U Monaste’ dra Rocca de Giuse

Ruderi du Monastè dra Rocca de Giuse

Il nostro sforzo, nel capire tutti i manufatti, che troviamo abbandonati nei boschi, altro non è che la ricerca di un passato, cancellato da tanto tempo, da quando gli anziani, non più detentori del sapere, smisero di raccontare e allora smarrendo il loro significato, lentamente si dissolsero le tradizioni, e si incominciò a dimenticare.( Biancangela Pizzorno Brursarosco)

In tempi non proibiti, accompagnato, da Francesco e Battista, siamo saliti alle Rocche Raggiose, orribile traduzione dra Rocche de Giuse, dove, al disotto di quella parete rocciosa, secondo Francesco, si trovano i resti del Monastero degli Antoniani .

Discendendo un ripido crinale, in direzione degli Armuzzi, località di Alpicella, si arriva in una zona terrazzata, con decine de muagge de pria o prea, di ottima fattura, erette con la stessa tipologia, anche se molto più antiche, dell’imponente Cà du Maggiù, che sovrasta questo territorio, un bellissimo esempio di casa rurale, destinata purtroppo a prossima rovina.

A Ca du Maggiu

Definirla un capolavoro è il minimo che si deve, a chi, con perizia e grande maestria, ha costruito materialmente, questa casa.

Si scende, fino ad arrivare in vista, delle case sparse degli Armuzzi, oltrepassiamo a Ca di Siri e a Ca da Bellafia, con il suo grande, omonimo campo, Questa borgata è uno dei primi insediamenti abitativi, dell’Alpicella, il termine dialettale, deriva da: armussi, arma, armisu, ovvero riparo sotto roccia o capanno di montagna.

In questo ambiente, molto antropizzato, esiste una zona impervia, poco conosciuta, ma ricca di anfratti e ripari rocciosi, con notevoli presenze di muretti e “muggi de prie” testimonianze di antichissimi insediamenti umani, probabilmente del neolitico o dell’età del bronzo.

Ma la caratteristica principale, di questa zona, sono i ruderi di case, cascine ed essiccatoi per castagne, ho contato una decina di questi edifici, ognuno con il suo nome e la sua storia, ma altri devono essere da qualche parte, nel folto del bosco e scendendo laggiù, verso u Rian dell’Ommu Mortu.

Francesco Ratto

Continuiamo la “stra da lese” nome derivato dal mezzo di trasporto del legname, fieno e altro, che da questi boschi, scendeva verso Alpicella e con una diramazione, verso le Faje.

Le pietre di questa antica strada, conservano i segni del passaggio delle stanghe delle lese, di chi, con un’andirivieni, dal bosco traeva sostegno per sè e per la sua famiglia.

In certi punti, si può scorgere il segno lasciato dalle “lese” che hanno consumato gli spigoli delle pietre del selciato.

Fu questa strada, per alcuni secoli, l’unica viabilità che oltrepassava il giogo appenninico.

In questa zona di transito obbligato, fu edificato un Monastero Benedettino dedicato a S.Giuseppe (cit.Mario Fenoglio “Antico Popolamento nell’Area del Beigua” 13-14 ottobre 1990 pag. 102), il simbolo dei suoi ruderi sono indicati, nelle cartine geografiche, sopra l’abitato dell’Alpicella, qui esiste una zona solatia, protetta dai venti settentrionali, da un’alta parete rocciosa denominata Rocche Raggiose.

Ma il cui vero nome dovrebbe essere Rocche de Giuse, in riferimento al sottostante Monastero dei Benedettini dedicato a S.Giuseppe

L’arrivo dei cristiani sul Monte Beigua è testimoniato sulle pietre, dove i precedenti simboli, incisi dai primi cacciatori/raccoglitori, furono trasformati in croci cristiane, da profondi solchi, fatti con forza, come a voler imporre una nuova devozione, sopra ai simboli di adorazione propri di quel grande popolo dei liguri.

Questi nuovi simboli, sono risalenti all’Alto Medioevo, quando il cristianesimo, raggiunse, con i suoi simboli, anche le zone più inaccessibili del Monte Beigua, specie nel periodo in cui i Longobardi, dominavano sulla Silva Urbis

I Monasteri costruiti lungo le strade dei pellegrini, delegazioni delle Abbazie, furono utilizzati nel corso dei secoli da diversi ordini monastici.

Nei link seguenti le diverse Abbazie, che molto verosimilmente, si alternarono nella conduzione del Monastero da Rocca dra Giuse.”

https://it.wikipedia.org/wiki/Giusvalla

https://it.wikipedia.org/wiki/Abbazia_di_Ferrania

https://it.wikipedia.org/wiki/Badia_di_Tiglieto

Ma le ultime notizie, tramandate, attribuiscono la mansione del Monastero all’Ordine Antoniano.

Questo ordine monastico, si diffuse in Piemonte e in Liguria sotto la protezione di papa Sisto IV il papa originario di Celle Ligure.

A questo link l’arrivo degli Antoniani, cristiani copti dall’Etiopia

https://www.treccani.it/enciclopedia/antoniani_%28Enciclopedia-Italiana%29/

Oggi in mancanza di notizie certe, dove fu edificato il Monastero, serve osservare attentamente i resti diruti di manufatti, anche quelli all’apparenza insignificanti presenti in un tratto pianeggiante, lungo quella importante Strà da Lese.

Tutto questo pianoro è protetto dai venti settentrionali, dall’alta parete rocciosa dra Rocca de Giuse.

I macigni, che sono precipitati dalla Rocca, avevano offerto in questo territorio, riparo, per i primi insediamenti umani, ma anche il materiale, per i primi manufatti in pietra.

Un’ampia zona, terrazzata bonificata e spianata, a lato della Strà da Lese, era destinata alle coltivazioni.

Gli innumerevoli muretti e cumuli di pietre, sono risulte di ampie bonifiche del terreno, effettuati in questa zona.

Un paio di avvallamenti, sembrano essere opere di scavo, forse utilizzati come riserva di neve o acqua.

Francesco Ratto, ha individuato, qualche tempo fa, la zona dove molto probabilmente era edificato il Monastero.

Dopo aver fatto, un ampio giro alla vista di numerosi manufatti, in questa zona a lato da Stra de Lese, Francesco, mi fa notare, in una zona solatia, sopraelevata, a ridosso di una piccola parete rocciosa, le basi di un’edificio diruto, da cui tramite la disposizione delle pietre rimaste se ne può dedurre la pianta. La discreta sezione dei muri di base, depone per un’edificio a un piano.

Una porzione di muro in pietra, ben conservato, presente nel vano più grande, formante un angolo retto, era probabilmente il luogo di culto dedicato a S. Antonio, ma in un altro periodo storico, verosimilmente, sarà stato consacrato a S. Michele

Chi pensava di arrivare al cospetto delle spoglie, di un grande edificio resterà deluso.

A differenza di tanti altri manufatti, ridotti a muggi de prie, perchè diruti a seguito di un prolungato stato di abbandono, qua siamo al cospetto di una vera e proprio spogliazione, un ratto di pietre, caricate con relativa facilità, sulle lese e destinate ad essere inglobate in altre abitazioni.

Ci fu un’accanito e indebito accaparramento, delle pietre provenienti da questo Monastero, pietre benedette che furono utilizzate, come buono auspicio nella costruzione di altre abitazioni.

Di questo primordiale luogo di culto, restano solo vaghe tracce, oggi le pietre di fondazione, demarcano la presenza di un’edificio con tre vani all’apparenza non comunicanti, è probabile che l’accesso al piano sopraelevato, era effettuato, con scale esterne, partendo da un piccolo rilievo roccioso facente funzione di parete nord del Monastero.

Francesco Canepa

Qualche giorno dopo la prima esplorazione, con Francesco Canepa, abbiamo fatto alcuni rilievi. Un primo vano, ha dimensioni interne di sette metri per otto metri, in aderenza un altro vano con dimensioni più piccole, sette per tre metri e mezzo e infine il vano più grande, di forma rettangolare, con dimensioni sette metri di larghezza per undici metri di lunghezza.

A seguito dei rilievi effettuati è possibile ipotizzare come poteva essere il Monastero, visto da Strà da Lese

Il vano piu gtrande, verosimilmente, poteva essere il luogo di preghiera, una cappella con l’abside, perfettamente orientata in direttrice est ovest, Versus Solem Orientem e curiosamente allineata al Monte Grippino.

Presso il Monastè dra Rocca de Giuse, sostavano i pellegrini, che intendevano raggiungere, tramite altre viabilità, oltre l’Appenino, la via Francigena in direzione di Roma.

La sua decadenza, come luogo di culto, avvenne intorno al secolo XIV, forse per penuria di monaci.

I pellegrini, potevano scegliere altre viabilità e il Monastero fu abbandonato. Dopo poco iniziò la spogliazione delle pietre, riusate per l’edificazione di nuove case.

Oggi di quel centro di religiosità e operosità dove i Monaci Antoniani vivevano seconde Le Regole, erigendo innumerevoli muretti di sostegno per creare terrazzamenti e recinti per animali trasformando completamente questo ampio territorio, restano solo miseri resti.

Questo post non è e non poteva essere esaustivo, delle vicende storiche che si sono susseguite in questo pianoro, in mancanza di notizie certe e documenti

Concordo con le conclusioni di chi mi ha accompagnato, queste pietre sono verosimilmente, i ruderi del Monastero.

Resta comunque il ragionevole dubbio, che sia proprio questo il posto, dove era edificato, quel luogo di culto e lavoro, serviranno altre verifiche e forse degli scavi per ampliare le nostre conoscenze di questo sito.

Voglio ringraziare chi mi ha accompagnato nelle escursioni.

Battista Perata e Francesco Ratto

Battista Perata e Francesco Ratto

Francesco Canepa

Francesco Canepa

Ringrazio GB Ratto, papà di Francesco, per la sua sempre gentile disponibilità, a raccontare con dovizia di particolari, le vicende storiche della sua Alpicella.

La Pergola

Negli anni trenta, questo ristorante, che aveva anche alcune camere al primo piano di via Campana, era così chiamato, per il suo bel pergolato, dove nella bella stagione, poter mangiare all’aperto.

Fu preso in gestione da una simpatica coppia, non più giovanissima.

Lei era Rusetta e si diceva, a ragion veduta, tra i benpensanti, che in gioventù aveva fatto il mestiere più antico del mondo, lui era u Dria uno scapolone, forse vedovo e chissà come lo era diventato.

Entrambi sulla quarantina, si erano conosciuti in una di quelle case con le donnine.

Andrea voleva bene alla Rosetta, aveva dei risparmi da parte e gli propose di abbandonare quello stile di vita, aveva un bel progetto per lui e la sua amata, un lavoro onesto a due passi dal mare, per gestire insieme a lei un ristorante dove servire le specialità marinare.

Anche lei aveva due scui da parte, sapeva che la sua bellezza sarebbe sfiorita e già pensava, come sarebbe stata la sua vecchiaia, sola e abbandonata da tutti, anche da quegli uomini che oggi la corteggiavano, ma non certo per conquistare il suo cuore!

Non era male quella proposta, Andrea era un buon cliente, un brav’uomo, gentile e premuroso, quando arrivava nella casa del piacere, cercava e voleva sempre e solo la sua Rosetta, stavano bene insieme, anche solo a far due chiacchere, lui pagava la tariffa intera e la faceva ridere, quando gli raccontava di quella città, poco distante, dove aveva visto quel bel locale in riva al mare e della donne tutte casa e chiesa, ma non proprio santarelline.

Fu così che lei lasciò la professione e rilevarono la gestione del ristorante la Pergola di Varazze.

La coppia era molto chiaccherata in città, ma si sa come vanno le cose, le dicerie a volte diventano poi buona pubblicità per un locale.

E cosi fu, c’era sempre gente ai suoi tavoli, tanti i curiosoni, di quelli che sapevano tuti i ceti de Vase e ci andavano solo per poi raccontare che cosa avevano visto, come era vestita la Rosetta e che cosa avevano udito le loro orecchie, sempre tese a carpir qualcosa di pruriginoso.

E quel povero Dria! che meschinetto, succube di quella megera!

Ma molti ommi de Vase, che avevano conosciuto e frequentato, la Rosetta in un bordello di Savona, per loro, non era certo una megera, avendola vista tante volte senza veli….. ma se ora, quella rovina famiglie, spifferava tutto?

Un fantin, fu inviato in avanscoperta, per carpire che intenzioni aveva la Rosetta.

– Ciau Rusetta cosa ti ghe fe, qui a Vase, con lo scoscià?

– Sun diventou na coga, vuoi mangiar qualcosa, c’è una toa libera sutta a toppia

– Va bene, perù senti, mi e ti non ci siamo mai visti prima, che doresto, mi scoppia un bordello in casa!

– Ma cumme, facevi tanta strada in bici, per vegnì a in via Fraschieri, quando ci avevi un bordello in casa?

– Tutto diventa un bordello, se tu ci racconti qualcosa de mi e ti a Sanna, te pregu non dire gnente ti vò de palanche pe sta sitta?

– Nu ei voggio e to palanche, ma voggio e palanche de tutti!

– Cumme saieva e palanche de tutti?

– Quande ti te spusi, tu vieni qua da me e dau Dria alla Pergola, cun tutti i tuoi parenti e anche quelli della sposina a cui farò tanti belli auguri e figgi maschi e ti facciamo fare un belu spusalisiu, da mangiare e beive ben!

– Belin e quantu u me custa?

– Ti costa meno pagare un bel pranso, che avere un bordello in casa! E dighelu a tutti i me ommi de Vase de vegni’ o mandare la gente a mangiare alla Pergola!

Dopo quella chiaccherata…. gli affari andarono bene! Rosetta era una buona cuoca, avevano assunto del personale, lei dirigeva la cucina, mentre Andrea, si occupava del servizio e teneva la contabilità del locale.

Ma i bei tempi finirono e con la guerra in corso, nessuno aveva più i soldi o la spensieratezza di prima, anche i cetusi, erano spariti dalla circolazione, sostituiti dai delatori di professione o quando se ne presentava l’occasione.

Dopo il 1941 a Varazze, iniziarono a stazionare diversi reparti militari, i primi erano soldati italiani, poi quando si prospettava uno sbarco alleato, nel ponente ligure, arrivarono anche militari tedeschi.

Ma i soldati, avevano rigide regole a cui sottostare e ogni guarnigione aveva la sua mensa.

Ridotti quasi alla fame, con il ristorante chiuso, una sera Rosetta esordì, rivolta al suo compagno “Senti qua non abbiamo scelta, conosco il mestiere e gli uomini, posso ritornare a far il mio vecchio mestiere per qualche tempo finchè le cose non vanno a posto!” Andrea non ebbe nulla da ridire, tanta era la fame e i patimenti che aveva e fu così che Rosetta, nonostante fosse prossima alla cinquantina e con il fisico appesantito, riprese a consolare gli uomini, in questo caso soldati italiani, poi tedeschi e dopo la Liberazione, per un certo periodo anche soldati americani.

Il meretricio era praticato in quelle camere al primo piano, ma era illegale, perché non avevano i permessi, per esercire una casa di tolleranza, ma vista la penuria di casini, durante il conflitto mondiale, e considerato come una sorta servizio sociale a favore delle truppe di stanza a Varazze, questo mercimonio, fu tollerato e nel tempo, altre tre signorine, si aggiunsero al catalogo della maison.

La casa d’appuntamenti, continuo’ la sua attività anche nel dopoguerra, grazie alle abilità diplomatiche du Dria e secondo alcuni ceti, anche a seguito delle elargizioni ad amici, nei posti giusti in Questura, i rappresentanti della legge, chiusero un occhio per molto tempo, nei riguardi delle mentite spoglie, del ristorante La Pergola.

Tutto ebbe fine a seguito di una delazione e il 19 marzo 1949, festa di S.Giuseppe, appena dopo il passaggio della Milano Sanremo, quando i carabinieri espletato il servizio d’ordine per la corsa ciclistica, irruppero dentro La Pergola e sorpresero le tre ragazze e la Rosetta, mentre si intrattenevano con cinque clienti, tutte persone ben conosciute di Varazze e tutti fatti uscire dal locale, in mezzo ad un’ ala di folla di curiosi e benpensanti cittadini di Vase, che nel frattempo, con un velocissimo passa parola , si erano radunati in via Campana.

Forse per dar maggior risalto a questa operazione di pulizia urbana, fu scelto proprio il giorno della corsa ciclistica, per far sì che tutta la cittadinanza scesa sull’Aurelia, per veder passare Coppi Magni e gli altri corridori, fosse presente e testimone della fine ingloriosa di quel meretricio con le donnacce e i loro clienti esposti al pubblico ludibrio.

Molti si fecero il segno della croce, con buona pace dei bigotti e dei devoti e pii cittadini de Vase.

A Rosetta e Andrea fu dato il foglio di via e non misero mai più piede a Varazze.

Il ristorante la Pergola riapri’ con un’altra gestione.

Finito il conflitto, si seppe che la bella Rosetta, era nei registri della polizia segreta, sospettata di essere una collaboratrice degli antifascisti, per la sua mancata fede fascista e le sue idee socialcomuniste.

Il 20 febbraio del 1958, data di entrata in vigore della legge Merlin, che ha abolito le case di prostituzione, a Savona si tenne una cerimonia funebre in pieno spirito goliardico. Un corteo partì da corso Italia e raggiunse via Fraschieri, dove si trovava un noto bordello con la statua ora scomparsa di Giuseppe Fraschieri.

I ragazzi dell’associazione goliardica savonese misero al braccio della statua una fascia nera in segno di lutto e depositarono lì davanti una corona di fiori». Un quadro che ben rende l’atmosfera con cui venne vissuta a Savona l’abolizione delle case chiuse.

Nel seguente link dal blog Trucioli Savonesi “I Casini di Savona “

foto dal Web e Archivio Fotografico Varagine

I Canuin du Spurtigiò

A sciumea du Spurtigiò, nasce da a Ciusa d’Invrea duvve arrivan l’Aniun e u rian da Ciusa.

  La zona, dalla foce du Spurtigiò, alla Costata, era anticamente chiamata del Latronorium, descritta anche da Dante, come una cupa foresta, infestata da animali e da predoni.

Poi, con lo sfruttamento del bosco, ma soprattutto con i ripetuti incendi degli anni 90 e quello disastroso del 2011, gli acclivi pendii che precipitano nell’Aniun si sono inariditi e le alture, sono oggi colonizzate da arbusti e da migliaia di Pinaster, pino marittimo. Alcune zone prative, nella borgata della Costata, sono coltivate a ortaggi e frutta.

A seguito delle attività umana, evidenziate anche da una fornace, per la cottura dei mattoni, in località Costata, le antiche mulattiere si
erano trasformate in una strada carrabile, che univa la località Piani di S.Giacomo alla direttrice Sciarborasca -Deserto – Muraglione.

Ma in tempi remoti questa viabilità serviva a ben altri scopi.

Il termine dialettale Spurtigiò, si riferisce a porticciolo, piccolo attracco.

Diverse vicissitudini storiche, hanno trasformato la destinazione d’uso del Portigliolo.

Alla foce du Spurtigiò, vi era un’ampia insenatura, che offriva riparo e attracco per le navi mercantili. In epoca romana, questo scalo era dedito, al carico della calce, cotta nelle fornaci di Cogolitus.

U Spurtigiò, divenne in seguito covo di pirati e di loschi traffici, poi solo un porticciolo, dove movimentare merci di ogni tipo, scaricate e trasportate lungo la strada di Beffadosso, fino al crocevia di Costata, dove si dipartiva la via romana Emilia Scauri.

Le foto dell’epoca, ritraggono le tipiche piccole case di pescatori, uno di questi edifici divenne sede di una fabbrica di gallette, per marinai, citata anche da Eugenio Montale in un suo scritto.

La leggenda dice, che qui arrivò, via mare il grande crocifisso bifronte, presente nella chiesa di S.Maria in Latronorio, all’interno del Castello d’Invrea, il maestoso edificio che domina questa parte di litorale.

Le esondazioni del Portigliolo, del 2002 e 2010, distrussero un campeggio e delle infrastrutture turistiche ricettive.

Oggi la zona del Spurtigiò è in stato di abbandono, vi regna lo scempio e il degrado. E’ stato presentato un progetto, di riqualificazione, dove è previsto altro cemento vista mare, con la costruzione di alcuni immobili ad uso seconde case.

In uno stato di abbandono, è anche la viabilità di Beffadosso, che in pratica oggi termina in località Costata, a causa di remoti eventi alluvionali che hanno divelto il sedime stradale, rendendo impraticabile il transito anche ai mezzi fuoristrada in direzione di Isola del Deserto.

Ad oggi, questo collegamento viario, di vitale importanza non è stato ripristinato.

L’imponente frana di Beffadosso, isolò per una decina di giorni, le famiglie e le attività, della borgata di Costata, nel novembre del 2018.

Ci fu un periodo storico, dove tutte le strade, che collegavano la riviera, con l’entroterra erano tenute nella massima considerazione.

 Ma non per la comodità degli spostamenti, di chi abitava nella fascia pedemontana, alle falde del massiccio del Beigua.

Con Giuseppe Vernazza, raggiungiamo in auto, la località di S.Giacomo, dove la sua famiglia, ancora negli anni 60, era dedita alle coltivazioni, in quel grande pianoro, famoso per le sue primizie, in primis tumate e merelli.

Le coltivazioni erano irrigate, da quella mirabile opera idraulica, costruita dai Vallombrosiani, che portava l’acqua, tramite un beo, dalle alture a quei campi coltivati.

Io e Giuseppe, siamo ex colleghi Enel,  insieme rivanghiamo i ricordi di altri nostri colleghi e di un mondo, quello dell’ex colosso dell’energia, smembrato e ridimensionato, ad uso profitto privato.

Ringrazio Giuseppe, classe 1948, che mi ha raccontato molte delle cose che illustro in questo post.

 Nel dopoguerra ci fu l’economia del recupero dei molti materiali, usati in abbondanza, per fortificare le difese costiere, armi e opere di difesa in acciaio erano smontate o tagliate sul posto tramite l’uso di un cannello ossiacetilenico

 Erano smontati anche i baraccamenti in legno, poi ricostruiti in altri luoghi ad uso ricovero attrezzi magazzini o per allevamenti animali.

Giuseppe e’ stato testimone dei cambiamenti dei Piani di S. Giacomo, una stupenda terrazza sul mare, oggi centro residenziale, mi parla della chiesa di S.Giacomo in Latronorio, che era sconsacrata e utilizzata dalla sua famiglia come deposito di fieno e attrezzi.

Pausa caffe all’autogrill Pavesi dove Giuseppe, mi racconta di altri cambiamenti quelli dovuti alla lottizzazione dei
Piani d’Invrea

Nel periodo bellico, in questa zona che degradava verso il mare, alternando zone terrazzate e coltivate a boschi di macchia mediterranea, c’erano le batterie costiere armate con cannoni tedeschi, un POC Postazione di osservazione costiera diversi baraccamenti e tende a uso caserma.

Qui i militari tedeschi avevano un gruppo elettrogeno, il cui basamento è ancora visibile, nei pressi della rampa stradale, che scende verso il Lungomare Europa.

Un’altro basamento ospitava l’apparecchio, per l’intercettazione degli aerei nemici l’aerofono, buffo strumento per intercettare gli aerei in volo, che provenienti dalle basi aeree della Corsica, sorvolavano questa località per andare a bombardare le grandi città del nord.

Ma era anche luogo di svago con il Cabiria, locale da ballo al cospetto di uno spettacolare panorama.

Dominava questa parte della città ed era sede del comando tedesco, il Castello d’Invrea.

Fu solo a seguito dell’esito degli avvenimenti bellici, di una guerra ormai irreparabilmente persa, che gli strateghi nazifascisti pensarono come proteggere la loro inevitabile ritirata, visto lo strapotere militare e tecnologico degli alleati.

Tutte le viabilità carrabili o pedonali, che potevano raggiungere e valicare i nostri monti, erano state censite, mantenute in efficienza, protette da postazioni armate e naturalmente minate, per evitare di essere inseguiti e presi alle spalle.

A fine del 1944 gli alleati avevano ripreso a salire la penisola e stavano per sfondare la linea Gotica, i comandi nazifascisti in questa parte del Vallo Ligure fortificarono le via di fuga verso nord, intensificarono la lotta contro la resistenza, con una serie di sanguinosi rastrellamenti, terrorizzando la popolazione locale, furono minati tutti i principali collegamenti viari

Nella galleria Invrea, della linea ferrata, sono ancora visibili i fornelli da mina che erano pronti per esplodere.

La via Aurelia minata in diversi punti per interrompere il transito delle colonne militari alleate, fu minato e poi fatto brillare anche il ponte sul torrente Portigliolo.

Minata anche la strada che dai Piani di S.Giacomo, poteva arrivare a Varazze dalla direttrice Deserto-Muraglione, durante questa operazione un militare italiano, perse la vita, investito dall’esplosione di una mina antiuomo inavvertitamente calpestata 

In sponda destra del torrente Portigliolo, nella zona poi identificata come i Canuin, furono costruite tre piazzole per arma da fuoco, due furono armate con grandi obici, capaci di raggiungere eventuali navi sottocosta, ma soprattutto di tenere sotto tiro, il centro abitato di Cogoleto, dove era particolarmente attiva la lotta partigiana ,e le sottostanti viabilità ferroviaria e stradale che oltrepassavano il torrente Portigliolo.

Obice Ansaldo 149/19 OTO Mod. 1937

Gli obici montati su ruote nascosti alla vista, erano diretti nel tiro dall’osservatorio d’Invrea, gli obici potevano
ruotare nelle grandi piazzole e avere un ampio ventaglio di tiro.

Oggi della postazione dei Canuin restano i ruderi delle piazzole della rampa di accesso, dei rifugi per soldati, depositi di munizioni e di alcuni parapetti.

Al cospetto di queste opere militari, si pensa sempre al lavoro che è stato fatto, agli scavi per spianare questi ripidi pendii per costruire delle postazioni per armi da fuoco e una strada carrabile di accesso alle postazioni, fatiche, sperpero di risorse, cose inutili, per un paese già allo stremo, per una guerra che era persa da almeno un paio di anni

Un regime sanguinario, che volle il sacrificio di giovani vite, solo per vanagloria con l’alleato germanico.

 Questo punto di fuoco era presidiato unicamente dalle forze armate italiane e la zona delle baracche per i soldati di stanza nel caposaldo dei Canuin, ebbe l’appelativo di, l’Italia

Per la logistica, necessaria per fortificare questa zona fu utilizzata ampliandola e modificandola, l’antica viabilità che all’epoca dei Centurioni, con un beo, alimentato dalla Ciusa, portava l’acqua al castello d’Invrea.

Oggi il canale è sostituito da una tubazione in polietilene e arriva ad una grande vasca di raccolta ad uso irriguo.

All’inizio della stradina un suggestivo presepio forse un ex voto.

foto b/n Archivio Fotografico Varagine

E Crave Sutta au Fo

A Cerisole di Piampaludo l’attrativa principale è il patriarca del Beigua.

Un monumentale faggio dall’età stimata di 350 anni con la sua circonferenza di 480 cm!

Ma arrivati al bivio della strada che scende a Pianpaludo un’insegna in legno ci informa della presenza dell’Azienda Agricola Cascina Giacobbe dove si producono e si vendono al dettaglio formaggi e derivati dal latte di capra.

A questo link la storia di questa Azienda Casearia https://www.savonanews.it/2021/04/13/mobile/leggi-notizia/argomenti/curiosita/articolo/anche-le-capre-nel-loro-piccolo-si-incazzano-il-tesoro-del-beigua.html?fbclid=IwAR1B6fkTDnOlbPAqQBSTTwwCWoFUTeqfhyfEhOVzkUJ5mlQAOqvi5d2rDxc

Come non farsi prendere per la gola con un paio di formaggette fresche le “Robiole del Beigua” ma ci sono anche le cacciottine “Fiore del Beigua” la “Toma” un formaggio stagionato, la “Piampaludina” formaggio a pasta molla, e non poteva mancare lo “Yogurt naturale”

La gentile signora Manuela ci accompagna alla visita della stalla, dove con un bel colpo d’occhio, una settantina di capre si accingono a fare il pasto serale.

Due sono le razze la Camosciata delle Alpi

E le capre di razza Saanen

L’allevamento e lavorazione del latte di capre della Cascina Giacobbe è una bella realtà inserita nel Parco del Beigua

Azienda Agricola Cascina Giacobbe ha una sua pagina di Facebook.

https://www.facebook.com/Cascina-Giacobbe-1324391884359207/

U Fo Grande de Cianpanu’

Con un diametro di 480 cm. misurati a 140 cm da terra, questo grande esemplare di Fagus sylvatica, è un gigante dei boschi.

Radicato in località Cerisole di Pianpaludo, alto almeno 20 metri, condivide il primato di patriarca del Parco del Beigua, con un altro esemplare della stessa specie, presente nella faggeta di Alberola.

Sono due i tronchi che formano questa pianta, probabilmente due polloni, generati da un ceppo madre, aumentando di circonferenza i due tronchi si sono come fusi in un unico albero, con evidenti difetti di crescita.

E’ probabile che questa particolarità, ritenuta non commerciale, abbia preservato la pianta da tagli, arrivando così fino ai giorni nostri, numerose le testimonianze di vecchi interventi sull’apparato aereo.

La zona è videosorvegliata come deterrente da eventuali atti vandalici o grafomani

U fo grande de Cianpanù, si può ammirare, provenendo da Pratorotondo, dopo una breve deviazione a destra, prima dell’abitato di Pianpaludo.

In prossimità dell’Azienda Casearia Cascina Giacobbe, rinomata per le sue produzioni a base di latte di capra.

Ringrazio Battista Perata, che mi aveva parlato di questa monumentale pianta e poi accompagnato alla sua vista.

L’età stimata di questo faggio è di 350 anni.

Tutta la Storia da fine settecento fino ai giorni nostri è passata sotto la fronda di questo grande faggio.

Sin dai tempi dei Longobardi, anche questo bosco faceva parte della “Selva dell’Orba”

Al tempo della Repubblica di Genova, parte di qusto immenso patrimonio forestale, fu destinato alla creazione dl fasciame e strutture lignee, per le imbarcazioni della Superba.

In queste foreste, si formarono boscaioli e abili segantini, specializzati  nella produzione del tavolame.

Nello stesso periodo, nelle ferriere lungo il corso dell’Orba, generazioni di fabbri, con grande perizia, forgiavano asce di straordinaria qualità. 

Con la fine della Repubblica di Genova, terminò anche, l’attività dei boscaioli legata ai cantieri navali.

Gli arsiou, i segantini e i boscaioli, emigrarono in cerca di lavoro, iniziò così per l’Alta Valle dell’Orba, l’Epopea dei Lurbaschi

I Lurbaschi, si specializzarono nel taglio di traversine per ferrovie

Erano molto apprezzati, in Francia, dove erano chiamati “scieurs de longe” in Germania, ma anche nel nord Africa, nelle colonie francesi e in America del Nord

L’Epopea dei Lurbaschi, segantini e boscaioli, si esaurì nella seconda metà del novecento,.

Della loro mirabile attività, sono rimaste numerose testimonianze, raccolte nella pagina di Facebook “Il Museo del Bosco”

https://www.facebook.com/Museo-del-Bosco-108019714033395/

U Tobruk dell’Oca

Le tre batterie e il posto di osservazione, della Punta d’Invrea, avevano un punto debole.

Il POC, Punto di Osservazione Costiero della Punta d’Invrea, posto sotto alla batteria centrale, aveva un grande controllo del mare aperto

Ma quella grande spiaggia dei Pescuei, tra la galleria dei Pescatori e quella d’Invrea, era una zona non visibile da l’osservatorio e poteva essere luogo di sbarco degli alleati, o di un commando di guastatori, che potevano facilmente prendere terra e distruggere o mettere fuori uso le batterie d’Invrea.

Una verosimile ipotesi, era anche quella, della necessità di un caposaldo, in grado di scoraggiare, eventuali sabotatori, che potevano mettere fuori uso l’impianto di Aereofoni d’Invrea.

L’Italia non aveva apparecchi radar. Per intercettare eventuali incursioni aeree, si affidava agli aerofoni, uno di questi era stato posizionato lontano da fonti di rumore ai Piani d’ Invrea.

Per avere il controllo della Spiaggia dei Pescuei e del fianco destro delle batterie d’Invrea e proteggere l’impianto di aerofoni, fu fortificata la sommità della Punta dell’Oca, con lo scavo di un enorme buca, ricoperta e resa mimetica, con teli o ramaglie, impermeabilizzata con la solita carta catramata e utilizzata come deposito di munizioni.

Da questo grande avvallamento, si entrava in una fortificazione in cemento armato, completamente interrata, chiamata in gergo militare Tobruk solitamente armata con mitragliatrice Breda 37 o MG. https://it.wikipedia.org/wiki/Tobruk_(bunker)

Solo la parte sommitale fuoriesce dal livello del terreno.

L’ingente materiale inerte, estratto per interrare il Tobruk, ha cambiato il profilo di questo rilievo.

Altra notevole opera, fu la costruzione di una scala, sono 96 i scalini, che dal livello del mare, inerpicandosi in mezzo alle rocce, raggiungono una zona alberata frammista con arbusti, dove a malapena si intuisce il tracciato di un sentiero.

Completano questa fortificazione, alcuni muri in pietra e cemento per la protezione ai lati di questo pianoro e una recinzione con piantoni in ferro e filo spinato, ancora oggi presenti a delimitare questa zona.

Le fortificazioni sono sopra il pianoro di Punta dell’Oca, qui si gode di una incomparabile vista mare, con i suoi innumerevoli e spettacolari pini di Aleppo che fanno da corollario al blu del cielo e del mare.

Il sottostante Lungomare Europa con quella meravigliosa corona di vegetazione e rocce che sovrasta la Spiaggia dei Pescatori.

Qui si è immersi nella biodiversità della macchia mediterranea, in un’ambiente scevro di frequentazioni umane

Ciante de erba spa, fighe d’india, sparaghi serveghi , oufoggiu, spinun, ersci, quarche oivu,tante brughe e ruvei.

POC CIan de Retin

Questo caposaldo, completava le opere difensive d’Invrea, che a partire da ovest annoveravano: il POC de Cian de Retin, sopra la località il Salice, le postazioni alle pendici du Cian de Freise, gli obici du Spurtigiò, lungo la mulattiera verso la Ciusa e le tre batterie e il POC della Punta d’Invrea.

I due posti di osservazione ricevevano le informazioni dalla postazione di aereofoni, buffo marchingegno di fabbricazione italiana

Gli aerofoni, ovvero perché perdemmo la guerra

La zona dei Piani d’Invrea era molto militarizzata, vista la sua posizione sopraelevata era forse considerata un baluardo inespugnabile, gli abitanti furono sfollati e molte delle loro abitazioni, requisite per ospitare le truppe, un comando tedesco era alloggiato al Castello d’Invrea, vi erano due tendopoli, una tenda comando tedesca era in località Vignetta.

Ai Piani d’Invrea, vi erano altri militari accampati con tende.

Qui nel dopoguerra, un ampio pianoro fu attrezzato a campeggio e si narra di una coppia di tedeschi, in vacanza nella nostra città, all’apparenza, due dei tanti tedeschi che arrivavano numerosi a Varazze.

Ma ad un certo punto, questi turisti sparirono dalla circolazione, abbandonando nel campeggio, la loro tenda, all’interno della quale, fu rinvenuta una profonda buca scavata dai due tedeschi, forse, per recuperare un bottino di guerra, seppellito durante il periodo bellico.

Tutta la nostra regione fu fortificata con il Vallo Ligure, costruito dalla Todt.

Si temeva dopo l’occupazione alleata della Corsica, un imminente sbarco anglo americano nella riviera di ponente.

Ma fu solo un’abile depistaggio, da parte degli alleati, che fecero credere ai nazifascisti, della possibilità di uno sbarco nelle zone, dove le strade, verso l’entroterra, portavano ai passi appenninici.

Fu la mente geniale di Churcill, che mise in opera questa brillante operazione di inganno, obbligando il nemico a impegnar risorse e uomini allo scopo di difendersi da una improbabile invasione……

Oggi possiamo dire molto più verosimilmente, che ci fu chi, ingigantì questa potenziale minaccia, solo a scopo di lucro…..furono così distratte considerevoli risorse ad un paese già in ginocchio, cemento, ferro e forza lavoro per costruire poderose ma inutili fortificazioni, oggi ancora ben solide che dovrebbero essere rese visitabili a chi vuol conoscere le vicende belliche nella nostra città.

Ma la dittatura fascista non permetteva alcun tipo di dissenso, l’ipotesi di uno sbarco sulle nostre coste era una grande bufala e poi c’era lo strapotere tecnologico e militare degli alleati , la guerra già persa in partenza era stata dichiarata finita l’8 settembre del 43, ma chi lo aveva capito mica poteva dirlo!

D’altronde per avvalorare questa fandonia, gli inglesi e americani intensificarono i bombardamenti sulle nostre città.

I nazifascisti iniziarono a pensare a come ritirarsi dal litorale, mantenendo il libero transito dai valichi appenninici, ma serviva eliminare la resistenza e anche tutti quegli antifascisti, renitenti di leva e disertori, pronti ad imbracciare un’arma contro di loro, a questo scopo fu incoraggiata la pratica della delazione un’ignobile atto che causò solo nella nostra città la morte di diciotto persone fucilati come partigiani o mandati a morire in un lager.

Sconsiglio vivamente l’escursione a Punta dell’Oca, per il pericolo di cadute nel vuoto.

le foto in b/n sono tratte da Archivio Fotografico Varagine

Antonio Bruzzone

Antonio Bruzzone

Altezza Reale

Mi permetta che le porga le mie più sentite condoglianze per la grande perdita di S.A.il Duca Luigi Amedeo, perché avendo lavorato alle sue dipendenze come operaio per ben tre anni in Somalia e avendo avuto più volte occasione di avvicinarlo per motivi di lavoro l’ho conosciuto non solo come il nostro buon capo, ma si può dire come un buon padre perché a tutti dava parole di bontà e di incoraggiamento e perciò da tutti era amato. Non dimenticherò mai il nobile gesto che ha compiuto il vostro caro fratello estinto; nel settembre 1922 ritornando dall’Italia al Villaggio (che porta il suo caro nome) i primi passi appena arrivato colà furono di portare una corona di bronzo sulla tomba di un mio povero fratello morto laggiù nel frattempo che il Duca era in Italia. Per la cerimonia fui invitato anch’io e non dimenticherò mai quanto mi furono di conforto le nobili parole dirette a me sulla tomba del mio povero fratello. Altezza mi perdoni se vengo a disturbarla, ma è l’espressione di un cuore che in questo momento non può tacere e si unisce umilmente e devotissimamente al cordoglio della reale famiglia.

Bruzzone Antonio.

Con questa lettera di condoglianze, per la morte di Luigi Amedeo di Savoia, il Duca degli Abruzzi, inviata alla famiglia reale, inizia questo racconto, che parla di un nostro concittadino, Antonio Bruzzone.

Come sempre è necessario considerare, il contesto storico delle vicende.

A questo link, un mio post datato 16/09/2021 Cun a Valiscia in Man, un resoconto della situazione economica, nella nostra città nei primi anni del 900.https://quellisciudateiru.wordpress.com/…/cun-a…/…

A partire dalla metà del 1800, Varazze e il suo distretto, subì un drastico ridimensionamento del settore produttivo, furono le cartiere Sciu da Teiru, ad entrare in crisi, seguite una decina di anni dopo dai Cantieri navali.

Come molti altri nostri concittadini, Antonio a inizio del XIX secolo emigrò in Francia.

Qui imparò il suo mestiere, quello di maestro d’ascia, ben presto però quelle prospettive, di buoni guadagni svanirono, rientrò in Italia, dove si convinse a fare il grande salto, partire per lavoro, con destinazione il Corno d’Africa, dove dal 1889 l’Italia aveva il protettorato della Somalia.

In Somalia, rimase a lavorare, fino al termine della prima guerra mondiale, terminata la sua attività, in terra d’Africa, ritornò in Italia, per poi ripartire nuovamente, destinazione l’America del Sud, in Argentina, dove a Buenos Aires, con il fratello Vincenzo, nella zona portuale, la più malfamata della città, aprirono un locale, il bar Armassin.

Ritornato, per un breve soggiorno, in Italia nel 1919, quando era in procinto di ripartire per l’Argentina, accompagnato dalla moglie Anita e dal figlioletto Andrea, giunse la tragica notizia, della morte del fratello, ucciso dal terzo socio, di origine turca, che si impossessò di tutti i beni dei fratelli Bruzzone.

Terminò così, in modo tragico la parentesi sudamericana.

Dalla parte opposta del mondo, in Somalia, negli anni 20 del secolo scorso, arrivò, dopo le delusioni e le umiliazioni, patite durante e al termine della prima guerra mondiale, Luigi Amedeo d’Aosta il Duca degli Abruzzi in dissenso con la casa reale dei Savoia.

Nel paese del Corno d’Africa, serviva creare nuove infrastrutture, a servizio del costruendo villaggio del Duca degli Abruzzi, la mano d’opera non mancava, ma erano necessari per l’esecuzione di grandi opere civili, chi sapeva fare i mestieri specializzati come quello di Antonio Bruzzone.

Antonio era già stato in Somalia e ora c’era una nuova opportunità di lavoro, con la prospettiva di essere alle dipendenze del Duca degli Abruzzi, molto conosciuto nella nostra città, con l’eco delle sue avventurose spedizioni, divulgate dai racconti dei nostri concittadini, che erano imbarcati sulla motonave Liguria, che circumnavigò il globo terreste e sulla Stella Polare, per la conquista del polo nord.

Guardando le foto, istantanee in bianco e nero, che il passar del tempo ha sbiadito e colorato come la carta seppia, si percepiscono i grandi spazi, della terra d’Africa, gli straordinari spettacoli di quella natura, così diversa lontana e poi quell’umanità di persone semplici e sempre sorridenti.

Forse è questa realtà, immortalata nelle foto, l’origine di quella nostalgia chiamata mal d’Africa, che pervade chi, in quella terra, ha vissuto, un periodo della propria vita, per lavoro o altro.

Sensazioni impossibili da descrivere, chi me ne ha parlato, è un uomo come Antonio, come lui viaggiatore e lavoratore, è stato alcune volte in Africa, per poi restarvi fino allo scoppio di una sanguinosa guerra civile, quando a tutti gli europei che erano in quella nazione, fu consigliato di abbandonare il paese.

Lui, oramai avanti con l’età, non ritornerà più in Africa, ma la sua nostalgia è tanta ed emerge nei suoi racconti, di quella lontana terra, con i suoi colori, suoni, odori.

In Somalia, Antonio, lavorò alla costruzione della prima ferrovia somala, alle infrastrutture idriche, con la costruzione di una diga e di un ponte, sul fiume Uebi Scebeli.

Le sue capacità tecniche, furono determinanti per l’edificazione del villaggio, fondato dal Duca degli Abruzzi nel 1920, chiamata Villabruzzi città somala capitale della regione dello Scebeli.

Negli anni 30, questo villaggio, ospitò alcune migliaia di coloni italiani e diventò il centro agricolo principale della Somalia.

Tra Antonio e Luigi Amedeo di Savoia, si instaurò un rapporto di reciproca stima e fiducia.

In Somalia Antonio, perse un altro fratello, Giuseppe deceduto nel 1922.

Il Duca degli Abruzzi creò una grande azienda agricola sulle rive del Uebi Scebeli.

Qui dette origine alla SAIS Società Agricola Italo Somala, un grande complesso agro industriale, collegato a Mogadiscio, la capitale, da una linea ferroviaria.

Fu costruito un ponte e uno sbarramento sullo Scebeli e una rete di canali per irrigazione di circa 800 km.

Il Duca degli Abruzzi, fu l’artefice, di queste grandi opere, dove era impiegata la popolazione locale, tutelata da un nuovo contratto di lavoro, basato sulla compartecipazione, ogni famiglia somala, che si insediava in questa area, aveva diritto ad un podere, bonificato e irrigato, che doveva essere coltivato a metà, con colture alimentari destinate al coltivatore diretto e l’altra metà, a colture industriali, cotone e sesamo, che spettavano alla SAIS.

Non furono sempre idilliaci, i rapporti con la popolazione locale, specie a seguito di eventi naturali, quando ci fu un’esondazione che distrusse alcune opere idrauliche, poi una epidemia di peste seguita da un periodo di cattivi raccolti.

L’instaurazione del regime fascista, nel Corno d’Africa, pose fine a quel metodo lavorativo, basato sulla reciproca fiducia.

I rapporti del Duca degli Abruzzi, con casa Savoia, si inasprirono ancor più, quando fu resa pubblica, la relazione del nobile, con una giovane principessa somala, Faduma Alì.

Colpito da un male incurabile, il Duca degli Abruzzi, trascorse alcuni mesi per cure in Italia, ma volle ritornare a fine vita, nella sua Somalia, qualche mese prima di morire, pronunciò la famosa frase, il 7 febbraio del 1933, prima di partire da Napoli per l’Africa“Preferisco che intorno alla mia tomba s’intreccino le fantasie delle donne somale, piuttosto che le ipocrisie degli uomini civilizzati”

Il Duca degli Abruzzi, morì il 18 marzo 1933, ai suoi funerali furono presenti moltissime persone e in seguito presso la sua tomba i somali si recavano per gratitudine, in pellegrinaggio.

Antonio e il gozzo da lui costruito

Antonio Bruzzone ritornò in Italia dove trovò impiego presso i Cantieri Baglietto come maestro d’ascia.

La pesca grande passione di Antonio

Antonio e Anita nella loro casa a Varazze affacciata sul mare

Il nipote di Antonio Bruzzone, ha lo stesso nome del nonno, nella foto lo vediamo con i genitori davanti alla vetrina di Mumitta

In Somalia già ai tempi del Duca degli Abruzzi, con l’arrivo del regime fascista, erano cambiati i rapporti con le popolazioni locali, i somali furono trattati alla stregua di un’etnia inferiore, sottomessi alla razza italica, alcuni di loro furono deportati come bestie, per far divertire i visitatori degli zoo a Roma e a Napoli.

Nel 1976 il governo somalo, si oppose alla traslazione delle spoglie in Italia, con la motivazione che il Duca degli Abruzzi, era parte della storia, della Somalia.

Nel 2006 i ribelli somali distrussero ciò che restava di Villabruzzi e tutte le testimonianze del colonialismo italiano compresa la tomba di Luigi Amedeo di Savoia disperdendone i resti

E’ probabile, che nessuno di loro, fosse a conoscenza della storia, di quello che stavano per distruggere per sempre.

Oggi, dopo varie vicissitudini, guerre, colpi di stato, cambi di regime, nel tormentato Corno d’Africa di quelle grandi opere, costruite anche con l’apporto dei nostri concittadini, non resta più nulla.

Per approfondire il seg. link https://italiacoloniale.com/…/ritratto-e-storia-del…/

Sono diversi, i nostri concittadini, che hanno condiviso con il Duca degli Abruzzi, un pezzo della loro vita lavorativa o partecipato alle sue esplorazioni. La più famosa fu senz’altro nel 1900, la spedizione al polo nord con la Stella Polare, fra le persone che raggiunsero la latitudine più a nord dell’epoca, c’era un nostro concittadino Simone Canepa u Tagan.

A questo link il mio post: Simone Canepa https://www.facebook.com/search/posts/?q=simone%20canepa

Nel 1904 ci fu lo storico incontro a Penang in Malesia, fra il Duca degli Abruzzi e un altro avventuroso esploratore, il varazzino GB Cerruti, re dei Sakai e forse a questo incontro c’era anche il Mandarino Gaggi-in-hi al secolo Giovanni Gaggino che fece fortuna in Cina.

Tra il 1902 e il 1904 il Duca d’Abruzzi, compì la sua terza circumnavigazione del globo a bordo della regia nave Liguria, facenti parte dell’equipaggio c’erano tre nostri concittadini, Agostino Bozzano, meccanico di bordo, Paolo Spotorno (U Lucciu) fuochista, in servizio di leva c’era un altro nostro compaeano, di cui non abbiamo memoria, forse un ravanetto o un siaulè.

Agostino Bozzano, al termine della prima guerra mondiale, segui il Duca, in terra d’Africa, dove diventò famoso, per aver riposizionato, i particolari, arrivati smontati di una locomotiva a vapore per il primo treno che collaudava la linea ferrata fatta costruire dal Luigi Amedeo di Savoia.

A questo link il mio post Il Duca degli Abruzzi, il Re dei Sakai e il Mandarino Gaggi-in-hi. https://www.facebook.com/search/posts/?q=il%20duca%20degli%20abruzzi

Altri varazzini in terra d’Africa, Giovanni Cerruti, Giuranin, della famiglia Cerruti du Buggia (dal nome di un rione in località Parasio), classe 1904, era conosciuto anche come l’African perché lui, prima caretè e poi autista di camion, nel 1936 raggiunse, nell’allora colonia italiana di Somalia, il gemello Giuseppe e l’altro fratello, Giacomo, proprietari di una piantagione di banani, gestori di un’officina e di un cinema a Mogadiscio. Nel 1941, a seguito della conquista della Somalia da parte degli inglesi, molti italiani furono fatti prigionieri e internati in campi di concentramento: Giuranin fu uno di loro. Era in Kenya, forse proprio nel campo 354 a Naniukyda, da cui il 24 gennaio del 1943 un gruppo di prigionieri italiani si allontanò, per scalare il monte Kenya: l’avventura fu raccontata in un libro da Felice Benuzzi, “Fuga sul Kenya” uno dei protagonisti di quella scalata che piantarono sulla vetta una bandiera italiana

Al seguente link la vita di Amedeo d’Aosta Duca degli Abruzzi.https://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Amedeo_di_Savoia-Aosta

L’ album di buona fattura rilegato in pelle con effige e finiture in cuoio

Ho il privilegio di sfogliare le pagine del bellissimo album fotografico di Antonio Bruzzone, che ha tramandato tramite le foto, la storia del suo periodo lavorativo in Somalia.

Queste foto hanno una preziosa particolarità, nel retro di ogni istantanea con buona calligrafia è annotata la data, nomi, descrizioni, brevi racconti e stati d’animo, di chi lontano da casa si rivolge ai suoi cari.

La bisnipote, Maria Teresa Bruzzone, che ringrazio per avermi fatto conoscere la storia di Antonio Bruzzone, ha avuto cura delle memorie visive e scritte di suo bisnonno, e suo il merito, di aver trascritto a lato di ogni foto, lo scritto presente sul retro delle foto.

Ho tratto, le notizie della vita di Antonio Bruzzone, dalla bella biografia, contenuta nella Tesi di Diploma, scritta da Alessandro Spirito, che ha lodevolmente ricostruito, parte della storia famigliare, partendo da questo album di fotografie e da altri oggetti, contenuti in un cassone, appartenuto al suo trisavolo Antonio Bruzzone

Prefazione della biografia di Antonio Bruzzone a cura di Alessandro Spirito.

Nelle prime foto dell’album ci sono le foto di famiglia.

Antonio Bruzzone con il padre Giuseppe Bruzzone

La madre di Antonio Maria Parodi

La famiglia di Antonio Bruzzone con la moglie Anita Vernazza e il figlio Andrea

A Giescia dei Tanizzi

Quando ho pubblicato l’elenco delle chiese, del territorio del comune di Varazze, ho scritto che non era e non poteva essere, un resoconto esaustivo e completo dei luoghi di culto religioso, altri potevano celarsi, a mia insaputa.

E’ così è stato, dopo aver letto il mio post sulle Giescie de Vase, con un suo post, Giovanni Ratto (John Ratto), mi informava, che nella zona del Bin, località a metà strada fra Alpicella e Faje, dell’esistenza di un anfratto naturale, chiamato la Giescia dei Tanizzi.

Non potevo non andare a cercarla!

Ho allertato telefonicamente, il mio collega Piero, che abita nella località Vallerga, dirimpettaia all’abitato di Alpicella e guarda caso, lui aveva dei parenti nella località Carega, poco lontano dai Tanizzi e mi risponde che conosce bene quei posti, per esserci stato da ragazzo e recentemente con suo figlio, sa dove si trova la Giescia.

Detto fatto, lo stesso giorno della telefonata, nonostante il cielo minacci pioggia, ci avventuriamo, lungo un pendio, molto acclive, contrassegnato da molteplici carcasse, di alberi caduti, causa vento o soffocati dall’edera,( questa pianta parassita sta piano piano sostituendo l’apparato fogliare degli alberi nei nostri boschi)

I tronchi abbattuti, sono di discrete dimensioni, anche difficili da oltrepassare, il sottobosco di foglie secche, rese umide e scivolose dalla pioggia, che inizia a farsi insistente e il pendio molto accidentato, obbliga a cercare in continuazione, rami, e piccoli alberi da usare come presa, per riuscire a stare in piedi, nonostante questa accortezza, faccio un bel ruzzolone, senza conseguenze fisiche, me la cavo con solo, lo stampo della terra sui pantaloni.

Non bisogna fare molta strada, per trovarsi al cospetto di un enorme blocco di scisto, colonizzato dal muschio e dal capelvenere, poi oltrepassate questa parete rocciosa e altre carcasse di alberi, si arriva al cospetto di una meraviglia della natura!

Piero mi guida verso l’entrata della Giescia dei Tanizzi, superando ancora un’ultima pianta sradicata, ci si trova all’interno di una grande spianata di forma rettangolare, con diverse piante cresciute aggrappate alle rocce, con un piccolissimo strato di terra per l’apparato radicale.

La Giescia dei Tanizzi è delimitata sui quattro lati, da rocce colonizzate, anche qua, da muschi e capelvenere, con una parete alta almeno una decina di metri.

Da questo gigantesco monolito, chissà quando, si è staccata un enorme porzione di roccia, di forma perfettamente rettangolare, che è scivolata per una decina di metri verso valle, formando in questo modo, un’ambiente che lascia sbalorditi per il suo regolare perimetro, fa subito pensare ad un’opera umana, visto la linearità delle pareti, che delimitano questo anfratto.

Ma è stata la forza della natura forse un movimento tellurico, l’acqua che si è insinuata tra le crepe di questa strana roccia, fatta a strati come se fosse un muretto a secco, poi il ghiaccio, che ha creato delle fessurazioni, provocandone il collasso.

Un’ambiente molto suggestivo megalitico, frequentato, forse abitato, dai nostri antenati, molte sono le testimonianze della presenza umana, nell’entrata verso valle, sono discrete le tracce di un cumulo di pietre, probabile residuo di un muro, che chiudeva questo accesso.

Altre pietre fanno da base alla seconda apertura, quella che molto probabilmente era la porta di accesso alla Giescia dei Tanizzi.

L’ambiente esterno è cosparso di piccoli terrazzamenti, muri a secco come per delimitare alcune zone, questa è un’area poco studiata o forse sconosciuta non analizzata da chi studia gli insediamenti umani.

Ma chi erano queste persone, che qui costruirono dei manufatti e trovarono rifugio nella Giescia dei Tanizzi?

Si possono fare diverse ipotesi, poteva essere una dimora fissa dei primi abitanti del nostro entroterra o saltuaria di qualche tribù errante, forse un rifugio per lebbrosi o di chi era contagiato dalla peste.

Ci fu un periodo, dove in questo recinto naturale, erano radunati degli animali.

Due gigantesche pietre piatte, formano una specie di ponte, che attraversa un rio, insieme a Piero, le sistemiamo, usando delle pietre come spessori, scongiurando per il momento, una sicura rovina di questo ponticello.

Ma perché questo luogo è chiamato Giescia dei Tanizzi?

Forse si svolgevano delle messe o altri culti religiosi?

Tutto può essere, questa apertura tra le rocce, può tranquillamente contenere almeno un centinaio di persone, ed è fattibile e relativamente facile, costruire una copertura, ancorando delle travi in legno tra le rocce e poi altre come tamponamento per proteggere le persone, qui convenute, dalla pioggia e dal freddo.

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Oppure molto più probabilmente le persone si ritrovavano per pregare in questo luogo per qualche motivo, non tramandato dal passaparola generazionale o semplicemente perché questo luogo così suggestivo e megalitico ispirava la devozione cristiana e prima erano forse dei culti pagani ad essere qui officiati.

C’è un’altra ipotesi, è probabile che la Giescia dei Tanizzi fosse un lazzareto, dove erano confinati i lebbrosi arrivati al cospetto degli antoniani della chiesa dell’Alpicella, che potevano con la carità cristiana e i loro unguenti, lenire le pene di quei poveretti.

Sarebbe interessante indagare anche sul toponimo Tanizzi, forse una parola composita, nell’idioma dialettale.

Tanussu, in ligure, è riferito agli abitanti della città di Loano, chissà forse una famiglia ingauna si era insediata in questa porzione di territorio.

Potrebbe anche derivare da un’assonanza dialettale, con la parola canizzi, soffitto di canne, che in questo caso supportato da lunghi legni, poteva fungere da tetto e offrire riparo in mezzo a queste rocce.

Un tetto per proteggere il bestiame, fu costruito nel corso della seconda guerra mondiale, per tenere all’asciutto e ben nascoste, mucche e maiali che potevano essere requisiti dai nazifascisti.

In questo luogo, forse furono benedetti gli animali qui rifugiati, come la tradizione vuole, il 17 gennaio festa di S.Antonio.

L’allevamento del bestiame era fonte di sostentamento per la gran parte della comunità dell’Alpicella.

Sempre depredata, dalle soldataglie di passaggio.

La Giescia dei Tanizzi non è da annoverare nella conta delle chiese di Varazze, manca di quei simboli che la identificano come luogo di culto, anche se non è da escludere l’officiazione di riti religiosi

Assolutamente sconsigliato avventurarsi senza una guida, in questo luogo, sbagliando il punto di entrata nel bosco, si rischia di arrivare, al bordo superiore della Giescia dei Tanizzi, con il rischio di cadere nel vuoto.

Voglio ringraziare chi ha reso possibile questa descrizione di un luogo suggestivo, poco conosciuto del nostro entroterra. Giovanni Ratto ( John Ratto) e il mio collega Piero Sala, che mi ha accompagnato in questo suggestivo luogo.

Nota dell’autore

Gli articoli sono di libera fruizione e possono essere utilizzati in copia, previa comunicazione e citando la fonte, in alcun modo ne deve essere modificato il testo.

A Mina

Casanova

Casanova fine ‘800 primi anni del ‘900.

Omonima, forse lontana parente del GB Cerruti, il re dei Sakai, era la famiglia, che dopo diverse compravendite ed espropri, si imposesso’ dei terreni detti Sciandria, Canain e Troggi, che erano confinanti con il terreno della Torrazza, quello ereditato da Geronima Molinari.

Ma anche su questi possedimenti gravava un legato perenne o cappellania (era la volontà di un fedele, che con un lascito o con i proventi della locazione di una sua proprietà, dava ordine perenne ad officiare la celebrazione di un numero x di messe ogni anno e per sempre per la sua anima ) questo legato era in favore di un antenato dei precedenti proprietari, Pietro Damele, detto Peano, la cappellania fu istituita nel 1773!

Festa al Beato Jacopo

Anche la Geronima Molinari, insieme ai beni ereditati aveva l’onere di un legato perenne in favore di Giacomo Molinari istituito più recentemente nel 1813.

Le due famiglie i Cerruti e i Molinari interruppero il pagamento di questi oneri nel 1880 e furono minacciati di scomunica dal clero, in loro era però forte la convinzione religiosa, fino al punto di decidere di unire le forze e le spese per costruire una chiesa, dove esercitare la loro devozione.

Di questa chiesa, resta solo un rudere, ma la Madonna della Guardia di Casanova in località Torrazza, doveva avere un aspetto imponente e importante, con la singolarità di un edificio a pianta esagonale.

Non si hanno notizie dell’esistenza di un campanile, forse diruto, oppure la chiesa era, molto probabilmente, munita di un campanile a vela.

Questo è l’ipotetico racconto, del dialogo fra i rappresentanti delle due famiglie Cerruti e Molinari, unite dopo la decisione di comune accordo, per costruire la chiesa.

“Ma alua, quanto ci custa, far sta giescia? Che tantu nesciun preve vorrà neanche passarci da luntan?”

“ Ho parlou cun i Ciurè e i Furtuin, quelli sun bravi massachen e in gamba e ci hanno detto, che ci ciappan poche palanche, perché vogliono farci un capolavoro, una giescia cun sei muagge! Che tutti quelli che la vedranno ci restano tanto bene e loro ci fanno una bella figua”

“ Va ben ma tuttu questu, pe non paga’ le messe? Megiu pago 60 franchi l’anno che fo sta giescia !”

“Tu parli cuscì perché cantavano le messe a to nonnu, ma pensa paga’ per far dir delle messe a un mortu cent’anni fa! Che manco sai chi era e che nesciun, manco u se ricorda ciù, se era ertu, piccin, brovu o stundaiu biundu o neigru!”

“Ti ghe rasciun! Ma se nu demmu e palanche ai previ ne dan a scumuniga a tutta a famiggia, cumme han fetu cun i Camuggi, pe l’equa dell’ortu de S.Dumenigu!”

“ Ma se i Camuggi sun ancun tutti vivi! E ci hanno detto che aua, ci hanno in più le palanche che davano prima alla giescia!”

“Cosa disce Mina ? ( Geronima Molinari)”

“ A l’è arraggiou quando i previ gan ditu, che se non paga, pe le messe a va all’infernu ! Alua a ga ditu, che u Segnu, va a pregarlo nella sua giesa!”

“Perù sti previ… ciappan tante de quelle palanche pe dì na messa, i besagnin ghe portan galline e cuniggi e a Vase tanta frutta e verdua per guagnarsi il Paradiso che nessuno sa se u ghe! Gan ville e terren da tutte e parti! Sun ciù ricchi che u papa !E poi ste vusci che d’han recattu a quarche dunetta?”

“ A Mina a l’ha ditu, che de palanche da Turassa, finchè tira il fiato i previ non ne vedranno mai ciù”

Ma le cose finirono diversamente, dalle intenzioni espresse. Geronima Molinari fu colpita da un grave lutto famigliare, con la morte dell’unico figlio e poi rimase vedova con la morte del marito Bernardo Recagno.

In vecchiaia fu curata da Maria Fiorito mandata a servizio, presso la sua abitazione, proveniente da Grognardo AL, sposata con Pietro Balza, divenne la proprietaria del patrimonio di Geronima Molinari che per i servigi e la compagnia ricevuta, prima la prese in adozione e poi la dichiarò nel 1922 sua erede universale, un anno prima della sua morte.

A questo punto per quei strani inspiegabili eventi della vita che a volte ritornano, Maria Fiorito rinnovo’ il legato, interrotto nel 1880 e le messe da officiare, furono dedicate all’anima della defunta Geronima Delfino.

Ciassa da Curia

Chissà se questa fu l’ultima sua volontà, una rivincita della Curia, nei confronti di questa donna ribelle, oppure un segno di riconoscenza della Maria Fiorito nei confronti della sua benefattrice?

foto b/n Archivio Fotografico Varagine.

A Giescia da Madonna da Guardia de Casanova

La Madonna della Guardia di Casanova? E’ un errore di traslazione o un teletrasporto?

Esiste veramente una chiesa con questo nome, a Casanova, in località Torazza, visibile dallo stradone, dopo la piazza di Casanova, oltrepassato il bivio con via Sciandra, arrivati ad una curva, sulla destra sopra un’altura, circondata dai ponteggi, si erge il rudere della Madonna della Guardia. .

Conoscevo l’esistenza di questo rustico, ora transennato, perché dichiarato pericolante, ma ne ignoravo la sua originale destinazione d’uso.

Con un messaggio, dopo la pubblicazione di un mio post sulla chiesa di Cristo Re, il compianto Mario Damele, nel 2021, autore di alcuni testi, pubblicati a cura dell’Associazione Culturale di S.Donato, ha aggiunto al mio elenco dei luoghi di culto, anche questo manufatto, risalente alla fine dell’800.

L’ho ringraziato per il suo gradito interessamento ai miei post di Cose de Vase e di avermi inviato un suo testo, pubblicato, sui quaderni di Storia Locale a cura dell’Associazione S.Donato, con il permesso di farne un sunto ad uso social.

Mario era una persona molto conosciuta e stimata, ha lasciato un caro ricordo come persona e studioso, i suoi scritti e le sue ricerche ci saranno sempre utili.

Grazie Mario.

Mi accingo a questo compito, sperando di riuscire a raccontare questa storia, magari banale ai nostri occhi, di uomini moderni, ma la banalità e invece propria dei nostri giorni, con tutte le cose futili e inutili che ci circondano.

A fine 800 e ai primi del 900, la società italiana era permeata e radicata a forti credenze religiose, che in ogni comprensorio comunale, a volte sconfinavano in vere e proprie vessazioni, da parte del clero, a scapito dei ceti meno abbienti, ma anche chi aveva beni e proprietà, non sfuggiva a queste ingiustizie, in punto di morte, per garantirsi un posto in paradiso, era giocoforza, fare un lascito alla chiesa o un legato, che in pratica consisteva quasi sempre come una sorta di abbonamento perenne, per officiare delle messe per l’anima dei parenti defunti, chi avrebbe mai osato interrompere tale obbligo condannando alle fiamme dell’inferno, un loro congiunto, anche mai conosciuto?

La chiesa della Madonna della Guardia di Casanova, ha una particolarità molto rara, per un edificio di culto è quello di avere una forma esagonale, questo denota una particolare maestria da parte di chi ha materialmente eretto questo manufatto, quasi fosse un capolavoro, da esibire per un mastro muratore e infatti “Una voce popolare ne attribuisce l’esecuzione materiale a muratori della famiglia Fazio detti i Ciurè e Furtuin che all’epoca abitavano nelle vicinanze erano gli stessi muratori che qualche decennio dopo con notevole perizia realizzarono l’abside tondeggiante della Chiesa di Cristo “ (cit. Mario Damele)

Il bel resoconto di Mario Damele scava nella storia tramite i passaggi di proprietà dei terreni.

Tutto ebbe inizio nel 1813, quando Giacomo Molinari detto Mondin, nel suo testamento istituì un legato, per il pagamento di 48 messe annuali pari a 60£/anno, da ottemperare tramite l’ esazione dell’affitto di un terreno così descritto: “ Una terra seminativa olivata vignata castagnativa e boschiva divisa in due, da una strada pubblica ivi compresa una casa denominata Torazza ossia da S.Sebastiano…segue l’elenco di tutti gli intestatari confinanti.

La rendita di questo terreno compreso la casa doveva garantire il pagamento perpetuo al parroco celebrante” (cit. Mario Damele)

Foto antecedente il crollo della cupola

Il resoconto prosegue e svela un’altra consuetudine, molto in auge in quegli anni, per non disperdere i patrimoni specie i terreni di famiglia, la regola era quella delle condizioni vincolate, per cui i testamenti erano validi solo se non subentravano altre famiglie, non consanguinee dell’eredità.

In questo caso, l’unica figlia Caterina, non ebbe figli e cosi tutti i terreni e proprietà del Molinari, che erano considerevoli, furono ereditate dai cugini. In particolare, il terreno denominato Torrazza, con il legato delle messe fu ereditato dal reverendo Carlo Molinari, che ampliò la sua proprietà a tutta la collina.

Foto antecedente il crollo della cupola

Gli eredi che gli succedettero, mantennero il legato, con il pagamento delle messe del loro avo deceduto nel 1813, fino al 1880.

Facendo due calcoli, furono celebrate circa 3200 messe per l’anima del povero Mondin, deceduto 67 anni prima!

L’erede universale, di tutti i terreni, case lasciti ecc. fu Geronima Molinari, lei si fece forte delle nuove leggi del giovane Stato d’Italia, che ridimensionarono i poteri temporali della chiesa, con confische ed espropri a danno delle istituzioni religiose e interruppe il pagamento del legato.

Ma chi osava non ottemperare a questi obblighi era minacciato di scomunica dalla Curia.

Un’altra famiglia i Cerruti di Varazze divennero proprietari di un terreno confinante, con la proprietà Molinari, anche loro con le stesse problematiche, con la minaccia di scomunica che pendeva sopra le loro teste, ma con sempre un radicato credo religioso.

Forse fu per riappacificarsi con Dio, che decisero di edificare una chiesa privata, dedicata alla devozione della Madonna della Guardia e aver così salva l’anima dalle pene dell’inferno.

L’edificio fu ultimato nel 1890, come si evince dalla scritta sbiadita sopra l’entrata.

Si hanno notizie di pellegrinaggi e processioni in occasione di rogazioni e nelle feste di S.Isidoro, S.Sebastiano, ma non risulta che siano mai state officiate delle messe al suo interno.

Alla sua morte Geronima, lasciò tutte le sue proprietà a certa Maria Fiorito, una giovane che l’aveva in cura e da lei adottata nel 1922.

Alla morte di Geronima Molinari avvenuta un’anno dopo, la Maria Fiorito Molinari rinnovo’ il legato delle messe, in favore dalla sua benefattrice, tale debito risulta ora estinto.

Con i Patti Lateranensi del 1929 cambiarono in favore della Chiesa le leggi restrittive che nel 1867 avevano regolamentato e ridimensionati i beni ecclesiastici.

Foto antecedente il crollo della cupola

Come cambiano le nostre prospettive, quando si ha conoscenza di fatti, storie, leggende e aneddoti!

E anche un’edificio, semi diruto come questo luogo di culto, diventa prezioso importante per la storia della nostra città

Penso a chi ha costruita questa chiesa, alla sua rivincita, verso un potere, quello religioso, che vessava i propri fedeli, approfittando della loro devozione.

Vorrei sperare che, con questo mio piccolo contributo, non vada persa, questa singolare testimonianza di fede del nostro entroterra.