Le streghe….. erano rimaste nell’inconscio collettivo e a distanza di secoli, ancora la gente presente al rogo dei falò in onore di vari santi, applaudiva sempre quando il fuoco raggiungeva la biondina, una bambola messa in alto al centro a simboleggiare la strega data alle fiamme.

E quelle scie lasciate nel cielo dai primi aerei di linea?

Erano le streghe che passavano sopra le nostre teste!

Famosi e divulgati dalla stampa i misteriosi sospiri che si udivano nella vecchia chiesa del Pero, sconsacrata e pericolante.

La cosa andò avanti per un bel po’ attirando torme di curiosi, impossibile trovar parcheggio nei dintorni di quell’ edificio di culto!

Appena faceva buio il sagrato della chiesa si riempiva di giovani forse più interessati ad altre cose, ma pronti a far silenzio quando ad un certo punto…. si sentivano strani sibili provenire dalla navata della chiesa.

Dissero poi che era una coppia di rapaci notturni gufi o barbagianni, che avevano nidificano all’interno di quella chiesa abbandonata.

Ma c’è chi al Pero ride ancora oggi, quando racconta degli scherzi che da giovanetti facevano nascosti in quella chiesa non visti dagli astanti.

Regalavano un po’ di cose da raccontare a tutta quella moltitudine di gente venuta appositamente per assaporare il brivido della paura.

E poi c’erano le cose sfigate, come la Prinz Verde!

Non appena era vista, fra noi ragazzi degli anni 70 si scatenava il panico e ognuno, nel fuggi fuggi generale, cercava di scaricare la negatività che aveva ricevuto da quell’auto, toccando chi aveva vicino gridando ” Tua”!

E poi ci sarebbe da elencare tutti i gesti scaramantici ancora in uso, come quel numero 13, assente nelle numerazione delle cabine dei bagni marini della nostra città, e poi ancun

– Nu passò a spassuia in se scarpe a un fantin

– Porta ma giò u pan in sa toa

– Nu tegnì u pegua avertu in ca

– Attentu au gattu neigru

E poi ancora molti altri gesti scaramantici e invito chi ha avuto la pazienza di arrivar fin qui a leggere, di portare il suo contributo per compilare questo elenco.

Grazie!

Nessuna descrizione della foto disponibile.

A Madonna da Prea

L’edicola votiva della Madonna della Pietra nella località Vallerga ad Alpicella, è costruita sopra un monolite di ofiolite, a lato della strada verso Stella S.Martino.

Nella nicchia c’è una statuetta del Bambin di Praga, e una formella biancoblu’ tipica delle fornaci di Albisola.

Nella ceramica è rappresentata l’apparizione Mariana ad Antonio Botta a S.Bernardo in Valle a Savona.

È probabile che questo monolito solitario, posto in una zona panoramica e dominante, fosse luogo di culto di un antica religione, forse una pietra altare.

Lo testimonia la profonda incisione a V sopra cui è stata edificata l’edicola.

Un mattone funge da inginocchiatoio

Una peculiarità dei nicci del nostro entroterra è la presenza nei dintorni, delle cosiddette Pose, cumuli di pietre o grandi pietre piatte, dove poso’ na belain-a de fen, legna, anche pigne pe a stiva.

Dirimpettaia a questo niccio nascosto dalla vegetazione c’è uno di questi manufatti.

Chi “camallava” si fermava per qualche minuto per riposare, con la scusa o per devozione, davanti a un niccio

Ben poche, sono le edicole votive che conservano nella nicchia, la statua originale della Madonna o del Santo a cui erano dedicate.

Erano ben protette dalle intemperie e dallo scorrere del tempo, eppure sono scomparse, trafugate perché si era sparsa la voce che potevano aver un qualche valore commerciale?

Un gesto increscioso

Un valore certo l’avevano era quello affettivo di un ex voto o di uno scampato pericolo.

Madonette posate in una nicchia da chi un giorno ha visto arrivare un figlio tornato dalla guerra o per la guarigione di una persona.

Nicci, duvve ghe dan recattu cun sciue e lumin.

Persi in ti boschi pin de lelua e de ruvei.

In simma na munto’, viscin a un punte, pe devusiun o pe un vutu.

Ma tutti cun na storia da cunto’

Nicci sensa madunetta

Gente gramma sensa segnu’ han purto’ via un ricordu, un vutu fetu pe quarchedun.

Fretto’ i Vermi

In tempo di raccolta di olive è d’obbligo, una n.d.r. sull’uso universale a scopo medicamentoso dell’olio di oliva.

Negli anni 60/70 questo unguento miracoloso, era ancora usato per lenire ogni sorta di lesione cutanea o disturbo del metabolismo,ad esempio i temibili “vermi”intestinali che stranamente, in quegli anni infestavano tutte le interiora della popolazione sopratutto, quella giovanile, facendo la fortuna, dei guaritori itineranti.

Gli interventi erano effettuati a domicilio, massaggiando il ventre dei pazienti che erano “segnati”, sulla pelle con una miscela di aglio e olio, intonando versi religiosi o parole incomprensibili, ricompensati al termine del trattamento, con un offerta in natura, ma anche compensati con moneta cartacea.

In caso di scottature, la cute lesionata doveva essere ricoperta d’olio e mantenuta al caldo, tenendo la parte scottata al caldo sopra la stufa.

Se poi ad essere colpito era l’occhio, con la comparsa di un semplice orzaiolo, allora bastava appoggiare l’occhio su una bottiglia e guardare all’interno dove naturalmente doveva esserci dell’olio

I temuti “orecchioni” erano curati versando nel dotto uditivo un cucchiaio d’olio tiepido, aromatizzato con un pò de Spersia.

Conversando con la sig.ra Lina classe 1927 ricorda anche un’altro metodo a cui era stata sottoposta da ragazzina, per estrapolare questa malattia.

La testa del malato, era infilata in un sacco stretto con un laccio al collo, questo sacco, poi era estratto velocemente, richiuso a palla e gettato da una scala, così facendo si ammazzava lo spirito malefico.

La mamma della sig.ra Lina era una guaritrice e lei racconta il trattamento da fare in caso di insolazione.

Sopra la testa del paziente, si poneva un piatto con un poco di acqua e qualche goccia d’olio, se l’olio si diluiva, voleva dire che il colpo di sole era stato debellato

Ma questa “segnatura” era anche chiamata a Sperlengoa e serviva per capire sel il soggetto era stato colpito dal malocchio

Le malattie dell’apparato respiratorio erano curate, con il serio rischio di scottature, tramite degli impacchi di semi di lino bollenti avvolti in panni di stoffa e appoggiati sullo sterno.

Oppure con inalazioni di vapori di infusi di sambuco o foglie di eucaliptolo, questo è forse l’ultimo rimedio ancora in uso oggi.

L’acqua o qualche miscela segreta, era invece utilizzata nel fastidiosissimo Fuoco di S.Antonio.

L’acqua era spruzzata sopra la parte colpita dalla malattia, con un rametto di foglie di lino o di rovo.

Oppure con un’ago e filo, usato come pendolo si “segnava” pronunciando la frase “San Luensu San Luensu u l’è cheitu in tu pussu e u gh’e’ restò dentru

Voglio ricordare a questo punto anche altre pratiche non inerenti ai guaritori, ma di cui conservo un vivo ricordo doloroso!

Lo spauracchio di tutti noi bambini, in caso di un’escoriazioni era la disinfestazione, effettuata con il terribile alcool denaturato, molto più doloroso delle ferite stesse!

La medicazione finiva poi con l’applicazione di polvere di penicillina, questo scongiurava il proliferare di batteri ma dopo un paio di giorni provocava la formazione di spesse e orripilanti croste che esageravano la gravità della lesione.

Come ultimo un consiglio della nonna, pratico e funzionale che può servire, in caso di febbre.

I termometri tradizionali sono sempre i più affidabili e far scendere il liquido a volte è complicato, ma basta inserire il termometro in un calzino, con la punta rivolta in basso, chiudere con le dita e far ruotare velocemente.( controllare prima che non ci siano buchi nel calzino…)

Ringrazio e pubblico questi commenti

Rosa Martini

Mi ricordo x l’insolazione l’asciugamo sulla testa capovolge un bicchiere d’acqua se bolliva passava,

i bicchieri con la fetta di patata e sopra ilcotone con l’alcool acceso, si facevano le ventose x maldischiena

Maria Ratto

Me lalla Gina de Faje curava il fuoco di S.Antonio con un’ago e filo, usato come pendolo “segnava” il male pronunciando la frase “San Luensu San Luensu u l’è cheitu in tu pussu e u gh’e’ restò dentru

Mia zia curava…l herpes labiale con i giunchi ( un erba tubolare che cresce vicino ai corsi d acqua ).

Antonella Ratto

Fumenti con l’ eucalipto ne ho fatti a brettio. Gli impiastri, così erano chiamati, con i semi di lino, dopo la prima volta, mi rifiutai con pianti e strepiti. Della polvere di pennicilina ne ho ancora i segni. Tutto il resto mi è stato risparmiato….credo

Mia nonna sulle ferite metteva la polvere delle loffe.

Ci si può credere o no, ma le credenze popolari sono un patrimonio da conservare.

Mario Craviotto

Da bambino ricordo che avevo tanto male in bocca con febbre ,i miei genitori consigliati da donne di paese hanno chiamato una signora di Castagnabuona che segnava.

Questa donna mi aveva passato in bocca una pietra per affilare la così chiamata messuia intingeva questa pietra nell’acqua del porta pietra e diceva cose che non ricordo, il giorno dopo giocavo con i miei amici

Anna Bolla

Questo prezioso articolo racchiude almeno una decina di pratiche che mia mamma imponeva in caso di problemi.Le ricordo tutte,le peggiori sono l’ olio sulle scottature con la vicinanza al calore e l’ alcool denaturato sulle ferite.Lei usava molto la cera d’ api come pomata sulle ferite e lo zucchero di latte,sciolto in acqua calda e bevuto, come depuratore,l’ olio di ricino per pulire l’ intestino o la mannite,in casa nostra non mancavano mai! Però la medicina migliore per tutto era il canto,anche se non si aveva niente una bella cantata,da soli o in compagnia faceva passare tutto! Oggi tutto questo non esiste più! Corriamo solo come matti,sempre ingrugniti e brontoloni.Viva i nostri genitori e la loro semplicità!

Francesco Bruno Faleno

I vermi… Quante volte me li hanno segnati! A Sassello la Lalla Rina, sorella di mio nonno, a Albisola un vecchietto, Paulin, che lo faceva di lavoro accontentandosi di qualche spicciolo. Vestiva in modo dimesso e quando stava per morire, metà anni sessanta, gli trovarono nel panciotto, cucito in busta, più di un milione di lire. Altri rimedi, ma questo non legato a tradizione antica, le fette di patata sugli occhi tenuti stretti da un fazzoletto di notte. Le usava mio padre quando gli lacrimavano gli occhi perché qualcuno aveva saldato troppo vicino a lui sul lavoro e gli era scappata qualche occhiata alla fiamma ossidrica

Molto interessante questo articolo Tratto da Quiliano Online che parla delle segnature.

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