Una storia comune ma non tanto (n°4)

di John Ratto

Sbrigate le pratiche burocratiche, partimmo per andare alla stazione ferroviaria, ma di questo tragitto, stranamente non ho ricordo.

 Sul treno, all’ora di cena, ho scoperto che cosa erano i tramezzini, la pizza già la conoscevo per averla mangiata sulla nave.

 Era un altro modo di mangiare una cosa nuova e strana, per chi come me era abituato a mangiare, pane e burro, tutto fatto in casa, come anche le acciughe e l’aglio che era nell’orto.

Il treno viaggiava in direzione dell’ovest, degli Stati Uniti e la California era la destinazione finale.

 Ricordo l’arrivo a Chicago, una cosa strana per un montanaro come me che fino ad allora, il viaggio più lungo effettuato, era essere stato a Genova.

Nella stazione di Chicago, incontrammo un altro italiano e anche lui fu attratto dal nostro aspetto e chiese se avevamo bisogno di qualche cosa, noi rispondemmo con una richiesta di cibo, possibilmente italiano, ma non potevamo pagare in dollari.

 Lui rispose che assolutamente non c’era alcun problema, perché conosceva un ristorante, gestito da italiani, che accettavano in pagamento anche le lire e così, per la prima volta, dopo tre giorni, riuscimmo a fare un pasto decente.

Ma risaliti sul treno, ecco i soliti tramezzini di prosciutto cotto, tonno e marmellata, per i minorenni, niente bevande alcoliche, solo coca cola e bibite, latte e acqua, per gli adulti c’erano la birra e liquori.

Ricordo quei strani quei paesaggi, attraversati dal treno, quello che più mi fecero impressione, erano i grandi cimiteri di carcasse d’auto e le mandrie di mucche in mezzo a quelle sterminate pianure.

Una cosa stranissima successe, quando arrivati a Denver, il treno fu fatto transitare sotto un gigantesco treno lavaggio, una prassi obbligatoria, perché l’attraversamento delle montagne rocciose, con il locomotore diesel aveva annerito di fuliggine tuti i vagoni.

Il 12 novembre del 1954, arrivammo a Oakland, c’era molta gente, persone a me quasi tutte sconosciute, ad aspettarci, riconobbi solo mio cugino Baci, a cui ero molto affezionato, da quando lui e sua madre vennero in Italia nel 1949 e vi rimasero per 9 mesi.

Mi fecero grande impressione tutte quelle grandi auto, tirate a lucido e con il cambio automatico, ricordo quella dello zio Beppin, era l’ultimo modello, dotato di occhio magico, un aggeggio, che abbassava gli abbaglianti, automaticamente, quando si avvicinava un’auto che procedeva in senso opposto.

Come le auto, anche le case erano enormi, avevano 3 o 4 camere da letto, locali da bagno enormi, con l’acqua calda e per me ragazzo montanaro erano grandi comodità.

Ma là in America, quando si fa notte e si spengono le luci, ecco che allora arriva sempre la malinconia di casa

I Fazio

Il cognome Fazio deriva dal medievale Fatius un’abbreviazione del nome Bonifazio.

Fazio è presente in tutta l’Italia meridionale, con maggiore concentrazione in Sicilia e Calabria, ma è presente con numerose famiglie anche in Italia settentrionale.

A Varazze il cognome Fazio è presente da almeno 6 secoli, oggi ci sono alcune famiglie Fazio non direttamente consanguinee, ma alla lontana certamente parenti.

Hanno “colonizzato” in specie le due frazioni dei ravanetti e siaulè Castagnabuona e Cantalupo.

I componenti di un ramo della famiglia, erano soprannominati i Cafatin, perché addetti alla calafatatura delle imbarcazioni poi ancora i Fattui, i Lerve, Zizin, i Ciure’ e i Dentin.

Manoscritto raffigurante Jacopo da Varazze già Jacopo De Fazio

Alcuni nostri concittadini che portano questo cognome furono illustri, in primis, il Beato Jacopo da Varagine già Jacopo De Fazio, Bartolomeo Fazio, fu un ricercatore storico ci fu un Fazio sindaco, altri Fazio furono uomini di chiesa e di armi, tra cui Clemente Bartolomeo Fazio ammiraglio della repubblica di Genova.

Clemente Fazio

Nella foto La sala del piano nobile del Palazzo Cattaneo Adorno, con l’affresco di Lazzaro Tavarone che raffigura le Gesta del doge Antoniotto Adorno per la liberazione di papa UrbanoVI

A Genova nel Palazzo Cattaneo Adorno la volta a padiglione della sala degli specchi, mostra le gesta del doge Antoniotto Adorno per la liberazione di papa Urbano VI assediato da Carlo III re di Napoli, a Nocera (1385), in particolare, il riquadro centrale raffigura, Antoniotto Adorno doge, che accoglie a Genova Urbano VI, mentre, nei riquadri laterali sono: ad ovest, Antoniotto Adorno invia Clemente Fazio a liberare Urbano VI, a nord, Clemente Fazio conduce Urbano VI a Genova, ad est, Papa Urbano VI accolto a San Giovanni di Prè, infine, a sud, La partenza di papa Urbano VI da Genova.

Il castello di Nocera si ritrovò letteralmente al centro dell’Europa, tra il 1380 e il 1385, in pieno scisma d’Occidente.

Papa Urbano VI viste le gravi difficoltà della finanza pontificia, prosciugate, per far fronte alle guerre, in tutta Europa, contro l’antipapa di Avignone, Clemente VII, pretese che Carlo III re di Napoli gli cedesse feudi e castelli, tra cui quello di Nocera.Il sovrano tentò di opporsi, ma, per tutta risposta, Urbano, famoso per la sua testa dura, pensò bene di trasferirsi proprio nel castello di Nocera, con tutta la sua corte nel giugno del 1384.

A link che segue lo Scisma di Occidente. https://it.wikipedia.org/wiki/Scisma_d%27Occidente

Da lì, scomunicò re e regina di Sicilia e li dichiarò decaduti dal trono; di fronte a questa ennesima provocazione, Carlo III inviò un’intera armata ad assediare il pontefice, capitanata da Alberigo, abate di Montecassino suo nemico giurato. Per evitare un lungo assedio e inutili spargimenti di sangue fra le truppe, il re diffuse un bando ai Nocerini, che prometteva una ricompensa di 10.000 fiorini d’oro, a chiunque gli avesse consegnato il papa, vivo o morto. Con queste premesse il papa vedeva complotti e congiure dietro ogni angolo, ma a buon ragione, infatti mentre era assediato, furono i suoi stessi cardinali, che pensarono di deporlo. Per loro era solo un uomo capriccioso e ostinato, che metteva in pericolo la Chiesa Universale.

I congiurati passarono all’azione: avrebbero attirato il papa nel convento di San Francesco, ai piedi della collina, sulla quale sorgeva il castello di Nocera, qui l’avrebbero processato, dichiarato eretico e condannato al rogo, eseguendo immediatamente la sentenza. Ma il papa fu avvertito del tradimento e i sei cardinali furono arrestati, interrogati (usando anche la tortura) e quindi deposti e giustiziati.

Da tempo la repubblica di Genova voleva inserirsi nello scacchiere italiano e nella difesa del Cristianesimo, e quindi accrescere la sua potenza, sposò così la causa di liberazione di papa Urbano VI inviando una spedizione navale a Nocera Inferiore, dove nel castello si era rifugiato il pontefice. La spedizione composta da dieci galee genovesi, fu posta al comando di Clemente Bartolomeo Fazio da Varaginis che si era gia’ distinto nelle guerra contro la pirateria. Il papa fu liberato, a seguito di una sortita dal castello e riuscì a salire rocambolescamente a bordo.

Il sommo pontefice arrivò a Genova, il 23 settembre, dove fu accolto dal doge Adorno e acclamato dalla popolazione, molto probabilmente, in segno di riconoscenza per aver avuta salva la vita, pagò l’aiuto di Genova consegnando il suo tesoro da cui non si separava mai.

URBANO VI
FA STRANGOLARE OCCULTAMENTE CINQUE CARDINALI IN SAN GIOVANNI DI PRE 1385
 
 

Prima di ritornare sul trono di S.Pietro, alla Commenda di San Giovanni di Pré, fece eliminare i cardinali prigionieri che simpatizzavano per l’antipapa. Alla morte di Carlo III, si pose alla testa delle truppe pontificie, con l’intenzione di conquistare Napoli. Per finanziare le sue guerre, proclamò un nuovo Giubileo, ma morì a Roma prima di dare il via alle celebrazioni, per le ferite riportate a seguito di una caduta dal suo mulo, il 15 ottobre 1389.

Gli succedette Bonifacio IX.

A Clemente Bartolomeo Fazio, gli fu eretto un monumento funebre, con sarcofago lapideo nella cripta di San Francesco di Castelletto a Genova, demolita all’inizio del XIX secolo, dove erano inumati, anche alcuni nobili della famiglia Fieschi e i dogi di Genova Simon Boccanegra e Andrea Spinola

Fu cosi, che dopo una decina d’anni, dal ritorno del papa a Roma, dopo l’intercessione di S.Caterina, un figlio della nostra città, portò in salvo un’altro papa, che ritorno’ sul trono di S.Pietro a Roma.

“O ingrata città che mai celebro’ tal figlio”.

Nie de Figgi e Tantu Freidu

S.Pietro d’Olba

Nel post ho inserito parole dialettali in zeneise, che nulla hanno a che vedere con il Lurbasco.

Figli arrivati come conigli, canta De Gregori, nel suo bellissimo brano Generale.

Un anno, un mese e un giorno, è lo spazio temporale, che passa, tra il primogenito e il secondo arrivato di quella nia de figgi, di una famiglia di contadini negli anni 30, in tutto tre fratelli e tre sorelle, figgiò da tio’ sciu’ da accudire, in quel territorio, denominato il Lurbasco.

Quando la madre fu in pericolo di vita, a seguito di un parto difficile, il primo arrivato ad un anno d’età, fu accudito dalla nonna e dalle sue lalle, le zie, in un’altra casa, distante da quella materna e lì rimase con loro, fino alla maggiore età, quando fu chiamato per il servizio militare

Questa è solo una, delle tante storie, raccontate da chi è nato, negli anni trenta, nel nostro entroterra, molte di queste storie di vita, non sono state tramandate e sono state perse per sempre, altre fra quelle conosciute, sono da ammirare, sopratutto se confrontate con la nostra realtà, quando possiamo permetterci il lusso di sprecar del cibo.

Sono state le grandi famiglie contadine, il vero baluardo di questi insediamenti umani, al limite della sopravvivenza, unite nel prestare aiuto e nel riuscire a mettere in tavola, almeno un piatto ogni giorno, per tutti.

Ricordi di lunghi inverni, da essere ben ingiarmè, ben vestiti, tanta neve da scaricare dal tetto di casa per scongiurare lo sfondamento delle caprià, le capriate.

Il pozzo ghiacciava e allora non restava che la neve, da raccogliere con il bugiò, il secchio e da far scioglier sul fuoco, per bere e per riempire quelle pance sempre vuote e poi tanto freddo, si andava a letto vestiti, avvolti da lenzuola e coperte gelide, non tutti avevano un preve, ovvero uno scaldaletto.

Impossibile lavare e far asciugare a roba da vestì, gli indumenti.

Non c’erano i servizi in casa, i più fortunati, avevano solo un rubinetto nel lavello della cucina, acqua deviata da qualche ruscello che scorreva lì vicino, ma con il gelo non usciva niente dal brunsin, il rubinetto.

I bisogni corporali, in estate e inverno, erano espletati in una baracca in legno, staccata dalla casa, quattro tavole, per un minimo di intimità, ma dentro solo una turca, collocata nei pressi della letamaia era un ambiente ostico, per la presenza di insetti e olezzo nella stagione calda e molto disagevole d’inverno. Comunque in casa, sotto al letto c’era sempre pronto l’oinà, il vaso da notte!

Servivano decine di quintali di legna, ma quella fortunatamente, non mancava ed era l’unica risorsa a cui aggrapparsi, per restare vivi in quelle vallate, c’erano comunque delle scorte alimentari, farina fave e fagioli secchi, le galline per le uova e magari una mucca da mungere e che emanava caldo verso il tavolame del pavimento di casa.

Le strade d’inverno erano tutte impraticabili, solo quelle di fondovalle, erano ripulite tramite un traino animale che trascinava u legnu, una specie di sgombraneve, ma non le strade secondarie, quelle che arrivavano nelle case più sperdute, quelle erano solo utilizzate per grossi carichi e nella bella stagione.

Se le cose da trasportare, non erano eccessivamente pesanti e comunque per ogni altra evenienza, allora si faceva sempre uso degli innumerevoli sentieri ben tracciati dal sovente uso, si scollinava a piedi passando per bricchi e boschi attraversando i corsi d’acqua su instabili passerelle.

Molte abitazioni, avevano la stalla al pianterreno, dove erano ricoverati gli animali, un paio di mucche e la pecora incinta dell’agnello di Pasqua, qui razzolavano e facevano le uova, le galline e se c’era un gallo o galline da brodo, allora doveva ancora arrivare il Santo Natale, c’erano anche i conigli, ma almeno loro sembrava che sapessero perché erano lì, per essere scuoiati, cotti in umido, per fare il sugo e allora si nascondevano dietro alle tavole accatastate nella stalla, e tremavano ogni volta che si apriva la porta e vedevano arrivare un cristiano.

foto tratte dalla pagina Faceebook del Museo del Bosco

Una storia comune ma non tanto (n°3)

di John Ratto

Sulla Cristoforo Colombo, c’erano molte persone, forse più di un migliaio solo nella classe turistica.

Ognuno con la sua storia sulle spalle, c’era chi era felice e chi triste, poi c’era una terza categoria, quelli che pregavano, perché la nave non andasse a fondo.

La traversata fu molto burrascosa, tutti soffrirono il mal di mare, a tal punto che, nell’ora in cui era servito il pranzo di tutti quei passeggeri presenti a bordo, solo tre si presentavano regolarmente in mensa, uno era quel bambino, divenuto adolescente, ma sempre molto affamato, in compagnia di due persone anziane, uno era piemontese e l’altro toscano.

Questi due signori, mi raccontarono che di viaggi via nave, ne facevano almeno due all’anno e il mal di mare non lo soffrivano.

Era consigliato, in caso di mare mosso, mangiare del pane con le acciughe, era il miglior modo per combattere il mal di mare, l’unico rimedio.

Ma anche per quelli fortunati, come il sottoscritto, che non soffrivano le onde quei nove giorni di navigazione, in mezzo al mare, senza nessun riferimento, solo cielo e mare, furono interminabili.

All’arrivo a New York, eravamo stremati, stanchi e affamati.

La nave era arrivata a destinazione e tutti i servizi alla persona, furono sospesi in attesa di sbarcare.

Grande emozione veder la statua della libertà!

Ma fu più complicato del solito, lo sbarco da quella nave italiana, la maggior parte erano nuovi emigranti in terra d’America, che avevano i sogni, la speranza e la curiosità di veder altre cose.

Nell’attesa, restammo venti ore senza mangiare.

E per quel ragazzo sempre molto affamato, fu un dramma, restar per tutto quel tempo a pancia vuota.

Chi ha provato la fame quella vera, sa che il primo sintomo è la debolezza delle gambe.

Per mia fortuna, un uomo che conosceva un po’ di italiano e forse si era accorto del mio dramma personale, educatamente si presentò e chiese se poteva essere di aiuto, mia mamma lo ringraziò e gli disse che io e mia sorella, avevamo un gran fame, ma non conoscendo l’inglese, non sapeva come fare a cercar del cibo.

Allora quell’uomo, chiese se volevamo della minestra e dei crakers, nessuno sapeva che cosa fossero, ma mia mamma rispose affermativamente, c’era però un problema non avevamo valuta statunitense.

L’uomo rispose che non servivano soldi, perché avrebbe offerto lui quel primo misero pranzo in America.

Capii che avrei finalmente mangiato qualcosa e mi scappò un sorriso ringraziando quel gentile signore.

Dopo qualche minuto, quell’uomo ritornò con due bicchieri d’acqua sporca e due pacchetti di crakers, evidentemente presi da una macchina distributrice.

continua

foto dal web

Una storia comune ma non tanto (n°2)

di John Ratto

L’America

Dopo nove giorni di mare e tre giorni di viaggio in treno arrivammo a Oakland in California.

Fu qui che “la storia comune a tanti diventò non comune di tanti”.

Alpicella

Ma per capire questa cosa è necessario fare un passo indietro, ritornare in Italia, in quel paesino sperduto dell’Appenino nel periodo del conflitto mondiale.

La mia famiglia era povera, non avevamo l’acqua in casa, ma eravamo un po’ meno poveri delle altre famiglie, perché per andare al WC non si doveva uscire di casa e questa era una comodità non da poco.

Panorama dell'Alpicella

La maggior parte delle abitazioni, avevano i servizi igienici, distaccati dalla casa, quasi sempre in prossimità del deposito di letame.

Ed era un bel disagio, uscir di casa per andare a fare i propri bisogni, al buio o quando faceva freddo e d’estate poi con l’olezzo e gli insetti .

Squadra di avvistamento aereo

In piena guerra, nelle campagne, arrivarono i soldati italiani e tedeschi, entravano nelle case, in cerca di alloggi dove dormire e con arroganza, ordinavano quello che gli serviva.

Dopo di loro arrivarono i primi sfollati e quelli che la guerra fece affamare.

Nelle città era dura la vita, difficile procurarsi del cibo, anche perché non si trovava più niente dai viveri ai generi di prima necessità.

Le poche cose di uso comune, erano preda della borsa nera, che fece arricchire molti commercianti.

Le tessere annonarie erano praticamente inservibili.

Con gli uomini al fronte, erano le donne, che mandavano avanti la famiglia, donne e vecchi, che erano rimasti a casa e si arrangiavano come meglio potevano, nelle faccende domestiche, nel coltivare i terreni e governare gli animali.

Ad un certo punto, i soldi non valevano più niente e si usava fare lo scambio merci, una sorta di baratto, un po’ d’olio, per un po’ di farina. C’era chi faceva bollire l’acqua di mare, per estrarre il sale.

La necessità aguzza l’ingegno umano.

Per pagar meno la bolletta della luce, si piantavano due spilli nei fili, prima del contatore e si toglieva la valvola contenuta nella scatoletta di ceramica, con aveva all’interno i due fili di piombo, che fondevano se il consumo di corrente era eccessivo.

Ma altre diavolerie erano escogitate, per evitare la confisca da parte dei fascisti, e generi alimentari.

Le damigiane piene d’olio, erano sotterrate nei campi, nelle case si ricavavano dei ripostigli segreti, ad esempio si creavano dei vani, tra un locale e l’altro largo circa 60/70 cm, dove erano nascoste le provviste, grano, castagne e altro.

L’accesso era effettuato dal basso o da sopra, togliendo qualche tavola del pavimento o del soffitto.

Avere un sottotetto o un fienile era molto più pratico per nascondere l’esistenza di botole di accesso a questi ripostigli.

La disposizione classica delle case di campagna, era quanto di meglio poteva offrire l’allora certificazione energetica!

Il calore che emanavano le mucche nella stalla a piano terra e il fieno nel sottotetto garantivano un certo confort abitativo .

Ritorniamo negli States, ad Oakland, arrivammo dopo dodici giorni di viaggio.

Ad aspettarci, alla stazione c’erano tutti i nostri parenti, in terra d’America, molti quelli mai conosciuti.

Riconobbi solo una zia e un cugino che erano già stati in Italia, nel 1949.

Ricordo quei dodici giorni di viaggio, nove di mare e tre di treno, che furono una vera e propria avventura.

continua

foto dal web e Archivio fotografico Varagine

U Tecciu dei Tersè

Ora che la peste suina incombe, nel Parco del Beigua è giocoforza cercare altre mete, peraltro sempre belle, interessanti e ricche di storia, come è tutto l’entroterra della nostra Liguria.

Da tempo con Giorgio, si voleva andare al Teccio dei Tersè e alla Grotta Comando, ai Fo de Beneventu e altro.

Ma allora perchè non chiedere, a Laura Brattel, se può accompagnarci in visita al Teccio dei Tersè, lei che ha realizzato il bel video, con l’intervista a Sergio Verdino, effettuata proprio davanti a quello che fu un primo rifugio di partigiani.

Nel link che segue da vedere assolutamente, il video Il Teccio dei Tersè di Quiliano https://www.youtube.com/watch?v=DrtpaIRggmE

Ed eccoci qua, io Laura e Giorgio a Roviasca, in direzione del Teccio dei Tersè.

E’ una bellissima giornata! Anche se siamo in febbraio, la temperatura è primaverile.

Laura, espertissima di piante, ci illustra, strada facendo il risveglio della natura, la botanica è la sua grande passione e sono molto seguiti, sui social, i suoi quotidiani post, sempre belli e molto interessanti del mondo vegetale.

Ci soffermiamo a vedere il panorama, cangiante ad ogni curva, della Stra’ da Lese e da Cori, mezzi di trasporto che, con il loro andirivieni, hanno consunto nei secoli, il Ciappin de Pria.

Sempre mi soffermo, a guardare questi manufatti in pietra, masceee de fasce, o e prie de na munto’, un mirabile patrimonio, di lavoro fatica e perizia, un dono dei nostri avi, che dovremmo imparare a preservare.

Si chiacchera di molte cose, in particolar modo di storia, con i vari toponimi tutti con la loro ragion d’essere, sono molti i nomi comuni, che si ripetono e caratterizzano le zone del nostro entroterra.

Chiedo a Laura, il nome delle varie località che attraversiamo.

Parallela, alla nostra sinistra, la valle della Trexenda, con al centro un briccu, u Pozu, il Poggio.

Il bosco in inverno, permette di avere un’ampia visibilità e di vedere in lontananza la Ca Vegia e Rocche Gianche.

In località Scarroni, facciamo visita ad un rudere, di cui si è persa la memoria della sua destinazione d’uso.

Questa perdita collettiva, della memoria del territorio, è comune in tutto il nostro entroterra, da quando i nostri vecchi, cessarono di raccontare, di tramandare la loro esperienza di vita e lavorativa, a causa del forte spopolamento delle zone rurali.

Due cinghiali sottopassano un’albero abbattuto.

La ricerca della pietra altare è resa ardua dalle innumerevoli piante che giacciono sradicate, lungo un’acclive pendio.

Una grande frattura rocciosa, forma una vera e propria faglia

Ma va bene, anche vedere a Pria dell’Aato’ tramite le foto che aveva scattato Laura, qualche anno fa, chissà se questa grande ciappa, aveva una qualche funzione rituale o quei cunei in pietra, servivano per trasportarla, un lavoro interrotto, chissà perchè.

Si oltrepassa un ultimo ritano, quellu du Bevin, ed eccoci arrivati al Teccio dei Tersè, il suo nome originale era u Tecciu du Natole, il vero Teccio dei Tersè si trovava ad una altitudine maggiore.

E’ da elogiare il Comune di Quiliano, che acquistò questo essiccatoio per castagne, ricostruito dai partigiani, per farne un simbolo della lotta partigiana.

Qui dopo l’8 settembre del 43, si formò, provenienti da diverse città, un primo nucleo di partigiani, alcuni di loro avevano abbandonato la divisa, per combattere contro il regime fascista, che voleva continuare una guerra persa e insanguino’ l’Italia, con una guerra civile.

Ma il 19 dicembre 1943, un’imponente rastrellamento, portò alla cattura di Francesco Calcagno di 26 anni, che sarà fucilato al forte Madonna degli Angeli, in quella che è chiamata la strage di Natale, del 27 dicembre del 43.

A questo link la storia del Teccio dei Tersè https://www.quilianonline.it/percorsi-che-resistono-categoria/teccio-del-terse-dove-tutto-ebbe-inizio/

Il Teccio, è aperto a tutti, a chi cerca rifugio e lascia i locali puliti e sgombri di rifiuti, una stufa attenua i rigori del freddo, al piano superiore è possibile pernottare.

Annotiamo sul registro i nostri nomi.

E’ il momento, da figassa de Vase, rinfrescata dal vino bianco di Giorgio.

Bella e funzionale, l’area attrezzata, qui ogni anno, il 25 Aprile, è offerta a tutti i convenuti, un’abbondante porzione di pastasciutta tricolore.

Si ritorna indietro quando oramai, l’ora di pranzo è già passata.

Che dire…ringrazio Laura, con il suo bel sorriso e il mio amico Giorgio, insieme a loro il tempo è volato!

E’ stata una bella, lunga chiaccherata, si è parlato un pò di tutto, inevitabile constatare, il ritorno di certe tristi ideologie, che dovrebbero essere bandite per sempre, dal consesso civile della nostra società.

Ma è bello, che esistano, questi simboli forti tangibili e soprattutto fruibili da tutti, come è il Teccio dei Tersè, divenuto grazie alla comunità di Quiliano, un monumento alla libertà.

Grazie Laura e Giorgio.

Una Storia Comune ma non tanto.

di John Ratto

Prefazione di Giuan Marti

Furono le comunità contadine e dell’economia del bosco, che fornirono tante troppe giovani vite, immolate per quella cosa, impropriamente chiamata patria., intere famiglie, travolte dalle conseguenze di una guerra inutile, che portò solo morte e miseria in un territorio fragile come quello del nostro entroterra.

Anche padri di famiglia che lasciarono le loro case, la famiglia, gli affetti, per andare a combattere una guerra contro altri loro consimili, anche loro contadini e boscaioli.

Carne da macello, scampati ai primi anni di guerra ma destinati a sicura morte quando iniziò la campagna di Russia, colti dalla disperazione, alcuni di loro non esitarono ad amputarsi le dita di una mano o farsi estratte tutti i denti, pur di continuare a vivere e veder crescere i loro figli.

Furono tre le ondate migratorie a partire da metà 800 dall’Italia verso l’America del nord e latina.

I parenti e conoscenti, già oltre oceano, nel secondo dopoguerra, potevano garantire lavoro e benessere a chi voleva seguire il loro esempio, abbandonare i paesi natii, per migliorare le condizioni di vita di figli e famiglia,

Giovanni Ratto, ha scritto questa “Storia comune ma non tanto”, che racconta di un ragazzo come tanti, partito, anni fa da un paesino dell’appenino ligure.

E’la storia di un ragazzo, classe 1937 che all’età di 17 anni, il 30 ottobre del 1954, partì da Genova con la sua famiglia a bordo della motonave Cristoforo Colombo e dopo nove giorni di mare e tre giorni di treno, arrivò ad Oakland in California, attraversando quegli insoliti immensi paesaggi, tra grandi cimiteri di carcasse d’auto, mandrie di mucche pianure sconfinate.

A questo link https://quellisciudateiru.wordpress.com/2021/10/24/john-ratto/?fbclid=IwAR34OYKqs0_E-pGh94-6Gwf5vFiXb7iVU4LEHLEPdlb3_kVQJy_t-MRWqkg

è descritta una bella giornata, trascorsa con Giovanni Ratto, sempre cordiale e di buonumore, con i racconti del suo lavoro della sua vita in California, lui come molti altri giovani del nostro entroterra, molti nativi dell’Alpicella, emigrati in cerca di lavoro negli States, ma si è parlato anche dell’attualità delle cose che accadono in Italia e negli Stati Uniti.

Prima di congedarmi, mi ha affidato il suo block notes, dove ha scritto questa storia, per essere digitalizzata e mi ha autorizzato alla sua pubblicazione, da effettuare a puntate sui social.

Una Storia Comune ma non tanto.

di John Ratto

Prima parte.

Panorama di Alpicella

Giovedì 21 ottobre 1937, al fischio della sirena di mezzogiorno, in uno dei paesini più anonimi dell’appenino ligure, nasceva un bambino molto affamato (e questa caratteristica lo accompagnerà per tutta la sua vita!)

Terre di contadini, terre tanto povere, che non si sapeva che cosa erano i rifiuti e gli unici scarti, finivano nel concime.

Alpicella

Terre povere e povera gente, eravamo tutti accomunati in questa condizione sociale e non si sapeva di esserlo.

La vita in quel paesino era molto semplice, la gente si accontentava di niente, ma nel resto del mondo stavano mutando gli scenari.

Il mondo intero cercava di uscire da una grave crisi economica e si stava preparando, inconsapevolmente, ad un’altra grande guerra.

Le tristi conseguenze di quella guerra che divampò negli anni 40, arrivarono anche in quel paesino sperduto dell’Appenino e cambiarono la vita, anche a quel bambino, sempre troppo affamato.

Quel bambino, con l’innocenza della sua età, non poteva rendersi conto del dramma che incombeva, aveva appena due anni, quando suo padre fu richiamato alle armi.

Erano molti i papà, che dovevano lasciare la propria famiglia, i propri affetti, la propria casa, per andare a combattere, una storia comune come tante.

Bombardamento del 13 6 1944

Il conflitto lasciò devastazione e miseria, molti se ne andarono da quella Patria che tanto lutti aveva creato.

Fu così che nel 1946, anche quella famiglia, fece richiesta di emigrazione negli States.

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In quegli, anni in Italia, nel secondo dopoguerra, iniziò la ricostruzione, si ritornò a lavorare la terra, ci fu il boom dell’edilizia e nei numerosi cantieri c’era molta richiesta di mano d’opera, soddisfatta dall’apporto di lavoratori del nostro entroterra.

Quel bambino cresceva, in questo nuovo clima sociale, di speranza per il futuro, ricorda le prime innovazioni tecnologiche e i primi oggetti del consumismo, come la radio, presente in ogni casa e qualche anno dopo i primi grandi televisori.

I parenti, che erano emigrati in America, mandavano dei pacchi, con i prodotti, dalla California e quel ragazzo ricorda ancora, lo strano odore di quegli imballaggi d’oltreoceano.

Il Boschetto

Oramai zuenotto, imparò a ballare e ad avere le prime cotte, come si diceva una volta.

E a quella domanda di emigrazione, nessuno pensava più, chissà che fine aveva fatto e dell’America ci si ricordava solo, all’arrivo dei pacchi.

Aveva preso a frequentare una ragazza, stava bene con lei e insieme facevano progetti per il futuro.

Ma nei primi mesi del 1954, arrivò quella lettera dal consolato degli Stati Uniti, con il nulla osta all’emigrazione.

Fu un fulmine a ciel sereno! Proprio ora che aveva quel giovane amore!

Ma il ricordo della miseria, patita dalla sua famiglia, nel periodo bellico, era ancora viva e in famiglia, mica si chiedeva l’opinione di una moglie e tanto meno di un figlio.

Era la fine di ottobre del 1954 quando quella famiglia, si imbarcò sulla motonave Cristoforo Colombo, per la rotta Genova-New York.

continua

foto dal web e Archivio Fotografico Varagine

I Betlemmiti

Betlemme

I Betlemmiti, fu un ordine militare religioso, istituito nel 1110 che divenne ricco e potente in breve tempo, perché alla sua disponibilità, erano pervenuti molti possedimenti territoriali, benefici ecclesiastici, ospedali, e lasciti di benefattori, tutti finalizzati a finanziare le crociate in Terra Santa, per la liberazione di Gerusalemme dai mussulmani.

Questo ordine religioso era chiamato anche dei Fratelli Stellati, perché indossavano una cappa bianca, su cui spiccava una stella rossa a sette punte e portavano sul petto la croce di Lorena, detta anche doppia croce, quasi in contemporanea sorse un altro ordine militare religioso, quello dei Templari, sempre con abito bianco ma con una croce rossa a otto punte, diversamente da quello Betlemmita.

I Cavalieri Templari, erano nati per proteggere le strade dei pellegrini in Terra Santa, ma varie vicissitudini e una storia troppo lunga da raccontare, portarono alla messa al bando per corruzione di questo ordine cavalleresco, nel 1312.

Nella prima metà del XII secolo, il vescovo di Betlemme, Ansellino, per sfuggire a sicura morte, fuggi dalla Terra Santa e venne a cecar rifugio guarda caso proprio a Varazze, ben accolto e acclamato dalla popolazione.

Varazze era ritenuta una città ricca, la nomea era dovuta alla grande laboriosità dei suoi abitanti, con gli innumerevoli cantieri navali, che riempivano le piazze e tutta la spiaggia di imbarcazioni in costruzione, poi c’erano gli opifici della valle del Teiro, che con la forza idraulica dell’acqua, tagliavano piallavano facevano olio e farina in altri la carta e la pasta.

L’acqua del Teiro, convogliata tramite delle canalizzazioni, serviva anche per i grandi orti e frutteti che erano alle porte della città, in tale contesto di gente onesta ma facile preda delle suggestioni, le offerte per le guerre sante e per la chiesa povera e derelitta, non sarebbero mai mancate, fu cosi che con bolla papale, Varazze fu scelta come sede vescovile della congregazione di Betlemme.

E con atto notarile del 27 gennaio del 1139 Aldizio vescovo di Savona, donava ad Ansellino la chiesa di S.Ambrogio, con i tutti i proventi, derivanti da terreni, proprietà immobiliari , lasciti e offerte.

Non sono molte le testimonianze della permanenza dei Betlemmiti nella nostra città, l’antico oratorio a ridosso delle antiche mura fu la loro prima sede, dove fu trovata una fonte battesimale e una croce di Lorena.

Nel 1924 durante gli scavi per fortificare gli argini del Teiro, all’altezza di via Malocello, nei pressi della linea ferroviaria, all’interno di un cunicolo, che dal greto del fiume portava all’interno delle mura, fu trovata, da un operaio, una croce di Lorena in bronzo.

Altri reperti appartenuti a questo ordine religioso furono scoperti nel 1931, durante degli scavi, presso la seconda chiesa di S.Ambrogio, una mitra, dei bottoni, con lo stemma dei Betlemmiani, poi ancora una piastra in bronzo con incisioni e altri oggetti tra cui un sedia vescovile, ma di tutti questi reperti esistono le testimonianze scritte, ma di fatto se ne sono perse le tracce.

Fu una benemerita iniziativa dei Betlemmiani, quella di creare un hospitia, il primo ospedale della nostra città, in un edificio che ha dato poi il nome al vico dello Spedale, la zona è quella di Calabraghe.

Un’antica costruzione, presente ancora oggi nel centro storico, fu la sede vescovile, durante la permanenza dei fratelli stellati in Varaginis

Questo edificio é contrassegnato con il civico n°3 di via S.Ambrogio.

In origine, questo palazzo era costituito da due piani, dotato di un ampio portico, poi ridotto per ricavarne due locali, in uno di questi oggi c’è la pescheria U Galina.

Dall’esterno si può ammirare l’ampia scalinata in ardesia, con colonne e balaustre in marmo, da testimonianze di inizio del novecento, sull’architrave del portone esisteva scolpita, nell’ardesia una stella a sette punte, oggi non più visibile a causa del degrado o di una deprecabile cancellazione.

Il palazzo fu venduto all’asta a metà dell’800.

Molte testimonianze della presenza dei Betlemmiani, furono occultate e poi quando per caso ritrovate, durante degli scavi o in un ripostiglio, nuovamente svanite nel nulla, ci furono anche diverse cancellazioni dei loro simboli incisi su pietre o su oggetti di culto, queste avvisaglie fanno intuire che la dipartita di questo ordine religioso dalla nostra città non fu indolore.

Infatti, ad un certo punto, venuta meno la necessità di fare cassa, per le crociate, sorsero delle controversie fra i Betlemmiti e i vescovi savonesi, dovute a dispute patrimoniali e giurisdizionali, su chi doveva essere titolare della diocesi di Varagine ma soprattutto dei proventi che i fedeli garantivano a chi aveva cura delle loro anime.

All’inizio delle dispute per buona pace ci furono molti compromessi, ma che poi portarono ad una sentenza, emessa nel 1424, di estromissione dei Betlemmiani, dalla nostra città.

I Fratelli Stellati si trasferirono in Francia, dove godevano ancora di ampi benefici, ma visto il buco storico negli archivi, privo di documenti, che coincide con gli anni di permanenza dei Betlemmiani nella nostra città, è molto probabile che per nascondere l’entità degli introiti, le malefatte o chissà che cosa nella loro gestione della diocesi, portarono via con loro, molto materiale di archivio.

Quando ci fu lo scisma d’Oriente (1378-1449) con l’avvento dei due papi con le sedi a Roma e Avignone l’ordine Betlemmiano si assogettò al papa di Francia.

L’Equa di Gaggin

Giovanni Gaggino, aveva donato nella sua eredità, questa sorgente e una cospicua somma di denaro al Comune di Varazze, perché l’acqua, già famosa per essere ottima, all’approvvigionamento idrico delle navi, fosse utilizzata per il suo sogno, essere ricordato non solo per le sue fortunate imprese in Oriente, ma anche per le Terme di Varazze.

Oggi se le sue volontà fossero state rispettate, la nostra città avrebbe una bella risorsa, con le virtù delle sue acque e con una bella storia di una comunità rispettosa della memoria di un suo grande concittadino.

Ma le cose sono andate in altro modo, il Comune a seguito dell’impugnazione del testamento da parte dei parenti, rinunciò all’eredità del Gaggino, in cambio di un rimborso in denaro, la restante parte, fu dispersa fra i suoi parenti, e le Terme di Varazze furono consegnate all’oblio.

L’acqua dei Gaggini, a seguito di una truffa, non fu più richiesta come riserva d’acqua potabile, per le traversate atlantiche, perché fu sostituita, in una fornitura, per questioni di praticità, da quella di una sorgente, che sgorga nei pressi della località Frati, lungo il Teiro.

Il consumo di quest’acqua, risultò essere indigesta, provocando fenomeni di dissenteria a bordo della nave dove era stata stoccata.

Eredità Gaggino

Gli eredi fecero causa al Comune. Si arrivò ad un compromesso, il comune rinunciò all’eredità in cambio di un fondo Gaggino in favore dell’ospedale( oggi svenduto per profitti privati).

Il fratello Paolo nel suo testamento lasciò la chiesetta dei Gaggini agli abitanti di Campomarzo. cit. Mario Damele

l’Equa di Gagin

Fino all’età di 15 anni, l’ho bevuta, non diciamo tutti i giorni, ma quasi.

Non solo io, ma si può dire che tutto Campomarzo ( così si chiamava allora) la beveva, specialmente in estate.

Poi sono arrivati i soliti maleducati e il mio parente, fu costretto a chiudere la porta.

Dico mio parente, perché mio zio ne era il proprietario, che penso l’avesse acquistata dai Gaggini, quando ritornò dall’America 1929/1930?

Come terreno penso che fosse il più produttivo di Campomarzo, proprio perché c’era l’acqua per l’irrigazione, con una vasca di 32.000 litri di stoccaggio.

I poderi erano 2 ognuno con la sua casa, una un po più di lusso dove mio zio abitava e nell’altra abitavano noi come mezzadri.

Ogni tanto mi vengono in mente i sapori di tutta quella frutta e verdura che purtroppo al giorno d’oggi è difficile trovare.

C’era un mio compaesano con me a San Francisco che mi diceva sempre, “mangiavano bene senza saperlo”. cit. Giovanni Ratto

Nella foto la fonte che ora alimenta l’acquedotto cittadino.

E Giescie de Sant’Ambrosciu

Prima dell’attuale chiesa, consacrata nel 1565, furono altre tre, le chiese dedicate a S.Ambrogio, le prime due erano sulla collina di Tasca, entrambe oggi incorporate nella cerchia delle vecchie mura.

La prima chiesa, fu edificata intorno all’anno mille, nel punto più alto, dominante, il centro urbano di Varagine e la bassa valle Teiro.

Non a caso fu scelto questo sito, perché secondo i dettami cristiani, un edificio dove è celebrata la gloria di Dio, deve essere: visibile da lontano, superiore in dimensioni a qualsiasi altra dimora realizzata dall’uomo, per incutere il timore con la grandezza del Creatore e a corollario di queste convinzioni, le chiese devono, dove possibile, essere edificate nel mezzo del creato e quale miglior posto poteva esserci, di questa collina, sopraelevata dal borgo, ai confini dei boschi che con i lecci centenari scendevano da Cantalupo e con il fiume, che ne lambiva la base?

Questo edificio preesisteva prima della costruzione della cinta muraria e lo si evince, se si osservano i dettami costruttivi e i materiali impiegati, ben riconoscibili nella torre campanaria e nel muro laterale, che guarda la salita dei frati.

La parete laterale, della prima chiesa, aveva tre campate ad arco e una finestra ad arco tondo in mattoni, in alto è visibile una cornice intagliata e degli archetti in cotto.

Da studi effettuati questa chiesa misurava una ventina di metri, era ad una navata, con il tetto in legno, l’abside aveva l’orientamento verso est ed era affiancata dalla torre campanaria, in stile romanico genovese, dalle proporzioni armoniose, a due piani, in pietre e tufo, aveva quattro lesene per ogni piano, oggi chiuse da muri in pietra, contornate da archetti in cotto, con cornice, la torre terminava con una cella campanaria

E’ probabile l’ipotesi, a seguito degli scavi qui effettuati nel 1951, che questa prima chiesa dedicata al culto di S.Ambrogio, sia stata edificata, sopra una piccola cappella, esistente dal V secolo, forse questa era la quinta chiesa?

Gli sbancamenti dei cumuli di terra, addossati alle mura effettuati nel 1951, portarono alla luce molti reperti archeologici, all’interno della cinta muraria, tra cui una fonte battesimale in marmo e degli affreschi che raffigurano un vecchio pescatore, forse l’immagine di S.Pietro.

La seconda chiesa, sulla collina di Tasca, fu costruita nel XII secolo, era la Ecclesia Sancti Ambrosii, la chiesa della Varagine medievale, dove furono rogati molti atti che riguardano l’inizio delle autonomie comunali.

Questo edificio di culto era a tre navate, la sua facciata originale è quella che si vede oggi, inglobata, nel muro merlato a occidente della cinta muraria è la prosecuzione di circa otto metri della prima chiesa.

Ventitrè pregevoli piattelli in ceramica, dipinta con vivaci colori, di fattura ispano moresca adornavano questa chiesa, trafugati o dispersi negli anni, della loro presenza sono rimasti gli incavi sui muri.

La porta principale, murata, aveva come architrave un pregevole monolito in pietra di tre metri di lunghezza, distrutto per un errato intervento di consolidamento e sostituito con l’attuale trave in cemento armato.

Una croce a traforo simboleggia la religione cristiana.

Le mura laterali innalzate sopra i resti della prima chiesa, avevano una finestra ad arco e lesene contornate di mattoni.

Anche il campanile fu sopraelevato sulla preesistente torre campanaria.

Nella parte di levante quella interna alla cinta muraria, oggi inaccessibile, perché insistente su di una proprietà parrocchiale, esiste una singolare costruzione a due piani con colonne e capitelli, forse un oratorio o la sacrestia della seconda chiesa, nei pressi di questo edificio gli scavi, portarono alla luce una croce pettorale di Lorena in bronzo con incise le figure di Cristo e della Vergine, questo reperto testimonia secondo gli studiosi, la presenza dei vescovi betlemiani a Varazze.

Un paio di considerazioni storiche, sono relative all’unicità di questo nostro monumento, con una cerchia di mura merlate edificate sopra le sembianze di edificio sacro, era forse questo uno stratagemma, per rendere la nostra acropoli inviolabile ai nemici di fede cristiana?

Sarebbe stato scomunicato colui che ne avrebbe varcato la soglia, per portare la guerra nella nostra città?

L’altro quesito è antecedente perché questo pregevole edificio di culto sia stato abbandonato ?

Erano notevoli i segni del travagliato passato della cinta muraria presenti, prima dei lavori di consolidamento dei muri di cinta, oggi quasi del tutto scomparsi.

Segni di violenti corpi di ariete e tentativi di aprire delle brecce nei muri.

Il Castrum Varaginis fu conquistato da Guifredotto Grassello di Genova nel 1203 e poi ancora saccheggiato nel 1227 dal facinoroso Simone di Stella e sottoposto a pesanti danneggiamenti, nel 1239 quando i savonesi assediarono queste mura dove si erano rifugiati i genovesi.

Ma nessun documento parla della sorte di queste due prime chiese di S.Ambrogio un ipotesi è quella che la chiesa sconsacrata e resa pericolante perché invasa da degli scomunicati fu ricostruita al centro del borgo.

Questo è oggi la testimonianza storica più pregevole presente nella nostra città, è un’interessante assieme di storia inglobata, tamponata nella cinta muraria e osservandone la struttura le pietre, i mattoni, le lesene, archi, cornici ecc. si possono vedere le trasformazioni che ho elencato in questo mio post, che non vuole essere esaustivo, ma di stimolo a cercare in questo nostro monumento i segni delle vicissitudini e dell’importanza che ebbe per secoli questo luogo di culto sulla collina di Tasca.

Deludono quelle porte murate e l’impossibilita di un libero acceso all’area interna ” l’orto du parrucu”, perché di proprietà privata del clero.

La cinta muraria non risulta essere pericolante, perché allora è vietata la fruizione pubblica del più importante monumento storico della nostra città?