Noi giovani degli anni 70

Noi giovani degli anni 70, nei dopocena eravamo al bar per quattro chiacchiere, una bevuta, una partita a biliardo o a carte.

Si parlava di sport, donne e motori.

L’attualità di quegli anni era tutta lì.

C’erano anche le pene d’amore, si raccontava di quella ragazza che passava sotto casa e di come fare per avere un puntello, aveva forse un’amica?

Desideri, voglia di divertirsi, ma anche fantasie verso donne mature.

Cose che facevano battere forte il cuore.

Negli anni 70/80, c’era un luogo dove si potevano avere tutte queste emozioni, alla sera, sull’Aurelia da Albisola Marina a Savona.

Era il nostro puttantour, dopo una serata al bar, una cena o un film era d’obbligo passare da quelle parti a vedere le belle di notte.

Anche se in auto c’erano delle ragazze, nostre amiche ci si fermava per guardarle da vicino e chiedere le tariffe.

– Belin ma avete visto?-

-Che gambe! E le tette? Le aveva quasi fuori!-

– Dai giriamo dalla Torretta! –

Chi dice di non aver fatto dei puttantour a Savona, molto probabilmente mente

Questo tragitto, era una delle prime guide da fare, freschi di patente.

Dopocena ci si ritrovava al bar, ma a volte, verso le 10 di sera, si partiva per Savona.

Non più di tre persone a bordo e c’era un motivo

A Celle avevano tolto i passaggi a livello e nel rettilineo di Roglio, le nostre cinquecento sfioravano i 100 all’ora e poco dopo eravamo in dirittura di arrivo, dai Pesci Vivi o da Bragantini.

Arrivati in zona, si bloccavano le portiere come ci avevano consigliato, si abbassava il finestrino e le domande erano sempre le stesse, dopo i complimenti di rito, sul suo seno, le gambe, l’abbigliamento, si chiedevano prezzo e prestazioni, qualcheduno più sfrontato osava chiedere lo sconto comitiva o altre cose fantasiose.

Ma perlopiù ci si limitava a prendersene una vista da vicino e poi in base all’eccitazione del momento, si decideva se consumare o meno un rapporto.

A questo punto, come da diritto sancito, il primo ad appartarsi con la signorina, era il proprietario dell’auto.

Ma non sempre era così, a volte questo privilegio era stato contrattato con una bevuta o altro

Gli amici scendevano e aspettavano il proprio turno.

Spesso si osservava da lontano il rollio delle sospensioni dell’auto.

E si teneva conto del tempo impiegato.

Cresceva l’autostima di chi impiegava meno tempo.

Si ritornava sull’Aurelia e lei scendeva.

Il lampo di un accendino, per la più classica delle fumate.

C’era ancora tempo di un panino con la russa e una birra.

E per le canzoni stonate, sulla strada del ritorno.

Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona, auto, strada e strada

L’Albergo Pineta

Furono due le intuizioni legate all’Albergo Pineta.

La prima, era quella di un grande albergo, immerso nell’aria salubre di una pineta, con la possibilità di far lunghe passeggiate, a piedi o a cavallo, una grande terrazza, dove si poteva far cena e godere del sole al tramonto, con tutte le sue sfumature di colori.Una sala interna, dove una piccola orchestra poteva suonar melodiosi sottofondi, per allietare i clienti e rendere le serate gradevoli e conviviali.

La seconda idea, allettante, per attirarare una certa clientela, era quella di un edificio poco distante sopra un terrazzamento immerso nel bosco, dove chi voleva, poteva appartarsi in dolce compagnia.

Una casa d’appuntamento in mezzo al bosco.

Albergo e casa, dovevano essere lontano dalla mondanità della riviera.

Distanti dagli sguardi indiscreti e dai flash dei paparazzi, i clienti potevano essere persone importanti, famose, facoltose e non si doveva far sapere in giro che erano stati lì.

I clienti abituali potevano essere giovani rampolli, per una serata goliardica, un addio al celibato, che finiva a donne.

Uomini d’affari, che concludevano gli ultimi dettagli di una compravendita, durante una cena, con buon vino, buon cibo e la possibilità di avere una dolce compagnia.

E poi anche altre cose, potevano essere combinate in quella dependance, il denaro non pone limiti

Liberi di far schiamazzi notturni, di ubriacarsi ed altro, senza disturbar la quiete cittadina.

L’Albergo Pineta e la casetta, oggi sono entrambi due ruderi, fagocitati da edera e rovi e sono ancora visibili, poco dopo aver imboccato la strada che porta al Bricco delle Forche.

La casa d’appuntamento aveva le pareti decorate da figure femminili con colori pastello.

Molti di quegli affreschi, sono stati cancellati o vandalizzati, incuria e infiltrazioni, hanno completato l’opera di disfacimento di questa struttura

Fu chiusa definitivamente con la Legge Merlin, nel 1958

E poi trasformata in stalla dove erano alloggiati dei cavalli.

Pubblico e ringrazio Bruna Rebagliati per il commento a questo articolo

Mi permetto di ricordare che in origine quella costruzione doveva essere una clinica. L’aveva commissionata un certo Sig. Bolla chiamato “u megun” credo per la sua stazza ma soprattutto per sue doti di guaritore. Poi la cosa non andò in porto (non so per quali motivi) e come clinica non funziono’ mai. Rimase chiusa per diversi anni. Successivamente fu trasformata in albergo.

Anche la casa a fianco chiamata la ” casa rossa” per via del suo colore era sorta come alloggio per il guardiano della clinica.

Potrebbe essere un'immagine in bianco e nero raffigurante 2 persone

U Co Scia’po’ de San Duno’

di Francesco Baggetti

C’è un cuore inciso, sul muro di S.Donato, con due lettere M.

Una linea lo divide in due.

Chissà quale sarà la sua storia

Lei poteva essere una di quelle giovani operaie, che avevano iniziato a lavorare nel Cotonificio, all’età di dodici anni

Arrivava ogni mattina da una borgata dell’entroterra, percorreva un lungo sentiero di mezza costa, faceva tappa presso un’edicola votiva, per una preghiera e il cambio delle calzature, perché mica si poteva arrivare a Varazze con le scarpe infangate!

E se ad aspettarla al cancello, c’era lui con il suo sorriso, allora entrare in quel malsano posto di lavoro, era meno pesante.

A volte le strizzava maliziosamente l’occhio

Quello era il segnale, per vedersi alla fine della giornata di lavoro, sul Colle.

Quel primo amore, le dava la forza per resistere, in quel posto di lavoro.

Lei piccola di statura, aveva uno sgabello su cui salire, per arrivare ad annodare i fili sui telai, tutto intorno, frastuono, puzza polvere.

Pensava a lui, lo immaginava lassù a S.Donato, ad aspettarla, in piedi ai margini del terrazzamento, bello, capelli neri, la pelle abbronzata, il solito filo d’erba fra i denti e quel sorriso da uomo, anche se in due superavano di poco i trent’anni!

Come altri giovani operai, lui era entrato nell’età adulta, con il rito di iniziazione, che le “anziane della Fabrica” goliardicamente facevano subire ai nuovi assunti.

Succubi e paonazzi in volto, dovevano sottostare ai palpeggiamenti, nelle parti intime, dalle donne che ridevano divertite.

All’uscita i giovani dicevano di salire a S.Donato per pregare, ma era una scusa per restare un po’ da soli

Il cielo stellato, I fiori e l’erba dei prati, accoglievano e nascondevano gli amanti e i promessi sposi

Si racconta che nelle notti senza luna, tremolanti, lumi ad olio salivano a Muntà de San Duno’ per poi spegnersi all’improvviso.

Il Colle era chiamato con ironia, u Beciae’

Oggi più nessuno ricorda questo nomignolo.

Ma che cosa sarà successo ai nostri due innamorati?

E quel cuore spezzato?

Dopo la passione dei loro incontri, forse mancarono gli abbracci quelli che tolgono il fiato, i baci quelli veri profondi, che fanno battere il cuore sempre, anche quando si è lontani dalla persona amata.

Oppure lui, partito per una stupida guerra, non fece più ritorno.

O forse furono le famiglie a spezzare quel cuore, decidendo diversamente per il loro futuro.

Ma come si fa, quando si è giovani, a non lasciarsi travolgere dalla pazzia della vita a restare ad occhi aperti, sotto ad un cielo stellato, accanto alla persona che si ama?

È rimasto quel cuore spezzato, sul muro di S. Donato, testimone di quei momenti d’amore e pazzia.

Chissà se è questa la storia vissuta da quelle due iniziali, circoscritte da un cuore.

Bello, pensare a quante storie d’amore, hanno lasciato un segno sui muri di S.Donato!

Se salite sul Colle, cercatelo quel cuore spezzato, fermatevi per qualche minuto, liberate la vostra immaginazione, ascoltate le emozioni che danno quelle incisioni sui muri della chiesa di S. Donato.

Un pezzo di Storia della nostra città.

Promesse d’amore, con i nomi racchiusi in un cuore o incisioni a forma di casetta, per simboleggiare un matrimonio.

Centinaia di nomi, date, simboli.

Se liberiamo la mente da pregiudizi e facili conclusioni, possiamo vedere la bellezza di questi segni e l’energia che ancora c’è in quelli che volgarmente sono chiamati “I Scarabocci de S.Duno’”

Queste incisioni sono la testimonianza reale, delle persone che si incontravano su questo Colle, per devozione, dove erano celebrati matrimoni e battesimi, o per momenti conviviali, con pranzi e giochi.

Ma sono anche un ricordo, di chi si dava appuntamento a San Dunò per scambiarsi parole, carezze e il primo bacio

Tramite u Puntin, un ponte pedonale in legno, qui convergeva la viabilità della Via Bianca, dove transitarono generazioni di operai, per raggiungere e poi sparire oltre i cancelli del Cotonificio.

A Fabrica, che per oltre un secolo ha sfamato le famiglie di Varazze.

Ringrazio Antonella Ratto, per i suggerimenti e adattamento del testo.

Lancio un’appello, perché siano salvaguardate le incisioni sui muri di San Donato, testimonianze delle persone che erano su questo Colle, luogo d’incontro, per devozione, svago e per amore.

I Seccau da Tranta

È un tappeto di ricci, castagne e foglie secche, il percorso triangolo rosso, che si inerpica, con un ripido tracciato lungo le pendici del Bric Vultui.

Castagne di un marrone lucido, sgusciano dai ricci e cadono dagli alberi, sopra un Ciappin de Prie.

Era questa una Stra da Lese, che proveniente dal Sassellese, scendeva dal Beigua.

Lunghe file de Bo Cabanin, con i loro carichi di legna, attraversavano u Lunò, Montebe’ e Priafaia, arrivavano al Poggio, da qui giù, verso la Ceresa o dal Voltui, con una vertiginosa discesa per arrivare al centro dell’Arpiscella.

Legna che transitava, per soddisfare gli onnivori cantieri per navi, sulle spiagge di Varazze.

Poi quell’epopea finì.

Restò l’economia locale, del bosco e delle praterie.

In questo pendio trasformato in terrazze, dominava la coltivazione della castagna, vitale fonte di cibo.

U Castagne’ da Tranta era un giardino, non un frutto andava perso, anche il fogliame serviva.

Latte e castagne è stato il binomio che ha sfamato il nostro entroterra.

Rustie, ballette, veggette.

Questo prezioso frutto, estratto dal suo involucro, doveva essere essiccato, per poter essere conservato.

L’importanza di questa economia, lo si evince al cospetto delle centinaia di Seccau, sparsi nei nostri Bricchi.

Costruzioni quasi invisibili, celate in modo naturale, perché costruite con la stessa pietra che calpestiamo.

Siamo alle pendici del Bric Vultui

Enormi massi impilati, pietre fitte e a punta, antichi recinti che cosa c’era prima delle castagne?

Abbiamo perso storie, come quelle che si sentivano intorno a un falò, a mangio’ e Rustie.

Memorie perse, quelle dei nostri vecchi, che avevano la saggezza e parlavano di fatica e di privazioni.

Restano i Seccau, monumenti di un patrimonio abbandonato.

Costruiti o ricostruiti con la tecnica celtica, de Ca de Paggia.

Come ci avevano insegnato, duemila anni fa, quegli uomini biondi venuti del nord.

Chi oggi si trova a percorrere il sentiero triangolo rosso, con un po’ di ulteriore fatica, può lasciarlo, scavalcare le carcasse d’albero, per godere da vicino di queste vere e proprie opere d’arte.

Non servono più le parole, bastano le foto che allego a questo articolo

E d’altronde, non saprei come descrivere, quello che provo a sfiorar queste pietre, pensare chi erano, forse dei maghi, quelli che trasformarono semplici pietre, in meraviglie.

Buona Giornata

La Fornace di Costata

Lo scoglio d’Invrea e la foce dell’Arenon (Portigliolo), erano ostacoli troppo ostici da superare anche per gli ingegnieri romani.

E così da Genua per arrivare al Castrum del Parasio si inerpicarono Sciu dai Bricchi costruendo una strada il cui tracciato è ben descritto da Pietro Rocca nei suoi studi sulla tavola Peutigeriana.

Nel 1870 fece diverse escursioni nel nostro entroterra cercando le tracce di questa viabilità

Il tracciato “costiero” di guesta viabilità da Genua arrivava a Sciarborasca, raggiungeva la nostra città, inerpicandosi dalla Mugiarina trasversalmente fino al Bric Meazze poi verso Costata

Con un percorso a tornanti si inerpicava lungo le pendici dell’Arenon arrivava alla Costea, in vista del mare di Ad Navalia

Da qui si scende ancora oggi verso la nostra città per la via Bianca.

Dalla Costata una diramazione scendeva, verso il rio omonimo qui al limitare di un un prato, si erge ancora oggi, un bellissimo edificio in pietra è una fornace da calce, con in basso i classici cunicoli, dove, la calce al termine del suo percolato, era estratta.

Bella imponente sgraziata nelle sue forme perché una costruzione per uso industriale non doveva soddisfare alcun senso estetico.

Doveva essere funzionale allo scopo per cui fu edificata, robusta e razionale.

La presenza di numerosissimi cocci e manufatti di argilla cotta, fa pensare ad un riciclo postumo come fornace per mattoni.

Un provvidenziale tetto in tegole, ha preservato questo edificio dalle ingiurie del tempo, ma non dal disinteresse della nostra comunità !

Testimonianze tramandate, da chi abitava in questa zona, fa ritenere che questo l’opificio, fosse in funzione, ancora nel XVII secolo, il periodo di edificazione delle case in questa vallata.

È probabile che fosse una proprietà dei Centurione Invrea.

Ma forse, furono proprio i romani, i primi ad arrostire pietre in questa fornace, per poi trasportare la calce a Ad Navalia

Resti di altri manufatti in pietra in questa zona, indicano la possibile presenza di altre lavorazioni, fatte in loco.

E’ molto probabile che da questa fornace, fu estratta anche la calce, servita per costruire l’Eremo del Deserto e le poderose mura che circondano la proprietà della chiesa.

Tracce dell’antica strada romana, lastricata dalla canonica larghezza di 2,40 metri, si trovano in un prato in direzione del rio Arenon.

Ma la vegetazione, particolarmente rigogliosa e un movimento terra, le ha quasi cancellate.

E’ arduo avanzare, facendosi largo tra arbusti e rovi e come spesso succede, devo seguire un sentiero marcato dagli animali selvatici.

Oltrepassato il corso d’acqua, incontro altre tracce di lastricatura della strada, poi delle poderose mura, costituite da grosse pietre e poco oltre, in uno spiazzo, un “mucchio di pietre”

Queste pietre molto probabilmente facevano parte del sedime della strada a servizio della Fornace che si inerpicava verso a la Costea e che poi raggiungeva la nostra città.

Esplorando questa zona sono molti gli alberi abbattuti, sopra dei terrazzamenti, molti sono sradicati penso dal vento.

Un tronco è carbonizzato e si erge al centro di una fascia, altri ceppi sono con molte ferle in bella vista.

È arduo proseguire, sono i rovi ad ostacolare il mio avanzare provo a seguire un’altra bozza di sentiero che si addentra verso una fitta boscaglia.

I Pestapota

Capita, quando si gira in auto o moto, di sostare nella piazza principale, dei paesi arroccati sui bricchi, del nostro entroterra.

Nella piazza principale c’è sempre un bar, per un caffè, pisciare.

Se il tempo lo permette, ci sono anche dei tavolini, all’esterno dove far due chiacchere con i compagni di viaggio, all’ombra di un olmo.

In ognuno di questi paesi, è presente un monumento ai caduti.

Al centro di una piazza o ai lati della via principale.

Faccio sempre qualche foto e leggo i nomi.

A volte c’è anche l’anno di nascita e di morte.

Vien da piangere a calcolare quel lasso di tempo.

Stroncare una giovane vita equivale a cambiare il corso delle cose per sempre.

Le propagande di re e di regime, volevano le donne fattrici di una gloriosa gioventù.

Eccola qui quella gloriosa gioventù, incisa in nero sul candore di una lapide.

Troppo alto è stato il contributo di gioventù, per due inutili, sanguinose guerre, che è stato prelevato da questi paesi!

Re e regime cercavano proprio loro, i pestapota, contadini o boscaioli, già avvezzi a far vita grama, meglio se poco, o per niente istruiti.

Naturalmente devoti a qualche santo, a cui rivolgersi quando tutto era perduto.

Chi scampò alle sabbie africane, aveva già visto troppo sangue e tanti.amici fatti a pezzi.

Aveva capito che la guerra era già persa dopo due anni dal suo inizio.

Preferì automutilarsi che indossare nuovamente una divisa.

A Sassello, un giovane in lacrime, poso’ una mano su un ceppo e si amputo’ le dita, il papà di Jhon Ratto si fece estrarre tutti i denti, Ghigliazza Benedetto si rovesciò una pentola d’acqua bollente su di una gamba.

Portarono le conseguenze per tutta la vita di quei gesti disperati.

Ma vissero in pace e fecero crescere dei figli.

Nella foto il monumento ai Caduti all’Alpicella.

I Pestapota

Capita, quando si gira in auto o moto, di sostare nella piazza principale, dei paesi arroccati sui bricchi, del nostro entroterra.

Nella piazza principale c’è sempre un bar, per un caffè, pisciare.

Se il tempo lo permette, ci sono anche dei tavolini, all’esterno dove far due chiacchere con i compagni di viaggio, all’ombra di un olmo.

In ognuno di questi paesi, è presente un monumento ai caduti.

Al centro di una piazza o ai lati della via principale.

Faccio sempre qualche foto e leggo i nomi.

A volte c’è anche l’anno di nascita e di morte.

Vien da piangere a calcolare quel lasso di tempo.

Stroncare una giovane vita equivale a cambiare il corso delle cose per sempre.

Le propagande di re e di regime, volevano le donne fattrici di una gloriosa gioventù.

Eccola qui quella gloriosa gioventù, incisa in nero sul candore di una lapide.

Troppo alto è stato il contributo di gioventù, per due inutili, sanguinose guerre, che è stato prelevato da questi paesi!

Re e regime cercavano proprio loro, i pestapota, contadini o boscaioli, già avvezzi a far vita grama, meglio se poco, o per niente istruiti.

Naturalmente devoti a qualche santo, a cui rivolgersi quando tutto era perduto.

Chi scampò alle sabbie africane, aveva già visto troppo sangue e tanti.amici fatti a pezzi.

Aveva capito che la guerra era già persa dopo due anni dal suo inizio.

Preferì automutilarsi che indossare nuovamente una divisa.

A Sassello, un giovane in lacrime, poso’ una mano su un ceppo e si amputo’ le dita, il papà di Jhon Ratto si fece estrarre tutti i denti, Ghigliazza Benedetto si rovesciò una pentola d’acqua bollente su di una gamba.

Portarono le conseguenze per tutta la vita di quei gesti disperati.

Ma vissero in pace e fecero crescere dei figli.

Nella foto il monumento ai Caduti all’Alpicella.

l Sentiero degli Alpini.

Primavera/autunno sono le stagioni per fare questa escursione.

Sono diverse le escursioni organizzate in questo periodo, da associazioni del settore a cui rivolgersi per informazioni o prenotazioni.

Da fare almeno una volta nella vita!

Per essere immersi nelle “Dolomiti di Liguria” ma anche e sopratutto per la testimonianza, scavata nella pietra di un periodo storico, quello del primo dopoguerra, quando il nostro nemico storico la Francia, era ritornato in auge, grazie alla destra fascista, che governava l’Italia.

Serviva avere un nemico alle porte, per giustificare lo sperpero di risorse economiche ed umane per costruire completare o ampliare delle opere dispendiose, come lo sono state tutte le strade, le fortezze e anche questo sentiero, tutto scavato a mano nella roccia.

Opere militari costruite per difendere un confine, bocche da fuoco che mai spararono un colpo e quando lo fecero come nel caso dello Chaberthon, furono messe fuori uso e con molte vittime, da dei semplici mortai in poco tempo.

Chi oggi si avventura in questo sentiero deve avere la consapevolezza del sacrificio del sudore e del sangue dei caduti sul lavoro, per realizzare queste opere al limite del disumano.

Ed è questo l’unico motivo per cui queste opere, costruite per vanagloria, vanno oggi salvaguardate, protette e ripristinate, perché chiunque possa fruirne a ricordo delle nostre passate generazioni, bestie da lavoro e carne da cannone.

Prima di partire, informarsi dello stato del sentiero e delle praticabilita’ delle strade di accesso.

Sono due le direttrici per arrivare a Colle Langan una da Arma di Taggia e poi bivio a Molini di Triora.

Oppure da Ventimiglia bivio per Pigna e Castel Vittorio.

Da Colle Langan, si prosegue per Colla Melosa e presso il rifugio Allavena si lascia l’auto.

Con l’incombente sagoma del rifugio Grai sulla nostra verticale, al bivio della strada carrabile, si svolta a sinistra in direzione del sentiero degli alpini.

Il sentiero è quasi tutto scavato nella roccia le pietre di risulta, sono state utilizzate, per creare dei terrapieni verso valle, bella la fontana Italo, una vasca per abbeveraggio di soldati e muli, numerose buche a sezione quadrata sono presenti ad intervalli regolari lungo il percorso mi è ignoto il loro utilizzo.

Il sentiero da me percorso molti anni fa, annovera anche ponticelli gallerie colonne di sostegno fino ad arrivare all’apoteosi finale del passo dell’Incisa!

Solitamente anche se si parte presto, si preventiva il tempo di percorrenza ecc.ecc, si arriva sempre al cospetto dei micidiali tornanti del passo dell’Incisa, nell’ora più calda della giornata a mezzogiorno con il sole a picco sopra la testa e a corto di energie!

Sono una dozzina i tornanti e quando, persa la conta, si pensa che siano terminati, ecco che salendo, se ne svelano degli altri!

Terminata la salita si arriva al passo della Fonte Dragurina, ma non fatevi illusioni è sempre secca!

Indimenticabili i panorami!

Volendo si può proseguire per il giro del Torraggio, ma impossibile effettuare il giro ad anello a causa di franamenti

Svoltando a destra dopo un tratto roccioso ci si immerge in un bosco dove a farla da padrone sono i rododendri.

A questo punto si arriva al rifugio Grai e magari se si è giovani e forti proseguire in una sola giornata per il forte del Balcone di Marta.

Ma quella è un altra storia

Buona giornata

Bellugiu a Giacopiane

Oggi quando il sole si è abbassato sui monti e le ombre si sono allungate sull’asfalto, di una di quelle strade, che sfidano la forza di gravità per portarci sui nostri monti, anche oggi è arrivata quella cosa che mi fa star bene, una sensazione difficile da descrivere.

Anche se ho nelle braccia le almeno mille curve, fatte nei saliscendi tra le vallate di questa parte di Liguria, sto bene e penso a questa bella giornata, cercata e trovata in questo angolo di mondo.

Chi devo ringraziare?

Questa stupenda natura, la nostra Liguria, con i suoi boschi a perdita d’occhio, da cui emergono montagne verdi, con le rocce nere d’ardesia, questo cielo blu intenso, gli odori i profumi di fine estate, che entrano nel casco e lì restano per un pò.

Dovremmo dir grazie anche a quelle persone, che con la sola forza delle loro braccia, hanno costruito nei secoli, questo reticolo di strade, che ci portano a veder e scoprire cose belle e interessanti della nostra terra.

Siamo sulla via del ritorno,

Il mio compagno di viaggio Francesco mi precede in questa strada, che scende da Giacopiane.

Il grazie più grande lo devo a questo mio amico, compagno di tante cose fatte e condivise insieme, un viaggio in moto, un giro nei boschi, quattro risate al tavolo di un bar.

Quante strade abbiamo percorso anche oggi!

Larghe ben asfaltate quelle che corrono nel fondovalle, strette tortuose le altre che risalgono ripidi pendii attraversano boschi e improvvise radure con struggenti panorami e vertiginosi strapiombi, paesini sperduti dove non c’è anima viva, campanili lontani, tante chiese e un incredibile Abbazia, testimonianze di fede perduta

Cose dimenticate, come

le tante targhe, nelle piazze in ogni paese che attraversiamo, con i nomi di giovani mandati al macello per la patria.

Ma anche tanti altri nomi, lungo le strade e su un monumento alla Resistenza di chi in queste montagne ha combattuto e perso la vita, perché noi oggi potessimo avere la libertà.

Ma tutto abbiamo dimenticato, la storia non ci ha insegnato nulla.

Deve aver soffiato forte il vento, nei giorni passati, molti ricci ancora verdi strappati dai castagni, sono in mezzo alla strada insieme a quelle foglie che si alzano al passaggio delle moto.

Da tempo si voleva andare a vedere il lago e la grande diga di Giacopiane, con gli abeti che si specchiano nell’acqua.

Ma la signora dove abbiamo comprato i biglietti di permesso per la strada delle dighe, ce lo dice un po brutalmente che la diga è stata vuotata per lavori!

Belin che sfiga!

Pranziamo in un ristorante a Borzonasca un primo (abbondante ) secondo dolce caffè 16€

Il titolare è una gentile signora che ride sonoramente quando le leggo l’esilarante elenco dei manifesti da sacrestia trovati sul web

Prima di salire alle dighe andiamo a Borzone dove si può visitare la bella e incredibile abbazia di S.Andrea in stile romanico

Si continua lungo una strada a cavatappi fino ad una panchina e tavolino a bordo strada è il belvedere della scultura del volto di Gesù, peccato per le foto impossibile farle in controluce!

Si ritorna a Borzonasca per poi prendere la strada delle dighe arrivati a Giacopiane è impressionante vedere questo enorme bacino, con i grandi accumuli di terra al suo interno.

Arriva un vigilante a chiederci i permessi.

Sullo sbarramento c’è il guardiadighe, si parla con lui di ex colleghi, dei lavori dei danni del maltempo della scorsa settimana.

Siamo partiti alle 8 come al solito dal ristorante El.Mi.Di nel Parasio

Trasferimento via autostrada con uscita a GE Est, in mezzo al traffico pesante di autotreni.

È una bella giornata soleggiata ma il sole come un flash appare e scompare dalle barriere antirumore lasciate li a bordo autostrada incompiute, un pericolo reale per chi ha un casco in testa, la luce rimbalza sulla visiera e in pratica si perde la visibilità della strada.

Solito traffico caotico nel Lungobisagno e il miracolo dell’ultimo semaforo dove tutte le auto d’incanto spariscono.

Un po di freddo nella galleria della Scoffera.

Dal Passo si scende a Gattorna, Cicagna per poi risalire a Lorsica, Favale di Malvaro, Passo della Scoglina, Borzonasca, Carasco, Chiavari, A10.

260 km a.r.

Percepiti 1000!

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A Bansa

Chissà perchè, ma a commento delle foto mi andava uno stralcio di “Strada Facendo” di Baglioni

Io ed i miei occhi scuri siamo diventati grandi insieme

Con l’anima smaniosa a chiedere di un posto che non c’è

Tra mille mattini freschi di biciclette

Mille più tramonti dietro i fili del tram

Ed una fame di sorrisi e braccia intorno a me

Io e i miei cassetti di ricordi e di indirizzi che ho perduto

Ho visto visi e voci di chi ho amato prima o poi andar via

E ho respirato un mare sconosciuto nelle ore

Larghe e vuote di un’estate di città

Accanto alla mia ombra nuda di malinconia

Io e le mie tante sere chiuse come chiudere un ombrello

Col viso sopra il petto a leggermi i dolori ed i miei guai

Ho camminato quelle vie che curvano seguendo il vento

E dentro a un senso di inutilità

E fragile e violento mi son detto tu vedrai, vedrai, vedrai……

foto di Giovanni Parodi “U Gianballetta”

Dita intrecciate, ossute di pelle sottile.

di Francesco Baggetti

Le badanti, arrivano, salgono scale, quelle ripide, che i vecchi non scendono più.

Hanno sempre un pò di tempo e un sorriso, per ascoltare le persone anziane.

Mentre fuori tutto corre in fretta e nessuno vuol più sentir parlare delle cose del passato

Dietro quella porta in cima a quelle scale ci sono loro, vecchi, fragili, ma teneramente ancora insieme da quel giorno sull’altare.

Di quell’uomo vigoroso, una vita in ti Ciante’ Baglietto, a far buei, stamanee, currenti, durmienti, madere, toe da fasciamme, nulla è rimasto, ma lei è lì sempre accanto a lui, minuta con le ossa a spuntar dalle pieghe, di gambe e braccia

Le loro mani stringono dita intrecciate, ossute di pelle sottile

Lei racconta, che da ragazzina voleva fare la sarta e si fermava davanti alla porta di quel negozio di tessuti in Numascelli, ogni volta a guardar quella corpulenta donna, mentre tagliava, cuciva, creava dal niente vestiti e altro.

Ma sua madre, quattro figli vivi di sei, aveva già deciso per lei.

Quella sua figlia, sarebbe diventata suora, troppo minuta per lavorare e quel bacino cosi stretto,? Non era buono per far figli.

Chi mai l’avrebbe presa in moglie?

Un cugino, già prete salesiano, le avrebbe facilitato il percorso da novizia.

Lei voleva far la sarta.

Suo padre aveva cuore, per quella figlia, l’ultima, arrivata, per caso, come tutti i suoi figli.

I doni di Dio si diceva un tempo

E forse, per non farle indossare il velo, la volle con sé a far di conto nella sua attività.

Nella falegnameria sciu da Teiru, l’ addetto alle macchine era un ragazzo, già uomo a tagliare la legna e lei era la figlia del padrone.

Passarono quattro anni, prima che lui dichiarasse il suo peraltro corrisposto sentimento.

Partirono per il viaggio di nozze, due giorni in un albergo a Genova.

Lei non aveva mai visto un uomo nudo, non sapeva niente del sesso, era diventata donna, ma di quel suo corpo, cresciuto troppo in fretta cosa ne doveva fare?

Era così, in una società bigotta e ipocrita, non si doveva svelar niente di come procreare, mai e poi mai, parlar di piacere e godimento e guai a far gemiti e sospiri, sopra quei grandi letti, quelli di una volta massicci, imponenti, importanti

Lui voleva bene alla sua sposina e passo’ quelle due notti insonni sotto alla Lanterna, ad accarezzare quel piccolo corpo di donna, avvolto nella camicia da notte, cucita e ricamata da lei, era parte del suo corredo da sposa, riposto dentro ad un baule.

-Ma non avete fatto l’amore?-

La badante, interruppe così il racconto.

E non lo fecero neanche nei successivi quattro mesi.

Lui era pieno di premure, l’amava e quindi rispettava quel suo esser ritrosa fragile impaurita

E come tutti gli uomini, era già avezzo ai piaceri della carne, praticati nei bordelli di Savona.

Ogni sera, quando si spegneva il lume, le sue mani accarezzavano lembi di pelle nuda, ma certe zone del corpo, erano sempre pudicamente celate.

Poi una sera, lui si spoglio, sotto le coperte.

– E tu non hai visto? Non hai tirato su il lenzuolo per vedere?-

Disse maliziosamente la badante.

A luce spenta consumarono quel loro primo rapporto dove lei aveva provato solo dolore

– E poi ?-

Poi le cose andarono per il verso giusto.

Su quel grande letto trovarono la loro intesa di coppia, lui la spogliava e accarezzava tutta la sua pelle, morbida, liscia, lo stesso faceva lei, con le sue carezze, guardando il piacere di lui nei suoi occhi

– E quante volte lo facevate alla settimana?

Lo facevano una volta sola, il sabato sera.

– E ora quante volte lo fate-

Chiese scherzosamente la badante.

-Tutti i giorni!-

E così dicendo, quella piccola donna, alzò le braccia di lui e di lei, unite da quell’intreccio di mani, di dita ossute di pelle sottile…. di tante carezze date e ricevute.

P.S

Ringrazio chi mi ha raccontato questa storia

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