St’anno per u Recagnin sun 66 anni che u tagge i cavelli!
Complimenti per questo suo prestigioso traguardo dopo una lunghissima attività iniziata nell’ottobre del 1958
Da festeggiare quest’anno anche i 90 anni della bottega da barbiere in p.zza Dante
– Puè possù andò?-
– Te fetu quellu che to ditu?-
– Sci ho spassò pe tera, passu u baccu da lavò e inverso’ a cunca in ta chintan-a –
– Va ben, alua vanni, ma mia de nu arrivò a ca cun e senugge spellè, cun stu belin de balun!-
– Nu puè ghe staggu attentu. Ciau-
Questo poteva essere il dialogo fra Antonio Recagno classe 1906 e il figlio Bartolomeo classe 1946 a 12 anni già a far bottega nel negozio da barbiere.
Ma il lavoro giovanile era cosa normale alle giovinette nel cotonificio mettevano uno sgabello sotto ai piedi per arrivare ai telai.
Mentre i giovani facevano lo stesso lavoro degli adulti.
Negli anni 60 nella nostra città erano in piena attività le industrie e gli opifici sciu da Teiru: Cartee, Muin e Frantoi.
La città contava 15.000, abitanti ma erano molti i lavoratori, donne e uomini che raggiungevano dai comuni confinanti Varazze.
Ho dumandò au Recagnin quanti barbè g’hean a Vase quarche annu fa.
U Recagnin, Salvatore, Cazzola, Infanti, Calabria, Nicola, Nino, Arduino, Buono, Triestino, Valledoria, I Fratelli, Gaetano, Ettore, Cerruti, Domenico, Ferrando e l’Orologiaio.
Poi sciu da Teiru c’erano i barbieri della domenica, Carletto in Bosin e Barile in tu Pasciu, entrambi lavoravano nei Cantieri Baglietto e tagliavano i capelli nel giorno di riposo settimanale o dopo le 18.30
Il negozio da barbiere aveva di solito due sedie e c’era sempre una sedia con la testa di cavallo per i bambini.
Ma Varazze negli anni 60/70 era anche meta di personaggi dello spettacolo e dello sport, bella gente che si facevano fare un ritocco alle loro capigliature perima delle loro esibizioni canore al Margherita o in uno dei tanti locali da ballo o da intrattenimento della città.
Recagnin ricorda i complesso musicale i Campioni clienti della bottega, con Lucio Battisti ancora in versione pre beat.
Un altro cliente famoso fu Pierino Prati che allora giocava nel Savona freguentava Varazze attirato dalle attrattive che offriva la città.
Dal 1990 u Recagnin è coadiuvato dal figlio Maurizio
Fine estate, tempo di bilanci per i viperai, i Ciappabisce.
Questa attività oggi scomparsa, di solito iniziava ai primi di agosto, c’era chi riusciva a catturare anche 200 vipere!
La vipera è stato l’animale piu perseguitato e sterminato con un’accanimento assiduo, feroce e morboso.
Catturata per essere sfruttata e manipolata in innumerevoli ricette intrugli pozioni e antidoti per profitto o per potere.
Poche le voci degli animalisti in difesa di questo rettile.
A Vipera l’Aspesurdu u Marassu e Oscelee, Rattee, sono sempre presenti nei racconti delle persone anziane del nostro entroterra.
Impossibile fare una conta delle storie leggende e dicerie che hanno come protagonista la vipera.
Le prime comunità umane, presenti nel nostro nord ovest, avevano una cultura antropocentrica, che demonizzava serpenti e vipere.
Il serpente era abbinato ad alcune divinità femminili mediterranee, i capelli lunghi delle donne, se sotterrati in una notte di plenilunio si trasformavano in serpenti.
Si dice che alcuni capelli, di una donna con le mestruazioni, se messi nell’acqua si agitano come serpentelli.
Chi mangiava carne di vipera acquisiva nuova forza.
Quella di serpente invece, era consumata per conoscere il potere del linguaggio dei fiori e delle erbe.
La Teriaga è stato il piu famoso e antichissimo intruglio, di ben 54 ingredienti compresa la vipera, che secondo chi lo produceva, era capace di combattere i veleni prodotti dal corpo umano e alleviare mal di testa, di stomaco e i disturbi della vista e dell’udito.
Era venduto ancora nel XX secolo
Le vipere erano utilizzate nelle Ordalie, un’ antica pratica giuridica dei popoli nordici, per stabilire innocenza o colpevolezza.
Per attestare la sua innocenza l’accusato, doveva superare delle prove come quella di camminare sui carboni accesi, stringere un ferro arroventato, immergersi nell’acqua bollente o bere il veleno di una vipera.
La chiesa non ostacolava queste pratiche, che erano equiparate al giudizio di Dio
Nei nostri boschi, facevano tana, esseri maligni, diavoli con le sembianze di rettili con la cresta.
Erano i basilischi
Durante le veglie, gli anziani tramandavano gli incontri che avevano fatto gli avi, con questi rettili di grandi dimensioni, muniti di creste sul capo e si diceva che erano a guardia di pietre preziose
Se la vipera faceva paura per il suo veleno, i serpenti erano temuti, perché si diceva che succhiavano il latte dal seno delle donne e da quello degli ovini.
Per tenere lontano da tende o recinti le vipere, si utilizzava la cipolla tagliata a fette.
Fino a qualche decennio, fa i contadini integravano la loro magra economia, con la cattura, ma anche l’allevamento delle vipere.
Da inviare alle industrie farmaceutiche, per produrre il siero antivipera.
I viperai scrutavano il tempo, se il cielo era coperto e incombeva un temporale, quelle erano le condizioni migliori per fare una buona caccia di serpenti e vipere.
I rettili erano come rallentati nelle loro movenze, in attesa dell’acquazzone e a detta di alcuni, si potevano prendere come si fa con le lumache.
I Ciappabisce, partivano all’inizio di agosto, con un sacco e delle pinze di legno.
La vipera la si trovava sempre, oltre gli 800 metri di altitudine.
Al ritorno della caccia, i rettili erano conservati nei cassoni oppure nelle damigiane.
Il grande Galeno diede il suo consenso all’uso di un farmaco a base di vipera.
A Roma erano i Gesuiti che detenevano le ricette segrete e che preparavano, per i più svariati usi, lozioni pozioni e medicine con il principio attivo delle vipere.
La fortuna commerciale di intrugli e pozioni miracolose, arricchì farmacisti e venditori ambulanti, imbonitori e imbroglioni, che nelle piazze dei paesi esaltavano le prodigiose proprietà dei loro preparati.
In qualche località del Bel Paese molto probabilmente ancora oggi, ci sarà qualche megera, che preparerà su commissione qualche pozione “magica”
Polvere di carne di vipera, cuore, fegato e il grasso, erano usate per le ferite e le contusioni.
Contro l’invecchiamento della pelle e per migliorare l’incarnato.
Creme ancora oggi in commercio con la denominazione, siero viso antirughe
Prima dell’antitodo, si usavano sistemi empirici e riti magici, contro il veleno della vipera.
Scorza di frassino messa in ammollo con la luna piena.
Un’altro rimedio era quello di interrare il piede della persona morsicata dalla vipera, per scaricare il veleno.
Nell’entroterra di Voltri si conserva memoria di un osso, che come una spugna, estraeva il veleno dalla ferita.
Anche i serpenti erano usati come le vipere, nelle ricette della farmacopea popolare.
Ungersi con l’olio di frittura di serpentelli, favoriva la crescita dei capelli.
Contro il mal di testa una bella pelle di biscia in testa!
Grande uso di vipere e serpenti in stregoneria, una ricetta per un unguento malefico era la seguente
n°1 gatto scorticato
n°1 rospo
n°1 lucertola
n°1 vipera
Messi a cuocere fino a carbonizzare e diventare cenere.
Era usato per avvelenare i raccolti di frumento e di frutta
Quando mi capita, di visitare uno dei bei paesi del nostro entroterra,come Apricale, mi soffermo presso le targhe in marmo, dove sono incisi i nomi dei caduti a seguito delle Guerre Mondiali.
Leggo i nomi e la loro eta’
Monumenti e lapidi presenti in tutte le piazze di questi paesi.
Tragiche conseguenze delle esaltazioni patriottiche.
Paesi di quattro case, spesso disabitate, immerse nella quiete e nel silenzio, lontano dal frastuono delle “città costiere dei consumi e del divertimento”
Il ricordo con su inciso il nome di chi fu travolto dalla follia delle guerre, visibile in una pubblica piazza, ha un grande senso di appartenenza a queste comunità fatta di gente semplice, bestie da lavoro… poveri cristi.
È stato numericamente troppo alto il contributo di giovani vite prelevate da queste vallate.
Sacrificate a un falso ideale di Patria, nelle guerre che hanno devastato l’Europa e l’Africa.
Giovani, contadini, boscaioli, ricercati perché di buon comando, spesso analfabeti e già avvezzi a far vita grama.
Carne da macello per un re vigliacco e per un pazzo dittatore.
Molte famiglie non hanno neanche una tomba dove portare due fiori
Solo un nome inciso o di metallo, sopra una lastra di marmo o un monumento ai caduti.
La lapide è nella piazza di Apricale, scopro inciso nel marmo lo stesso mio cognome.
Soldati dispersi in Russia.
Penso chi erano questi giovani, prelevati da queste colline vestiti in tutta fretta con una divisa e inviati con dei vagoni merci, a morire nell’inverno russo.
Perché un regime di morte aveva bisogno di questi disperati solo per avere un po’ di morti e bearsi dell’Italico valor con l’amico tedesco.
Li hanno chiamati eroi, ma volevano solo vivere e poter un giorno ritornare alle loro famiglie
Un prete aveva dato la sua benedizione, esaltato l’arruolamento per andare a combattere una guerra di aggressione.
La banda suonato alla stazione dove la tradotta partiva.
Penso alla nostra città che non ha commemorato i nostri concittadini caduti nelle Guerre Mondiali, in una piazza pubblica.
Perché?
I nomi dei 105 caduti della prima guerra mondiale sono incisi in un monumento nel cimitero urbano.
Ma nessuna lapide con i nomi dei 75 caduti, ricorda chi fu mandato a morire nella Seconda Guerra Mondiale.
Forse perché avevano perso la guerra?
Si disse con italico fatalismo, che mancò la fortuna.
Nessun monumento targa o lapide è stata messa per chi non tornò più dai suoi cari.
Servirebbe ricordare che non fu la Patria a mandarli a morire in una inutile sanguinosa, guerra d’aggressione.
Che non furono eroi, ma solo poveri cristi che volevano salvare le loro vite.
Il piu incredibile e tenace essere vivente, del massiccio del Monte Beigua, si trova presso l’area attrezzata dell’Avze’.
Una betulla che si era spezzata molti anni fa ha fatto crescere un pollone che ha raggiunto l’altezza di almeno 6/7 metri.
Il suo tronco abbattuto con un’ampia curva è riuscito a ergersi ancora, per almeno dieci metri.
Al cospetto di questo incredibile adattamento viene da pensare ad una qualche forma di intelligenza vegetale superiore.
Molti anni fa invece anche queste strane forme di sopravvivenza erano attribuite ad antiche credenze
La Betulla tra leggenda e realtà tratto da “Piemonte Parchi l’Albero della Luce”
Secondo le popolazioni dell’Europa neolitica, un rapporto profondo legava la pianta alla Grande Madre. Questa associazione marcata della pianta con la luna e con la Dea, cioè col mondo femminile, spiega perché essa era collegata a luoghi arcani e misteriosi che i Celti chiamavo Sidhe, i cui messaggeri erano non a caso creature fatate e femminili.
Dalla linfa essi ricavavano anche una bevanda da ingerire in primavera, che si riteneva capace di rendere fertili le donne.
Per questa era considerata anche una pianta dell’amore; giacigli fatti con rami di giunco e di betulla erano tra i preferiti dagli amanti in numerose leggende celtiche e come pegno d’amore spesso veniva donata una ghirlanda di betulla.
Piantata vicino alla casa di una fanciulla le garantiva la felicità e un ottimo matrimonio.
Albero preposto al mese che cominciava col solstizio d’inverno, era anche associato alla festa di Imbolc, una delle principali del mondo celtico, corrispondente al nostro primo febbraio, vigilia della Candelora, festa di purificazione e rinascita che prelude alla primavera.
Numerose credenze popolari poi, avvolgono la betulla di un alone di mistero: ad esempio si riteneva che coi suoi rami le streghe costruissero scope volanti, mentre per la grande luminosità della sua fiamma il legno si usava per scopi rituali.
In Italia, per curare il rachitismo infantile, si raccoglievano nella notte di San Giovanni alcune foglie di betulla, si facevano seccare nel forno e si infilavano ancora calde nel letto del bambino.
Il simbolismo purificatorio si ritrovava un po’ ovunque. Nell’antica Roma i fasci intorno all’ascia che reggevano i littori davanti ai magistrati erano composti da rami di betulla.
Questi rappresentavano le punizioni che potevano essere inflitte ai colpevoli ed avevano anche la funzione di purificare l’aria dinanzi ai magistrati.
Anche nel Medioevo era considerato un albero di luce, simbolo di saggezza e di purificazione, tanto che lo scettro dei maestri di scuola era composto da rami di betulla intrecciati e in tutta Europa furono usati anche per calmare gli esagitati e frustare i delinquenti e gli alienati, allo scopo generale di scacciare gli “spiriti cattivi”.
In uso esterno il decotto delle foglie o della corteccia è indicato come disinfettante e in caso di malattie della pelle.
Un tempo la corteccia veniva usata per l’estrazione del tannino, per scrivere, per fabbricare imbarcazioni e calzature, per rendere impermeabili le case, ma anche per abbassare le febbri e combattere l’influenza.
Il carbone della stessa era persino utilizzato come antidoto nei casi di avvelenamento da parte di alcune specie fungine, come l’Amanita muscaria.
Notissimo l’uso della sua linfa, detta ‘acqua o sangue di betulla’, dalle ottime proprietà depurative e diuretiche, favorisce l’eliminazione dell’urea e dell’acido urico senza irritare i reni.
Essa viene raccolta in primavera mediante incisioni sul fusto e bevuta al mattino a digiuno.
A livello popolare si riteneva ammorbidisse i legamenti, agevolando la guarigione dell’artrosi.
Secondo la visione sciamanica tali proprietà sono giustificabili in diverso modo: l’incontro interiore con un simile alleato del mondo vegetale aiuterebbe a ripristinare il collegamento tra la dimensione terrena e quella spirituale, eliminando gli ostacoli a tale ascesa come le emozioni non ancora elaborate, trattenute nell’organismo sotto forma di liquidi in eccesso.
Interpretazione questa, che permette di comprendere in un’accezione più ampia il titolo di “portatrice di Luce” di questa bella signora della foreste.
C’era una notte stellata, lunedì 15 luglio 2024, cupola di cobalto e di oro che sovrastava l’antica oasi di pace dell’Oratorio di Nostra Signora Assunta, a Varazze.
E c’era Giuan Marti con le storie che di tempo in tempo carpisce da Francesco Baggetti, un amico curioso che ascolta chi ha qualcosa da dire o di raccontare e che lui riporta come racconti che sanno di fiaba, ma che, assicura, sono vestite di verità. Giuan introduceva le trame di ogni storia, che la calda voce di Antonella Ratto dispiegava sull’attento e numeroso uditorio, alla brezza di
un venticello che smorzava la calura soffocante della giornata.
E c’era la stupenda chitarra di Fulvio Semenza, che accompagnava ogni racconto, sottolineando, con professionale tempismo, ogni necessaria pausa, creatrice di attimi di sentita emozione, mentre sullo schermo
apparivano immagini che esplicavano garbatamente l’effluvio delle parole.
“Le storie mai scritte di Francesco Baggetti” sono diventate ormai un classico della narrazione a viva voce, all’uso dei menestrelli nelle corti dei nobili del ‘400, quando leggende e imprese d’eroi venivano raccontate al suon della mandola.
L’atmosfera è la stessa in questi incontri con Marti e Antonella, anche se la tecnologia è un’altra, con proiettori e voce microfonata, ma la sostanza però resta, è intatta, non fa una grinza e porta l’ascoltatore in attuali situazioni di fatti vissuti:
C’è l’amore contrastato dalla follia della guerra, Dante Alighieri di passaggio a Varagine, la pensione “accogliente” per soldati di ogni esercito in cerca di un pò di amore a poco prezzo, sotto l’occhio indulgente e quasi materno dell’infiorata Rosetta e l’amore perduto in due occhi magici e
conturbanti.
La Varazze e la Liguria di ieri ci sono per intero, con i “ciaeti” dei benpensanti e le lacrime di cuori spezzati nella melanconia del volo di una farfalla.
Una serata di forte impatto sentimentale, siglata da sinceri applausi, un ritorno a quel passato di veglie nelle stalle d’inverno o nella casa del vicino, dove non c’erano la radio e la televisione, ma tanta bella e semplice
umanità che aveva il gusto della socialità in un mondo ormai scomparso. che Marti e Antonella fanno rivivere con indubbia capacità espressiva.
Complimenti vivissimi per questa nuova performance, che continuerà in altri luoghi dell’hinterland varazzino e oltre.
E un bravò al chitarrista Fulvio Semenza, artista scultore del legno e scrittore di cose
nostre, per la sua splendida musica. Intanto Francesco Baggetti, non visto, continua il suo lavoro di raccoglitore di storie.
Chi sarà mai?
E se raccontasse anche qualche nostro imbarazzante segreto?
Complimenti alla solerte Priore
Marianina per l’ospitalità a questo e altri eventi culturali (prossimamente quello del Campanin Russu).
Televarazze – Presidente Piero Spotorno e Cameraman Giuseppe Bruzzone, ha ripreso l’intera serata, che
Una sera di mezza estate alla Crocetta di Cantalupo
Antonella, Fulvio ed io ringraziamo Mario Traversi, per il suo bell’articolo, pubblicato su Ponente Varazzino.
Grazie!
Da Ponente Varazzino del 15 agosto 2024
I Racconti sotto la Luna
Nuovo, meritato successo dei fortunati “Racconti sotto la luna“, questa originale serie di incontri in “en plein air“, che con la fertile penna di Giuan Marti, la suadente voce di Antonella Ratto e l’accompagnamento del chitarrista Fulvio Semenza, stanno caratterizzando l’estate varazzina, portando nei luoghi più disparati, ma scelti per proporre le ormai famose rimembranze di Francesco Baggetti, a un nuovo tipo di pubblico che si aggancia alla semplicità di un sereno ascolto, senza particolari complicazioni tecnologiche, e dove la voce recita la parte principale, rimandando ai fascino della tipica “Commedia dell’Arte“.
Dopo un seguito “tour” cittadino, lunedì 12 agosto 2024, è stata la volta di Cantalupo, dove le storie, veramente sotto una splendida luna sono state raccontate davanti alla Crocetta, scenario quanto mai suggestivo sul panorama mozzafiato che abbracciava le due riviere.
Molti gli ascoltatori, accorsi a sentire, oltre ai racconti di Baggetti, nuove, vere storie, alcune delle quali riportate da abitanti del luogo, come “U Russu“, inerenti la seconda guerra mondiale, quando i tedeschi abbatterono la piccola edicola della Crocetta, poiché probabile punto di riferimento per la rotta degli aerei alleati verso il nord Italia.
La Crocetta fu edificata all’inizio del ‘900, allorché il papa Leone XIII, per contrastare la bandiera nazionale che svettava su molte cime d’Italia, invitò i fedeli a ricordare il Redentore sulle proprie alture. Abbattuta dai tedeschi, ma comunque ricostruita dai fedeli cantalupesi nel dopoguerra.
Altre storie vissute nel tempo di guerra, hanno interessato piccoli, ma importanti personaggi del luogo, come Giacomo, che perdette un occhio inciampando e autolesionandosi con un temperino, che teneva in mano, soccorso dagli stessi tedeschi della postazione, fu portato a Savona con un’auto militare.
Un cocktail di racconti, quelli di Baggetti, alcuni dei quali già presentati ad altro pubblico e, quindi, sempre inediti nelle tournée di Marti e di Antonella, che la chitarra del M° Fulvio Semenza, ha reso ancor più accattivanti, con opportuni alti e bassi, con brevi pause di suspense.
All’inizio dell’evento, Giuan Marti ha ringraziato l’Associazione S.G. Battista e la Confraternita di Cantalupo, per l’ospitalità in un magico angolo dell’immediato retroterra di Varazze, dove altre storie del passato meriterebbero di essere rese note con la dovuta attenzione, come la trincea rimessa recentemente alla completa luce dal Gruppo Alpini di Varazze e, quindi, visitabile.
Baggetti racconta e racconterà ancora, non può farne a meno perché la sua memoria è piena di ricordi, che meritano di essere portati alla conoscenza di chi “allora non c’era“, parole sussurrate e declamate con la padronanza dei caldi toni della voce di Antonella Ratto, in coppia ormai da cartellone con Giuan Marti.
E adesso cosa tirerà fuori Francesco Baggetti dal cappello a cilindro? Forse strane leggende, misteri celati nel bosco della Madonna della Guardia o in anfratti della pineta di Invrea, o sul monte Greppino? La sua memoria non ha confini.
A presto dunque.
Al termine della bella e interessante serata, le Associazioni ospitanti hanno offerto un gradito rinfresco.
Antonella Fulvio e io ringraziamo Mario Traversi, per l’articolo pubblicato su Ponente Varazzino, una bella testimonianza, per quella che è stata, a detta di molti, la novità culturale dell’estate. Grazie Mario!
Grazie per aver colto lo spirito della serata.
Noi vogliamo regalare emozioni e se ci siamo riusciti, come lui ha scritto, se qualche cuore ha palpitato, il nostro scopo è stato raggiunto.
Ancora grazie per aver avuto questa sensibilità.
Da Ponente Vazzino del 29 agosto.
Testo di Mario Traversi
Un folto pubblico per “Racconti in Riva al Mare”
Nemmeno la burrasca, che si stava addensando, con sinistri lampi e tuoni, ha fermato la voglia di raccontare, Francesco Baggetti le sue e altre storie del quel piccolo e colorito mondo che sono il sale della vita del territorio varazzino.
Questa volta Baggetti è sceso dalla campagna per approdare sulla spiaggia del molo di sottoflutto del porticciolo Marina di Varazze, gradito ospite dell’Associazione Pesca Sportiva Dilettantistica Varazze (APSDV), dove, nella serata di martedì 27 agosto 2024, in uno scenario degno del set di un film, con il mare a lambire i numerosissimi fans accorsi per ascoltare nuove storie arrivate fresche, molti dei quali abbarbicati sugli scogli che difendono l’arenile, cornice della “beach feast” dal sapore antico.
Dopo il saluto del rappresentante del sodalizio organizzatore, Fiore Fiori, che ha ringraziato Giuan Marti, Antonella Ratto e il numeroso pubblico presente, il chitarrista M° Fulvio Semenza si è esibito in una miscellanea di motivi musicali, predisponendo l’atmosfera di relax adatta all’evento, quindi Giuan Marti ha dato il via alla manifestazione, presentando il primo di una serie di racconti, che la voce di Antonella Ratto, ha interpretato con l’ormai nota bravura, in simbiosi con gli accordi del M° Semenza, accoppiata di sicuro effetto.
Ad alcuni racconti già inseriti nel programma, ma inediti per un pubblico rinnovato dell’ambiente marino, ne sono stati aggiunti dei nuovi tra cui la storia di Manoelo, un personaggio degli anni ’30 e ’40, appartenente ad una benestante famiglia ebrea, proprietaria della distribuzione della corrente elettrica di una parte di Varazze (suo retroterra immediato), spogliato di ogni bene e la famiglia deportata, diventato un povero barbone, che i varazzini, specialmente un albergatore, aiutarono a sopravvivere in quegli anni tragici, fino alla sua morte avvenuta in seguito ad un incidente stradale. Una storia triste in un contesto di altre più rilassanti, che ci stava bene, però, per ricordare un male che la pietà di qualcuno riesce comunque ad alleggerire, un esempio per tutti.
Ma poi ecco spuntare dai ricordi di Baggetti le avventure di un trio di ragazzi che se la devono vedere con i fantasmi che, si dice, albergano nella chiesa della Madonna della Guardia, in una notte di tregenda, poi finita positivamente, ma quanta paura! E c’è anche l’infanzia del “terribile” Ranghetto, un ragazzo che ne combinava di tutti colori, a scuola e in strada, un vero “seotto”, termine antico ligure spiegato da Marti come “bricconcello”, altre storie di amori estivi della Varazze “da bere”, l’lngrid del maggiolino blu, regina di bellezza e di charme, i viaggi invernali di tre amici alla ricerca di avventure amorose nei templi del liscio della Valmorbida, in notti di tormenta di neve, e altri episodi tragicomici, come quello di Fausto il pescatore che, ogni qualvolta gettava la rete, pregava il Signore che gli mandasse una buona messe e che un giorno catturò un grosso Ziffo (delfinide), al ché, alzando gli occhi al cielo esclamò “ma oo de sta mesùa…”.
Racconti, battute, mentre il cielo si faceva sempre più minaccioso, appena in tempo per concludere la bella e interessante serata. La pioggia ha costretto a non perdere ulteriore tempo, aggiungendo di suo i fuochi artificiali con fulmini e saette, finale quanto mai affascinante, quasi un fragoroso applauso cosmico a Francesco Bagetti e alle sue storie.
Complimenti ad Antonella Ratto, anche per la sua imperturbabilità nonostante gli eventi atmosferici incombenti, così come a Giuan Marti, commentatore e regista ormai lanciato verso chissà quali destini (inizia il Festival del Cinema di Venezia) e al M° Fulvio Semenza, una chitarra che sa parlare al cuore. Naturalmente un “bravò” ai pescasportivi di capitan Patrucco e alla sua efficiente ciurma per la perfetta organizzazione di questo incontro di “storie di casa nostra”.
E adesso cosa succederà? Altre tournée in vista, altri incontri anche fuori Varazze, forse nuove entrate in quella che sta diventando una specie di “Carro di Tespi” che ogni estate, tanto tempo fa, veniva a Varazze per rappresentare spettacoli teatrali in piazza Dante, con un programma altisonante: opere di d’Annunzio, Pirandello, ecc…. Piccoli teatri che hanno fatto la storia del teatro, Così come la Compagnia di Francesco Baggetti, con Giuan Marti, Antonella Ratto e il M° Fulvio Semenza.
Siete stati in tanti ad arrivare fino alla Croce di Castagnabuona, in quella che è stata una bellissima serata per l’ultimo appuntamento della stagione estiva, ma molte altre idee ci frullano in testa e ci rivedremo presto!
Antonella, Fulvio e io, ringraziamo tutti coloro che in questa meravigliosa estate ci hanno seguito con costanza e passione
Speriamo di avervi regalato emozioni, perché questo, in una società sempre più superficiale, è quello che vogliamo fare, oltre a raccontare fatti e aneddoti che sono accaduti nel nostro territorio e spesso dimenticati .
Serate di racconti immersi in quegli stupendi panorami che ci appartengono.
Grazie a voi, che avete avuto la cortesia di ascoltarci e che ci avete regalato un pò del vostro tempo, ci avete emozionato.
Mai avremmo immaginato di avere un così folto e attento pubblico.
Ringraziamo tutte le Associazioni e le Confraternite che ci hanno ospitato
Grazie ad Amaliguria che ci ha sempre seguito, Piero e Giuseppe, sempre impeccabili.
Vorrei citare la recensione del poeta Mario Traversi
La lettura dei racconti di Baggetti è stata la novità culturale dell’estate, un momento di intima partecipazione di ascolto, dal sapore antico, che ci riporta ai cantastorie e alle veglie accanto al caminetto, facendo gustare la serenità dello stare insieme, in un’atmosfera dimenticata nel tempo.
La decisione della regina Margherita, di stabilire la sua casa per le vacanze marine a Bordighera, anziché a Varazze, non fu solo una questione personale o di correnti marine, ma anche e soprattutto di sicurezza personale.
Nel 1900 a Monza fu ucciso in un attentato il “re buono”( per gli anarchici il “re mitraglia”) Umberto I.
Da quel nefasto evento, la famiglia Savoia, curava molto la sicurezza e la salvaguardia dei suoi consanguinei, anche perché, c’era stato quell’oscuro presagio.
A Varazze quella paura si era avverata materialmente.
Il 7settembre del 1921, nello stabilimento balneare Regina Margherita fu fatto esplodere un ordigno, che provocò una decina di feriti.
Per giustificare ancor di più il giudizio di Varazze città non “degna di re” era la vicinanza di Genova, dove vi erano diversi covi di anarchici.
Non c’è da meravigliarsi, del sentimento antipiemontese, che anche a distanza di anni, albergava negli animi dei genovesi e dei liguri in generale.
La Repubblica di Genova nel 1815, durante il Congresso di Vienna, fu annessa con una decisione forzata, alla casa Savoia, i moti insurrezionali del 5/6 aprile 1849, repressi con la strage, perpetrata dai bersaglieri di La Marmora.
La strage, gli stupri, le distruzioni e il saccheggio di Genova è una ferita ancora oggi non rimarginata, nonostante la pace siglata nel 1994 fra i genovesi e i bersaglieri.
Alla mia età, lascio alcune sensazioni dell’andare in moto, ad altri, emozioni anche sacrosante e gratificanti, per chi va in due ruote, se fatte in sicurezza, esperienza e soprattutto con la testa sul collo, sensazioni già provate in gioventù, come quelle adrenaliniche, della velocità e delle curve.
Un consiglio, che voglio dare a tutti e valido per tutte le età è quello di godere anche di altre cose.
Quando si è al cospetto di paesaggi, cose storiche, moderne, strane o curiosità, di paesi e borgate e con dei compagni di viaggio, far tappe, per caffè, foto, pausa pranzo, due chiacchere o semplicemente fermarsi, perché c’è qualcosa da vedere ecc.
Ma c’è una cosa irrinunciabile, che ci fa salire in sella, è quel senso di libertà dell’andare in moto.
Il contatto fisico con l’elemento aria, di questo, se ne percepisce la presenza, la sua resistenza, entra in contatto con la pelle, da ogni parte scoperta, della giacca e di altri indumenti.
Aria fredda, che fa venire i brividi, nell’ombra di un fondovalle, quella calda e senza vento nelle gallerie, quella pesante, umida che si percepisce, al ritorno al mare dopo una giornata trascorsa fra i tornanti alpini, dove lì si respira l’aria buona!
Ma l’aria, porta anche gli odori, i profumi, che entrano nel casco, come sulla A10, nella discesa prima di Andora, quando si attraversa quella bella pineta, ai lati della autostrada, ed è forte il profumo di quegli alberi.
E per ogni paese, città, che si attraversa, odori profumi, anche puzze, in tempo reale, non mitigate e posticipate dal filtro di un abitacolo di un’auto, aria fredda, che ti fa lacrimare gli occhi e intorpidire le mani, poi ancora, milioni di insetti, librati nell’aria, finiti spiaccicati sulla visiera del casco e sul cupolino della moto.
E poi ci sono loro, i compagni di viaggio, alcuni anche occasionali, come quando, un apparente e tranquillo motoraduno, si trasforma in un gran premio e passato l’ultimo semaforo, del Lungo Bisagno, si rimane solo in quattro, con le moto a decidere sul dove andare e fare così un altro giro, dividere il pranzo al sacco e ammirare un incredibile castello, incastonato nella pietra.
Capita poi, di passare un’ora, sotto ad un pergolato, ad ascoltare i racconti di una persona anziana, a cui si era chiesto, semplicemente, la strada per andare alle Capanne di Marcarolo, vera e propria meraviglia, con i canyon del Gorzente
Chi va con due ruote, in Liguria ha un entroterra strepitoso da vedere, a due passi dal consumatissimo mare, basta anche solo un giro, di mezza giornata, magari in compagnia di un paio di amici, compagni di viaggio, qualcheduno ritirato dal lavoro, ma colleghi per sempre.
Entroterra dimenticato, sconosciuto a tanti, che ci regala scorci di struggente bellezza e tanta storia, anche tragica, fatta di lapidi e sacrari della guerra di Liberazione, che sui nostri monti, ha visto il sacrificio di tanti giovani, che combatterono per la nostra libertà.
L’ombra dei boschi, di querce abetaie, i faggi del Mellogno con i suoi forti.
Un lago dove fermarsi per un cafè e una fonte, dove tutti si fermano per rinfrescarsi.
Alcune tappe sono obbligate, come il Montezemolo, per due foto, un caffe, una bibita o un gelato, ma poi ci sono quelle non programmate, che ti fanno frenare la moto, fermare per visitare una chiesa, anche un piccolo, struggente cimitero di campagna, un castello con bellissimi ambienti interni, una vecchia casa diruta in pietre.
Lascio per ultimo, quella meraviglia del passo del Faiallo, stupendo monumento di orografia ligure, meta domenicale di famiglie e motociclisti, cangiante, dal giallo delle ginestre, al verde delle felci e il rosso dell’erica in fiore.
Buon giro! A chi oggi, è a spasso con la moto, sulle strade liguri, il mio consiglio è di fare sempre attenzione, siamo la regione delle buche sulle strade, riparate solo nell’imminenza di un evento, una tappa ciclistica o una elezione politica, nel lasso di tempo, che separa questi avvenimenti, il cittadino è lasciato in balia di infrastrutture viarie fatiscenti.
Fate attenzione! Anche perché poi, in questo strano benpensante paese, a torto o ragione, cinicamente, diranno sempre, che la colpa è della moto, che andava forte.