A Cascina da Giomin

Un ‘altra delle meraviglie del nostro Monte, è questa cascina ben conservata, anche se priva di copertura, molto probabilmente un seccou da castagne, come molti altri, presenti nei nostri boschi.

Ma a Cascina da Giomin è conosciuta anche come Capanna Celtica, una delle poche rimaste nel nostro entroterra, con l’inconfondibile tipologia di questi manufatti, le grandi ciappe, posate a formare gradoni e poi altre ciappe a copertura della parte sommitale dei muri fronte e retro.

La copertura delle ciappe, protegge ottimamente la struttura in pria e pata, limitando il dilavamento del manufatto.

Queste ciappe, avevano anche una funzione pratica, agevolando le operazioni di copertura del tetto, che in origine era costituita da covoni di saggina.

Almeno tre date sono incise su delle pietre la più vecchia è del 1811

Sul capostipite un’altra data

A destra, dell’entrata una piccola costruzione era la can-va, il magazzino, dove conservare le castagne, formaggio latte o comunque viveri, qui la copertura era realizzata in ciappe, per evitare l’entrata di roditori o di altri animali.

All’interno la piccola finestrella e l’incavo per il lume ad olio

Nel muro, di pregevole fattura, sono inserite pietre di tipologie diverse, alcune pietre d’angolo di grandi dimensioni, provengono probabilmente, da qualche altro manufatto diruto.

Alcune cascine o abitazioni di tipo celtico presenti in questa parte dell’entroterra, sono state stravolte da coperture moderne, che ne hanno nascosto o modificato l’originale struttura.

Questa tipologia di costruzione è comune ad altre aree geografiche in Italia.

Il seguente link con cenni storici e foto descrive questo tipo di abitazioni

Fai clic per accedere a Case%20celtiche%20in%20Liguria.pdf

Mi guida alla ricerca di questo manufatto, Battista Perata.

Lasciamo l’auto al bivio per le Casermette e imbocchiamo la stradina opposta, quella de Prie de Berlando, la nevicata della settimana scorsa, ha lasciato dei residui di neve nelle zone in ombra e umide,.

Superiamo diverse smogge, in questa zona denominata le Cannette.

Poi si avanza calpestando uno spesso strato de giassu, fogliame.

E’ un bosco misto, di castagni e faggi, interrotto in diversi punti dai percorsi di downhil, e visto i segni lasciati delle ruote, molto praticati.

Il tratto pianeggiante, lascia il posto ad un versante molto acclive, dove è presente una foresta di pino nero, anche questa piantumata negli anni 30/40 dove insistevano delle zone prative.

Battista mi parla di questa grande opera di riforestazione e mi indica vari tipi di conifere, introdotte in fase sperimentale, alcune inibite nel loro accrescimento da un terreno poco adatto alle loro caratteristiche

Una variante di pino nero, dalla corteccia più fine, invece, ha ben radicato.

Ma una piantumazione sbagliata, ha lasciato poco spazio tra una pianta e l’altra oggi gli alberi adulti, formano strette e ombrose foreste.

In questa zona anche un rapace si è trovato a suo agio costruendo un grande nido.

E’ una bellissima fustaia con penolle, pali di almeno quindici metri.

Alcune di queste spettacolari piante di pino, hanno avuto la cima rotta da vento e ghiaccio, sostituita da incredibili tortuosi rami di ragguardevoli dimensioni.

Battista ricorda com’era questa zona, quando ampie zone prative, erano adibite a fienagione e pascolo, il bosco in prevalenza di castagni e faggi, forniva legna da ardere e castagne.

Mi fa notare quei bassi muretti, sotto ai castagni, che avevano lo scopo di fermare castagne e ricci, dopo la loro caduta per evitare che rotolassero lungo il pendio.

Il terreno, per facilitare la raccolta delle castagne, era mantenuto pulito, senza erba foglie o pietre.

Bello l’habitat che si forma, dove crescono i faggi, con le loro ramificate radici esterne

Battista, nei prati che delimitavano il bosco, come altri bambini imparò presto a seigò prima cun a messuia, falcetto e poi cun a scuria, falce.

Portava le mucche al pascolo e in questi boschi, da suo papà, ebbe i primi rudimenti, nel non facile modo, per governare le lese, pratico e insostituibile sistema di trasporto, in mancanza di strade e in presenza di forti pendenze, ogni tipo di traporto aveva la sua lesa, c’era quella per trasportare la legna quella per il fieno, all’occorrenza, le lese potevano essere modificate per altri trasporti .

E’ passato molto tempo, da l’ultima volta che Battista è stato qua, il bosco è un’essere vivente e insieme ai fenomeni atmosferici, trasforma in continuazione il suo ambiente, non sempre in meglio però, numerosi alberi giacciono a terra abbattuti da vento e neve, altri sono cresciuti e ostacolano il passaggio, a lato dei due butassi, quellu da Strinà e quello de Giomin.

L’unica nota, per così dire positiva, è quella relativa alle piante parassite, dove sono diradate, quasi nulle, le aggressioni della lelua, edera.

I butassi, ingrossati ad ogni acquazzone, molti anni fa, distribuivano l’acqua verso le zone prative, della sottostante zona, denominata, in Zimma ai Bricchi

Il termine Strinà, si riferisce all’uso del fuoco, in prossimità di questa zona, ad uso pascolo, era periodicamente incendiata una vasta zona prativa, il fuoco circoscritto fino al limitar dei boschi, lasciava dei residui di combustione, che velocizzavano la ricrescita vegetale, alimento per bovini e caprini.

Anche in Zimma ai Bricchi, foreste di pino nero, piantumate, ma qui nel versante lato Alpicella, sopra le Rocche di Giuse, è stato fatto un’ altro immane lavoro, bonificando un ripido pendio dal pietrume.

Le pietre di risulta, sono state accatastate in una trentina di cumuli, alcuni ancora eretti e da me documentati fotograficamente, altri diruti o predati delle pietre, per farne altri usi.

Su di un pianoro, la cascina de in Zimma ai Bricchi, trunea per ripararsi dai temporali.

Le piantumazioni di conifere, sul Monte Beigua, ma anche in altre montagne, in tutta Italia, avevano lo scopo di ripristinare le zone boschive, sparite per eccessivo consumo di legname, e dovevano essere propedeutiche per altre definitive piantumazioni, di caducifoglie rue, fo e anche ersci,.

L’eccessivo, nei secoli, prelievo di legname per i Cantieri Navali, aveva praticamente deforestato, il versante sud del Monte Beigua.

Come vettore, di rimboschimento, fu scelto il pino nero, per la sua frugalità e la crescita veloce, ma anche per la sua peculiarità, quella di produrre grandi quantità di humus, fertilizzando il terreno.

Ma questa è un’altra storia che racconterò in un mio prossimo post.

Lasciamo il Monte Beigua, mentre un magnifico tramonto, incendia il cielo.

Ringrazio ancora una volta Battista Perata, per avermi accompagnato a vedere un’altra meraviglia del nostro entroterra, una casa celtica, eretta in una zona ben conosciuta e da lui frequentata, per lavoro in gioventù, boschi e prati, da dove la sua famiglia, come tante altre, traevano la loro sussistenza.

Na Sciumea e quattru amisci

S.Dunò

Il nostro mondo era tutto lì, intorno al colle di San Donato, dove il fiume compie un’ampia curva, l’ultima, per poi riprendere la direzione giusta e scorrere verso il mare.

Il mare, invece era lontano, culturalmente, colpa forse delle mie origini e poi nessuno poteva accompagnarci e si diceva anche che prendere tutto quel sole, faceva male alla testa.

Allora meglio il fiume a due passi da casa e a tiro di voce quando il mangiare era pronto.

Bosin vistu da S.Dunò

Ora però non è più possibile raggiungerlo, perché due grandi muri di cemento, costruiti dal genio civile dopo l’ultima rovinosa alluvione, offrono protezione alle zone circostanti, ma ne impediscono, di fatto, l’accesso.

Quando ero bambino, invece lo si raggiungeva con facilità, davanti alla casa c’era il “campo” poco oltre iniziava un fitto bosco fatto di rovi e canne, il terreno ricoperto d’erba alta con le ortiche, che vanamente ostacolavano le nostre corse a gambe nude.

Vista di Busci e du Risulin

Degradando verso il fiume, il terreno diventava sabbioso,  ogni tanto qua e la spuntavano grosse pietre, intorno alle quali l’acqua scavava profonde buche.

Il fiume, in autunno faceva paura, per le sue piene improvvise e la notevole portata d’acqua, dopo un violento acquazzone.

D’estate invece l’acqua scorreva lenta e il fiume diventava luogo di giochi e passatempi, per noi bambini, poi a poco a poco con l’avanzare della stagione calda, diventava solo un rivolo melmoso e di solito asciugava del tutto e i pochi pesci, che erano rimasti intrappolati nelle pozze d’acqua, morivano saltellando nel fango.

A Ciusa da Besestra

Non erano bei tempi quelli, per quanto riguardava l’ambiente, il fiume era inquinato e nelle sue acque si trovava di tutto, a volte anche roba interessante e fantastica agli occhi di un bambino!

Ma a monte erano in piena attività alcune cartiere, la cromatura del Pero, numerosi scarichi fognari e il mattatoio del Parasio, i cui scarti di lavorazione delle carni galleggiavano sull’acqua e se rimanevano bloccati fra due sassi, erano consumati sul posto da un nugolo di mosche nere e vermi biancastri, emanando un tanfo nauseabondo percepito a parecchi metri di distanza.

Non mancavano le discariche improvvisate, lungo le cui scarpate, noi bambini ci arrampicavamo, sempre alla ricerca di qualche “tesoro “, che il solito sprecone aveva gettato via.

A Fabrica e orti da Lumellina

Per completare questo scenario apocalittico, nel fiume finivano anche gli scarichi del Cotonificio, che tingevano le acque del fiume con colori pastello, ma quelli fortunatamente erano più a valle.

La voglia di giocare era però immensa, e non si badava a queste cose.

D’estate a piedi nudi, con i pantaloncini corti, un coccio di bottiglia o una pietra aguzza, prima o poi nell’arco della giornata la si rimediava sempre.

Segheria Aonzo poi Cromatura del Pero

Ma ripensandoci oggi, quelle ferite e quei tagli, si rimarginavano quasi subito, come se le piastrine del nostro sangue,  che hanno il compito di coagulare, fossero allertate, quando noi eravamo a giocare in quel luogo, per noi paradisiaco, ma per loro apocalittico, pieno di nemici da combattere.

Eravamo sempre in preda ad una frenesia incontenibile, che solo il calar del sole o il grido di una mamma sul terrazzo di casa, interrompeva, con la concessione però di un’altra dilazione, perché si era sempre intenti a fare qualcosa di non procrastinabile.

In un pomeriggio di molti anni fa, io fui letteralmente “salvato dalle acque “.

Da u Punte di Frati nuvembre 1968

Non ho un ricordo nitido dell’accaduto e in parte questo ricordo, lo devo a chi poi me lo ha raccontato.

Ricordo però la grossa pietra piatta che, proprio al centro del fiume, fungeva da approdo e partenza delle nostre barchette di legno.

Di solito l’acqua che scorre sotto grosse pietre ha una certa profondità, sufficiente quindi a creare un serio pericolo per un bambino.

Riuscii comunque a gridare quando caddi in acqua, mentre la corrente mi trascinava via verso la cascata.

In preda al panico non riuscivo a trovare un appiglio, una qualsiasi sporgenza per fermarmi.

E con la bocca aperta nel tentativo di chiamare aiuto, ingurgitai qualche sorso d’acqua.

Per mia fortuna però attratta dalle grida, arrivò una donna, una vicina di casa, abbandonò le borse della spesa, non esitò un istante, entrò in acqua e mi afferrò saldamente, trascinandomi fuori della corrente, poco prima del salto della cascata.

Probabilmente fatale per un bambino, visto anche la presenza del grosso buco sottostante,  tuttora visibile.

Quel giorno, però arrivato a casa, tutto bagnato, raccontato l’accaduto e lo scampato pericolo, sono stato “scaldato”, ma non dalla reazione chimica che genera una fiamma ma da un’altra reazione di tipo “ fisiologico”.

Gli adulti erano molto meno propensi al dialogo, rispetto a oggi, e guai a disubbidire o a combinar qualcosa di storto!

In seguito dell’accaduto, per un certo periodo mi fu interdetto l’accesso al fiume.

U Punte du Rissulin nuvembre 1968

Crescendo, altri giochi e passatempi erano “consumati” lungo il corso del fiume.

Ad esempio la caccia ai “mungagi”, le bisce d’acqua, che specialmente nel periodo estivo popolavano il corso d’acqua facendo strage di pesci e rane.

Appena si avvistava il malcapitato, silenziosamente, era circondato e dopo il segnale convenuto, un vero e proprio bombardamento, con pietre e massi si abbatteva sul rettile, il quale nella vana speranza di salvezza abbandonava l’acqua guadagnando la riva in cerca di riparo nella vicina vegetazione.

Questo di solito gli era fatale, ed erano inutili le sue movenze quando un colpo più preciso degli altri gli spezzava la schiena.

Al termine della caccia, come un trofeo, i serpenti erano appesi a un bastone e portati con un certo orgoglio, in visione agli adulti.

Via Montegrappa da Pelosi nuvembre 1968

Anche la direzione del fiume subiva la nostra “violenza” con sbarramenti fatti di terra e pietre, si deviava il corso dell’acqua, creando degli invasi dove le nostre barchette erano al sicuro dalla corrente.

Eravamo specializzati in queste costruzioni, di solito lo scafo era ricavato direttamente dal pieno di un pezzo di legno, di solito d’abete, materiale tenero che poteva essere lavorato con lo scalpello, un foro al centro serviva per alloggiare l’albero maestro.

Qui erano appese le vele, ricavate da ritagli di stoffa, fissati con filo da cucire, per evitare il ribaltamento, una deriva di piombo era fissata con dei chiodi sotto lo scafo.

Non erano però imbarcazioni da regata, bensì vere e proprie navi da guerra.

Una volta messe in acqua, da riva noi bambini, simulavamo i tiri di cannone con piccole pietre che alzavano spruzzi d’acqua, come avevamo visto disegnato in qualche giornalino.

Non mancavano le liti quando un tiro maldestro colpiva una di queste imbarcazioni strappando le vele che con tanta cura erano state sistemate.

O peggio quando una pietra fuori norma spezzava l’albero maestro….

A questo punto vigeva la legge “occhio per occhio- dente per dente “, e lo stesso danno con l’aggiunta di rabbia, era rivolto alla barca avversaria.

S’innescava a questo punto una reazione a catena, il cui esito finale, spesso era la completa distruzione dei manufatti, canale e diga compresi, in preda ad un furore incontenibile si distruggeva tutto e ci si lasciava giurando di non vederci mai più!

Passavano così alcuni giorni, un paio al massimo, poi ci si ritrovava nuovamente nel fiume all’inizio com’estranei, poi con un pretesto qualsiasi di nuovo insieme.

U Teiru d’estè

La pesca era un altro momento di svago, d’estate, quando il fiume stava quasi per asciugare del tutto, quello era il momento della caccia alle anguille, che lasciavano le pozze fangose in cerca d’acqua pulita, ma era un’impresa catturarle.

Riuscivano sempre a sgusciare via, costruimmo anche un paio di pinze rudimentali, in legno, ma erano mastodontiche e poco maneggevoli.

Uno di noi, Massimo, ebbe in regalo una vera canna da pesca, con tanto di mulinello, era una vera novità, abituati a pescare con le mani sotto le pietre, o lanciando dei sassi nell’acqua.

Ora, invece, si poteva adescare il pesce comodamente seduti su una pietra.

Un giorno decidemmo che il miglior collaudo, era una battuta di pesca al “lago scuro” Risalimmo a piedi il corso del fiume.(Il lago in realtà è  una pozza d’acqua profonda che  non asciuga mai, neanche in piena estate, poiché e scavato dall’acqua  nella pietra, l’aggettivo è però appropriato, l’acqua è scura  non si vede il fondo). Si favoleggiava la presenza di pesci enormi.

Dau Laguscuu

Ripenso oggi al rischio di scivolare in acqua, di battere il capo sulla roccia, e nessuno di noi capace a nuotare.

Non fu una pesca fortunata, solo un piccolo cavedano dopo qualche ora di noiosa attesa. All’arrivo d’alcune persone, per attirare la loro attenzione, il pesciolino ormai morente fu riattaccato all’amo e gettato in acqua.

Successe tutto all’improvviso la piccola canna si piegò in modo esagerato per il peso di quel pesciolino, una grossa anguilla attratta dalle movenze del pesce morente, lo inghiottì con un sol boccone, rimanendo a sua volta intrappolata nella lenza.

U Laguscuu

Mi precipitai ad aiutare l’amico, la lenza resistette miracolosamente e così anche la canna, tirammo fuori dall’acqua un bestione enorme, probabilmente da qualche anno padrone di quella pozza d’acqua.

Certamente una fine ingloriosa, sconfitto da due inesperti ragazzini, alle prime armi nella tecnica della pesca.

Grande fu lo stupore della gente che assistettero alla scena.

Dau Laguscuu

Non fu facile slamare quel pesce, si contorceva con vigore e dopo poco fu quasi completamente avvolto nella lenza che si trasformò nella temuta “parrucca “incubo di tutti i pescatori con la canna.

Poi con una grossa pietra lo colpimmo ripetutamente finché rimase immobile a quel punto, lo trasportammo non senza qualche difficoltà sulla strada, dove nel frattempo si era radunata una piccola folla.

Fu cucinato in umido dalla mamma del nostro amico, una porzione spettò di diritto anche a me, ma dopo la seconda forchettata rinunciai disgustato dal sapore grasso e d’acqua stagnante che avevano le sue carni. 

foto Archivio Fotografico Varagine.

Va Ase

Vase perche’ a se ciamma cusci’?

Uno dei Numascelli, u diva che pe far star buoni i figgiò, anche quelli più seotti, che maniman andavan a bagnarsi doppu mangiò, raccontava la favola di Beppe, Marinin e u bagarellu, qui arrivati dalla Spagna, dopo la fuga d ’Egitto e il deserto.

I figgio’ erano tutti assetati in Caabraghe, a stare a sentire il vecchio dalla pelle cumme i baggi per le tante primavere passate, che lui diceva che si era scordato, ma potevano essere 100 o 110!

A votte anche u Baci, u se fermava, a senti ste cose, che tutti anche e prie , saveivan, che u stava aspettandu u drappo ciancu, foa dal barcone de Cateinin a so galante, e allora lui schersava cun u Numascelli e ci diceva “ma ciantila li de cuntà de musse ” e se ne andava verso i quattro recanti tirando dei calci alle prie.

Il racconto non era sempre uguale a volte cominciava da Leicana’ quando Beppe faceva salire Marinin sull’ase, altre volte era già au Muntado’ e vedeva il mare che si avvicinava sempre di più, poi arrivato in tu Pasciu, doveva stare attento, che li c’erano i surdatti romani che ci piaceva arrostire le bestie e volevano mangiarci l’ase, ma Beppe, che era diventou n’erbu da gotti, perché ci aveva un cruccio grande in testa…… già, aveva portato del buon vino de Aquilianum e cosi lo diede al centurione e lo fecero passare.

Ma i figgiou, aspettavano sempre la fine, quando arrivato nel Borgo e visto la bandiera con la civetta del capatassu, Beppe disse “ Malus augellus!” che poi oggi è ancora Malocello.

E giro’ l’ase verso Teiro per beive na votta e domandare che posto era quel borgo di case, ma e donne aveivan destese le lensuola sulle prie, e ci avevano paura che le rovinasse e alua bragiarono forte “Va ase, va ase” che lui pensò fosse u numme du paise.

A stu punto u Numascelli, pe far ridere i figgiou, se mettiva a fo u versu dell’ase, ma tanto ben che l’ase du mulitta, dau staggiu, ci rispondeva sempre!

Beppe visto che gli tiravano anche le prie, se ne scappo’ via con l’ase la Marinin e u bagarellu.

E quando raccontava dove era stato diceva Saona, Alba Docilia… Vase… (Fu così che nacque il nome della nostra citta’ Vase!)

I figgiou a quei tempi erano contenti cun pocu, stavano bene cun i vegi e ci volevano bene, la loro demua era quella del Teiro, dove correvano tutti insemme facendo u versu dell’ase.

Buona giornata

La stesura di questa leggenda ( in zenagliano parlato, da noi bambini negli anni 60) è stata effettuata, anche descrivendo stralci di vita di molti anni fa, e riferimenti tratti da“Lanzerotto Malocello, il conquistatore di Lanzarote di Ermanno Sommariva

foto: Archivio Fotografico Varagine

A Prea Scriccia de Verne de Bilai

Due delle più antiche, consunte strade, oggi consegnate all’oblio degli uomini, che valicavano la nostra montagna, u Beigua, verso il Sasselese, si trovano, una nell’area di Fo Lungo, parallela al tratto iniziale del Teiro, e l’altra in direzione du Cian du Curlu, parallela au Frascinoa, il rio Frasinelle.

Valichi naturali, con percorsi pianeggianti, che aggiravano i contrafforti ovest del Monte Beigua e conducevano oltre giogo.

Fo Lungo è zona adibita al taglio del bosco e a seguito della costruzione di nuove strade, funzionali per il taglio e trasporto della legna, si sono perse le tracce dell’originale tracciato, che si ritrova per una discreta lunghezza , in vista del Teiro.

Strada di Fo Lungo

La strada, che corre parallela al Frascinoa, invece conserva buona parte dell’antico sedime di pietre.

Zone di valichi montani, di transito e scambio di merci, di persone e animali al pascolo.

Se percorriamo queste antiche strade, specie nel periodo invernale, l’assenza di foglie sugli alberi, permette ampie viste nelle foreste di faggi e castagni, ed è impossibile, non accorgersi delle antiche frequentazioni umane.

Il ricordo dei nostri avi, il nome di una località di una casa o di un seccou si è perso negli ultimi anni, e con esso non ricordiamo più le loro fatiche e gli stenti patiti, sui nostri bricchi e nei boschi che fornivano i fabbisogni necessari alla sussistenza di centinaia di famiglie del nostro entroterra.

Chissà perchè gli anziani, detentori del sapere hanno smesso di raccontare, o meglio perchè, nessuno ha chiesto più nulla della loro vita delle loro radici e delle loro tradizioni, dimenticando tutto, nel volgere di un paio di generazioni.

Le conoscenze primordiali, furono perse per il mancato radicamento di esseri umani sul territorio.

In principio erano solo tribù nomadi, magari stanziali per qualche periodo e poi in cammino alla ricerca di cibo, poi arrivarono i primi insediamenti fissi con i ripari sottoroccia i castellari e villaggi di capanne.

Ma come afferma Battista, ci si accorge, in questi boschi, di un vuoto storico, come se per secoli queste montagne fossero state abbandonate, si passa dai simboli classificati come del neolitico, età del bronzo/ferro, ai simboli di un cristianesimo, che forse o senza ombra di dubbio, ha cancellato del tutto, distrutto o inglobato, precedenti simboli pagani, abitazioni e sepolture di quel popolo, che governava tutto il mediterraneo nord occidentale, i Liguri, sconfitti, umiliati e deportati dai romani.

Rocce incise, affilatoi, primitive incisioni e scritte più recenti.

Pietre a formare il selciato de stra da lese, che hanno lasciato il segno del lori andirivieni sciu e su dai bricchi.

Massi spaccati, accatastati a formar provvidenziali trunee, dove rifugiarsi dai temporali estivi.

Ripari sotto roccia per passare le notti, protetti dalla madre terra.

Pose, cumuli di pietre dove posare lensò o belaini-ne de fen o fasci de legna, per qualche minuto di sollievo.

Muggi de prie, che spesso si incontrano girovagando per boschi, che cosa erano, forse dei castellari o la risulta della bonifica dalle pietre, per creare zone prative?

E quei recinti di pietre? Zone sacre o recinti per animali?

Ho telefonato e incontrato, Battista Perata, classe 1947, per parlare degli Armuzzi, case celtiche ecc. il discorso divaga e si finisce a parlar di Africa, dove anche lui e andato come volontario, presso una missione, a Bangui nella Repubblica Centroafricana.

l’ex casermetta della forestale

Si ritorna nel nostro piccolo mondo e mi propone la visita, ad una pietra scritta/affilatoio, strategicamente posta in una zona di probabili battute di caccia.

Si parte in un’uggioso pomeriggio di novembre, da Alpicella, con la nebbia che avvolge la cima del Beigua, ma noi deviamo, versu u Teiru e u Sansoggia, con l’auto fuoristrada, del figlio Marco, una rassicurante L20, in direzione delle Casermette e prima di arrivare al Bric Al Berti, si prosegue a piedi.

Battista fa da guida e racconta la storia di questi boschi, che conosce come le sue tasche. Nel Bric Al Berti regna il pino nero, piantumato durante il ventennio, per colonizzare un tratto senza vegetazione, azione propedeutica, all’introduzione del faggio, ma l’operazione fu interrotta o meglio abbandonata, a seguito dei tuoni di guerra e ora resta un intrigo di alberi, di alto fusto, tutti uguali, che non offrono nessun punto di riferimento per ritrovare la via del ritorno!

Si cammina per almeno mezz’ora, superata la cima del bric Al Berti, si inizia a scendere, in direzione de Rive de Mrziu, ora sono i faggi a farla da padrone

Seguiamo un ruscello e poi una antichissima strada, quella che prosegue per il Curlo e valica l’Appenino.

La strada con il suo originale selciato, in prie de costa, arriva al cospetto di una grande solitaria formazione serpentinocistica, tutta fittamente incisa,intagliata e forata da centinaia di coppelle.

La roccia, occupa una parte della sede stradale e crea un dosso, punto obbligato di passaggio, è ad altezza giusta, pe posò a schenna, per posare pesanti fardelli, riprendere le forze e continuare per la propria destinazione.

Al disotto della strada, una rientranza e una grande lastra abbattuta, fa pensare alla presenza di un possibile riparo per pastori o cacciatori, che secondo la tesi di Battista, assolutamente verosimile, in questa posizione dominante, attendevano gli animali, costretti a transitare in una strettoia tra il Brica Al Berti e la Frascinoa

L’ipotesi caccia è evidente dagli innumerevoli affilatoi presenti sulla roccia, sembrano creati da mani impazienti, nervose in attesa delle ambite prede, forse sospinte messe in fuga dalle loro zone di pascolo, verso questo agguato, dalle urla e rumori di donne e bambini .

Le armi servivano per finire e scuoiare gli animali, che erano verosimilmente abbattuti o menomati, dal lancio di pietre e massi, probabilmente prelevati dalla soprastante cava di pietra a spacco.

Negli spazi, sulla superfice della pietra, lasciati liberi dai lunghi solchi, ci sono piccole o grandi coppelle, forse usate per intingere gli utensili nel grasso o acqua, per meglio far scorrere durante le operazioni di affilatura attrezzi o armi.

Per quanto relativo al mistero delle coppelle, diverse ipotesi possono essere prese in considerazione, potevano avere una funzione matematica, con la conta degli elementi di una mandria o segnare quante volte si era passati da quel punto, se presenti su di una superfice orizzontale, essere dei contenitori per i più disparati usi, non si esclude un uso rituale o una sorta di mappa celeste degli astri.

Oppure tralasciando il nostro ottuso, modo moderno, di giustificare ogni cosa, con la logica del profitto o della convenienza, potrebbero essere i segni fatti per ingannare l’attesa dell’arrivo di una preda o semplicemente un beato passatempo!

Nelle zone della pietra, non adibite all’affilatura, sono presenti innumerevoli cruciformi, con coppelle o senza dei primi cristiani, che hanno cancellato qualche segno a Phi, simboleggiante l’essere umano, molte scritte, date e iniziali.

La tecnologia è d’aiuto, ingrandendo le foto, si scoprono in secondo piano, indelebili segni di molte precedenti incisioni, spesso perse per la sovrapposizione delle scritte, ad un attento esame, si evidenzia la figura di un ominide, segni circolari ovali.

Quelle quattro linee parallele, forse erano il contorno delle dita di una mano.

Battista e il figlio Marco Perata

Starei ancora a osservar ogni piccolo segno inciso su questa pietra ma si rischia di far notte!

Ricerco sul web la catalogazione di questa pietra, non trovando riscontri, decidiamo io e Battista, di darle il nome del toponimo locale, A pria scrita de Verne de Bilai. (Verne sono gli alberi di ontano e Bilai, bilan sono così chiamati i cocci.)

La presenza di una piccola svastica, fa pensare ad una passaggio o un stazionamento di truppe nazifasciste, durante il secondo conflitto mondiale.

In questo punto vi era un posto di osservazione e di seconda resistenza, come quelli del Bric del Dente e della Rocca della Biscia, era di vitale importanza sorvegliare questi valichi, per garantirsi un’eventuale ritirata a piedi, in direzione del Giovo Ligure e della pianura Padana, in caso di sabotaggio della strada carrabile.

Da questo punto di osservazione si poteva avere il controllo anche del passo di Fo Lungo

Mi arrampico in direzione di quella cava de prie sciappè e mi imbatto, sopra una posizione sopraelevata, in una piccola postazione di difesa/osservazione.

Ma chissà chi u l’avià impilatu tutte ste prie, surdatti du novesentu o dell’ottusentu?

Ai primi dell’ottocento sul Monte Beigua e dintorni si scontrarono le truppe francesi e austro ungariche, durante la seconda Campagna d’Italia, e a costruir un piccolo fortino prelevando le pietre che erano già presenti o demolendo un precedente manufatto, ci voleva molto poco.

Lasciamo e Verne de Bilai e risaliamo le pendici del Bric Al Berti, la luce diurna è diminuita notevolmente, la nebbia per fortuna è rimasta sulle cime degli alberi.

Con Battista e Marco, strada facendo raccogliamo qualche sanguin

Infiniti ringraziamenti a Battista e Marco Perata, per quest’escursione nei boschi ho potuto ammirare un’altra meraviglia del nostro entroterra, non solo quella pietra ricca di storia, ma anche quel tratto di strada, ancora ben conservato, percorso da chissà quanta altra gente nell’andirivieni attraverso questi valichi.

Un’antica strada, che avrà visto passare tante volte Giulio u Biscazè, al secolo Angelo Perata, classe 1916, il papà di Battista, che la percorreva due volte la settimana, in qualsiasi condizione di tempo, partendo dall’Alpicella, per arrivare alle scuole di Sassello, dove era bidello, e nella stagione fredda arrivava alla scuola, quando ancora era buio, per accendere le stufe, riscaldando quelle gelide aule, in attesa dell’arrivo degli scolari.

Ritratto su maiolica di Giulio u Biscazè

Storie di altri tempi, dove per lavoro, ma anche in occasioni di festività o altro, era normale raggiungere località, anche distanti, attraversando per sentieri i nostri bricchi, a volte anche in minor tempo, rispetto ad avventurosi viaggi, con le prime auto in circolazione, su strade sterrate e dissestate.

Nincek

Gianni Iannelli

L’Anpi di Benevento, il 21 maggio del 2020, ha voluto ricordare, con una relazione di Mario Cimmino “Il Partigiano Nincek, Gianni Iannelli, dal Sud ai monti della Liguria”

Ufficiale dell’esercito, fu inviato nella carneficina jugoslava, presso la città di Dobrova.

Dopo l’8 settembre, tutti i militari italiani, che non vollero collaborare, con l’esercito nazifascista, diventarono IMI, Internati Militari Italiani, privi dello status di prigionieri di guerra e impossibilitati a ricevere gli aiuti dalla Croce Rossa Internazionale, dopo il 23 settembre del 1943, con la liberazione di Mussolini e la fondazione della repubblica di Salò, ai soldati italiani, fu chiesta l’adesione alla RSI, la maggioranza oppose un netto rifiuto a questa richiesta, furono così interdetti all’utilizzo degli aiuti del SAI, Servizio Assistenza agli Internati della RSI, che aveva molta disponibilità di viveri, ma che li forniva solo a chi si fosse arruolato con i fascisti.

Iannelli era tra quelli, che rifiutarono quell’invito, i militari renitenti furono prelevati dal fronte jugoslavo e internati nel campo di concentramento di Deblin in Polonia, nello Stalag 307.

Il campo era denominato la fortezza della morte.

Le condizioni di vita erano disumane, all’arrivo dei convogli, i soldati italiani erano obbligati a restare inquadrati, nella grande piazza della fortezza senza alcun riparo dal freddo, pioggia o neve, con temperature che erano anche a -30° l’unico cibo che ricevevano, era del pane, confezionato con una farina di legno paglia e erba, la fame portava alla disperazione e furono molti i fenomeni di cannibalismo, divenne uso, cibarsi del fegato umano, la parte molle, più facile da estrarre dai cadaveri.

Gli ufficiali pur avendo lo stesso trattamento, furono separati dai soldati semplici e non costretti al lavoro.

Diverso fu il destino riservato agli altri militari, chi non era in grado di lavorare nei campi, era fucilato, ma a decimare gli internati, furono anche le epidemie di tifo.

Alla RSI servivano degli ufficiali e fu fatto della bieca propaganda, da parte dei fascisti, che con atteggiamenti paternalistici e ricattatori, parlando personalmente ai graduati, delle loro famiglie rimaste in Italia, bisognose e lasciate senza protezione, in balia di eventuali ritorsioni.

E’ stato calcolato che circa il 32% degli ufficiali detenuti, accettarono di aderire alla RSI.

Non furono decisioni facili, ci furono delle discussioni fra di loro, alcuni decisero di ritornare in Italia aderendo alla RSI per paura delle minacce e delle ritorsioni verso i propri famigliari, altri come Iannelli, orfano di padre e unico sostegno famigliare, aderirono anche per testimoniare la terribile realtà degli IMI, ma in loro era già maturata la decisione, che mai avrebbero combattuto una guerra civile in Italia, come quella che avevano scatenato i nazifascisti dopo l’8 settembre.

Furono inviati in Germania, per l’addestramento e l’inquadramento nella divisione S.Marco.

Il generale Princivalle, agli ufficiali, fece intendere che al rientro in Italia, ognuno di loro, doveva agire secondo la propria coscienza.

Il tenente Iannelli

Nella primavera / estate del 1944, Gianni Iannelli, fin dalla fase di addestramento dei San Marco, in Germania diede un addestramento morale ai propri soldati, educandoli ad un’idea antitedesca.

Era buono e cordiale, con i suoi uomini e il suo plotone, l’intera compagnia, lo guardava con ammirazione e simpatia, proprio per questo si attirò l’ostilità e poi il deferimento dei superiori, Iannelli fu denunciato, dal suo diretto superiore Dragotti, di essere antifascista.

Riuscì a difendersi dall’accusa e a conservare il grado di ufficiale, anche se privato del comando, che gli fu restituito, solo per la cronica mancanza di ufficiali.

Fu destinato al comando di un plotone di S.Marco a Varazze, con compiti limitati alla vigilanza e difesa, da un’eventuale invasione via mare.

Le città costiere, erano ritenute strategiche, per la difesa del litorale, ma dovevano essere presidiate, soprattutto per mantenere libero il transito verso i passi appenninici, che garantivano le vie di fuga, verso la pianura padana delle truppe nazifasciste.

Conosciamo gli ultimi quattro mesi, della vita di Iannelli, grazie al libro di De Vincenzi e Maurizio Calvo “Quelli di fischia il vento” con le preziose testimonianze di Goffredo Conte, Ruggero Podestà, Raffaele Calvi e Gianni Gambetta.

Quando erano nella fase di addestramento, Iannelli prospettò già ad alcuni suoi soldati, la possibilità di diserzione, dopo il rientro in Italia.

Nell’estate del 1944, il numero di marò, che disertavano e si univano alla resistenza, cresceva di giorno in giorno.

I partigiani accoglievano di buon grado gli ex S.Marco, visto il loro addestramento all’uso delle armi, e furono inquadrati nelle formazioni partigiane, dove diedero un importante aiuto alla Guerra di Liberazione.

Prima di accettare, nelle loro formazioni, chi aveva lasciato la S. Marco, per i Partigiani serviva avere un incontro diretto, “guardandosi negli occhi”, solo una reciproca conoscenza, avrebbe potuto determinare l’accettazione o meno di quei ex soldati nei file dei Partigiani.

Tratto da racconto di Raffaele Calvi quelli di Fischia il vento

La zona dell’incontro fra Gianni Iannelli e Renato Calvi in una foto dell’epoca.

Per l’incontro tra i partigiani e l’ufficiale dei S. Marco, Gianni Iannelli, che aveva manifestato la volontà di abbandonare il suo comando, fu scelto per la sua prestanza fisica, un giovane partigiano di 19 anni Raffaele Calvi “Nilo” il quale, pur conoscendo bene il territorio del comune di Varazze, fu accompagnato nei pressi del luogo dell’incontro, da Ruggero Podestà, Nilo conobbe Gianni Iannelli, in prossimità dei Piani di Invrea (a metà dell’attuale via Helvetia) e cosi ricorda quell’incontro: “Avevo la pistola in tasca e questo mi dava sicurezza, il giovane ufficiale che avevo davanti era armato, portava il cinturone con la fondina da cui intravedevo il calcio di una pistola.”

Oggi, la zona dell’incontro fra Gianni Iannelli e Renato Calvi

“Ci scrutammo in silenzio, per qualche secondo, lungo come una vita, poi mi tese la mano, presentandosi, parlando brevemente della sua famiglia del fratello rimasto a casa, più fortunato, perché non aveva sofferto la disgrazia di essere deportato in Polonia nel campo di concentramento di Deblin e poi in Germania addestrato, per essere inquadrato nella San Marco, aggiunse che dovevamo combattere, contro il nazismo e il fascismo, usando le armi, senza più sopportare passivamente galera confino, umiliazioni e soprusi come quelli patiti da internato.”

A crosa de via Elvetia

“L’ufficiale aveva occhi e carnagione con i tratti tipici meridionali, mi parve accennasse ad un sorriso, ma non ci giurerei, Iannelli continuò a parlare della sua famiglia di Benevento e poi della S. Marco, dichiarando di essere stato nominato ufficiale, in quanto laureando in lettere e iniziò ad esporre, il suo piano, sul quale stava lavorando da settimane, in poche parole disse che intendeva abbandonare il presidio, portando con sé un certo numero di marò, decisi a disertare per combattere a fianco dei Partigiani.”

Furtin da Crosa de via Elvetia

Qui finisce il resoconto di quell’incontro, in ta crosa, che dau rian su Sciarsu arrivava al mare. Il partigiano Nilo fu anche reclutato clandestinamente nei S. Marco come cuciniere, per poter meglio organizzare la fuga dei marò.

Furono 32, i marò che seguirono Iannelli per partecipare alla Guerra di Liberazione, Gianni Iannelli, divenne così il partigiano Nincek, inquadrato nella VI Brigata Partigiana, distaccamento Bocci, di cui prese il comando.

Fu fondatore e redattore del notiziario “Pioggia e vento”

Si distinse in diverse operazioni, comandò l’occupazione temporanea, di Bragno e Pontinvrea.

Il 28 ottobre, festa del Fascio, sabotò la linea ferroviaria Savona- S. Giuseppe, facendo deragliare in piena galleria, un treno tedesco, recuperando un ingente quantità di vestiario, prodotti alimentari e bloccando per alcuni giorni questa linea ferrata.

Nella notte, tra il 2 e il 3 di novembre, il distaccamento Bocci, si cimentò in un’azione di rilievo, dopo una marcia forzata di circa 60 km, in condizioni meteo pessime, Nincek al comando di 80 Garibaldini, accerchiò un bunker, nei pressi di Varazze e disarmò i 23 marò, che lo presidiavano e li convinse ad aderire alla causa partigiana, rafforzando così gli effettivi del distaccamento Bocci.

Il primo e il sedici novembre del 1944, ci furono due grandi rastrellamenti fascisti, tanto devastanti, da indurre il comando della seconda Brigata, a ripiegare su Osiglia, il secondo ancora più a vasto raggio, tra il 28 e 29 novembre, portò alla dispersione di tre distaccamenti partigiani, i Sambolino, Wuillermin e Bocci e in uno di questi rastrellamenti, il 16 novembre, fu catturato Gianni Iannelli, non si conoscono i particolari della sua cattura, non c’è una assoluta certezza di come si sono svolti i fatti, mancando qualsiasi testimonianza certa.

Ma secondo Maurizio Calvo nel suo libro “Eventi di Libertà” il partigiano Angelo Baeli “Moro” racconta una sua versione dei fatti, Nincek era andato a trovare una ragazza, conosciuta Varazze, ma probabilmente era stato riconosciuto e qualcuno, una spia, aveva avvertito la San Marco, che gli tesero un agguato sulle alture di Varazze, in un luogo imprecisato, tra Sanda e i Piani d’Invrea e ucciso il 28 novembre 1944.

La data dell’uccisione di Nincek, concorda con quella di Goffredo Conte, mentre per il il ministero della guerra, risulta deceduto il 28 dicembre 1944.

Libertà, giustizia e verità, non sono concetti astratti o slogan, ma valori, che provengono da quella lotta, dal sangue versato per ideali di pace, fratellanza e benessere sociale, contro ogni fazioso criminale egoismo.

Il comandante del distaccamento Bocci, Gianni Iannelli ex Tenente dei San Marco, una medaglia l’avrebbe meritata o quantomeno, la sua città e Varazze, avrebbero dovuto ricordarlo, dedicandogli una strada, ma anche solo una carrareccia, uno di quei sentieri senza importanza, che portano in montagna o scendono al mare, la motivazione?

Ebbe il coraggio, di fare una scelta.

Gianni Iannelli Nincek, riposa nel cimitero di Altare.

La storia di Gianni, in una riflessione, fondata sull’analisi dei fatti e della supremazia della ragione sull’odio, è anche un’esortazione, a sfuggire alle tentazioni della violenza, del fanatismo, dell’odio razziale, religioso o di opinione, che sono come un piano inclinato, che scivola verso la disgregazione, la povertà fisica e intellettuale, ieri causa dei campi di sterminio, un domani causa di altre tragedie.

“Tuttavia sfogliando le pagine sbiadite, ma incancellabili del libro dei ricordi, alcune più intense, altre meno o molto dolorose e tragiche, mi ritorna chiara l’immagine dello sguardo e del viso di quel giovane ufficiale, venuto dal sud e del breve periodo, in cui fummo fianco a fianco, dell’ultima volta che ci lasciammo, con un arrivederci all’incrocio di un sentiero e infine la notizia che l’avevano fucilato.”

U Pin Grande

Zona du Pin Grande oggi.

“Iannelli è stato ucciso dau pin grande”, un’albero che si ergeva a lato mare del tratto, in discesa della strada romana, prima della vista di Varazze. “Il corpo senza vita di Nincek, fu trasportato con una lesa, (un carro senza ruote) in città.”

Questa è la testimonianza di Lina Ghigliazza, ancora oggi abitante in località Vignetta.

Ricorda, i mazzi di fiori sul luogo dell’esecuzione, periodicamente rinnovati, posati vicino a quella grande pianta e quel cartello, con su scritto, Via Iannelli, affisso sopra la lastra di marmo, che ai piedi della salita, indica l’inizio della Strada Romana.

Gh’ea na otta a Vignetta

Di ritorno dai Funtanin, alla Vignetta facciamo un incontro fortuito, con Lina Ghigliazza, classe 1938 molto gentile e sempre disponibile a ricordare le vicissitudini di questa zona della città.

Io e Germano restiamo, nei pressi della sua abitazione, alla Vignetta, per quasi un’ora ad ascoltare i racconti di Lina, con la storia della sua famiglia e delle persone che si sono avvicendate tra i Funtanin, i Cianetti, Cian Retin, Cian du Tunno ( Lina mi conferma questo nome in sostituzione del mio Timmu) la Fellonica, dove era la seconda grande vasca per irrigazione e poi quella grande casa patronale della famiglia Camogli .

In questa parte della città, c è un pezzo di storia di quella che era, una delle più potenti famiglie di Varazze, i Camuggi.

I Camogli erano proprietari di ampie zone all’Aspia, in ta Camminò e dau Munte Grossu.

In queste foto la grande casa patronale, costruita dai Camuggi poi ceduta ai Passega e ora con un’altra proprietà. Questa grande dimora signorile, si trova in una località denominata Fellonica, al disotto du Cian du Tunnu.

Lina ricorda il viale di quella grande tenuta, con i bellissimi roseti, i gazebi con i tavolini e le sedie, il pergolato a ombreggiare la terrazza con l’immancabile glicine e quell’enorme palma, recisa un paio d’anni fa perché aggredita dal punteruolo, quella palma, dove i suoi nonni oltre un secolo fa, posarono per una foto.

Tutto il terreno verso mare del monte Grosso era di proprietà Camuggi che spartivano la cima dell’odierna Madonna della Guardia, con gli Invrea dei Cianetti e a famiggia Delfin.

Sotto la supervisione dei Camogli, furono costruiti i terrazzamenti dei Funtanin, scavata quell’opera di presa, da noi resa nuovamente visibile, un’invaso un canale di sottopasso e tutte quelle opere idriche che in un terreno molto acclive e poco permeabile, raccoglievano le acque piovane regimentandole in bei deviandole con delle paratoie per riempire le vasche du Cian du Tunnu, qui l’acqua era prelevata e inviata ad una capillare rete de surchi per irrigare gli orti.

Sempre, al cospetto degli innumerevoli manufatti, della nostra citta e del suo entroterra, penso chi erano le persone che hanno costruito na ca, na mascea, un beo o na crosa e come è stato possibile averne perso la memoria, non conoscere piu’ la loro storia, i loro nomi.

Domenico Parodi e Angela Bruzzone (foto di Lina Ghigliazza)

Il nonno di Lina, Domenico Parodi classe 1860, lavorava come manente du Cian du Tunnu e dei Funtanin, dove si coltivava prevalentemente grano e patate.

La crisi del 29 ebbe gravi conseguenze per i commerci della famiglia Camogli, che si vide costretta a vendere queste proprietà acquistate dalla famiglia Passega.

Lina ricorda con affetto, lo zio Benedetto Parodi detto u Grigò, che perpetrò l’attività del padre, manente au Cian du Tunnu.

Bello ascoltare Lina Ghigliazza dei Feipi, con i suoi ricordi, spesso legati al conflitto mondiale storie di sfollati, di rifugi antiarei, poi sempre tanto lavoro, quello della generazione dei nostri padri e madri, capaci con la sola forza delle loro braccia e di un pezzo di terra strappato ad un pendio, trarre sostentamento e tiò sciu niè de figgi.

Quando ogni cosa era importante, come u giassu il tappeto di fogliame dei boschi, da adoperare come giaciglio nelle stalle, si partiva al mattino presto e si aspettava il sorgere del sole, dalla chiesa della Madonna della Guardia, bisognava far presto, prima che il padrone di quei boschi si svegliasse, con il rischio di essere colti in flagrante, a raccogliere quel prezioso prodotto del sottobosco.

La località Vignetta, stupendo anfiteatro sul mare, nel corso del conflitto mondiale, fu requisita dai tedeschi, che stavano fortificando la Riviera Ligure e avevano costruito un grande bunker nella parte alta della località Mola.

Nei terrazzamenti della Vignetta era accampato un reparto della Wehrmacht avevano eretto delle tende, tra cui una grande tenda comando, requisirono alcune abitazioni, tra cui la casa natale di Lina, che fu adibita a posto di osservazione costiera.

La famiglia Ghigliazza fu sfollata e trovò rifugio nella grande casa patronale dei Passega, dove già lavorava lo zio Benedetto.

Lina racconta del carattere bonario, di quelle truppe tedesche di stanza alla Vignetta, nei confronti di loro bambini.

Non ci furono screzi, anche quando i soldati tedeschi dividevano l’appartamento con i residenti, avevano riguardo verso le persone anziane e i gli sfollati, potevano ritornare alla Vignetta a coltivare i loro campi.

Non fu così quando dopo il 1943 progressivamente i soldati tedeschi abbandonarono la piazzaforte della Vignetta, sostituiti da militari italiani molto meno riguardosi verso i civili.

Lina ricorda il suo stupore, di una bambina di sei anni, quando vide piangere un soldato tedesco, grande e grosso, in procinto di partire , addolorato di non veder più quei bambini della Vignetta, che tanto gli ricordavano la sua terra.

Nel natale del 44 le famiglie sfollate della Vignetta, fecero ritorno alle loro case, la guerra per i nazifascisti era definitivamente persa, non ci fu quel temuto sbarco alleato sulle coste liguri, le truppe alleate, con lo sbarco in Provenza e l’avanzata della quinta armata americana, verso La Spezia, stavano per stringere in una morsa la Liguria.

La nuova strategia era quella del si salvi chi può e i nazifascisti pensarono solo a proteggere la loro ritirata oltre il Giovo Ligure.

Un regime agonizzante, assettato di vendetta, giustiziò sommariamente Gianni Iannelli, il comandante partigiano Nincek, colpito a morte dai suoi aguzzini, al cospetto del grande pino, poco prima dell’ultimo pezzo in discesa, della via Romana, in vista di Varazze.

Lina ricorda, che fu un cugino del padre u Cicin, Giusto Giobatta, che raccolse il cadavere di Nincek e lo trasportò, sopra una lesa, in città.

La scritta, Strada Romana fu coperta da un cartello, con su scritto Via Iannelli

Gianni Iannelli “Nincek”

“Nincek” Gianni Iannelli, nativo di Morcone BN, che dopo varie vicissitudini, divenne un capo partigiano e si ritrovò suoi nostri monti a combattere contro il nazifascismo

Passatempi di bambini, ignari degli orrori della guerra, padroni di quel meraviglioso lembo di terra chiamato la Vignetta, anche giochi pericolosi, come quelli effettuati sui bordi delle peschee a tirar pietre a rane e rospi, dove l’unico deterrente, per scongiurare i pericoli di una fatale caduta in quelle pozze di acqua stagnante, erano i racconti degli adulti, che favoleggiavano la presenza nelle peschee, della Rampan-na, una creatura che viveva in quelle acque scure e melmose, pronta a ghermire bambini e animali.

Personaggi nobili a cui menar rispetto,ma ironicamente chiamati con dei nomignoli, come la sorella della marchesa d’Invrea, conosciuta come a Cavagea derivante dalla cava di gea, da ferrovia che aveva la famiglia Invrea a Puntabella.

Un’aneddoto raccontato da Lina è relativo a G.B. Camogli sindaco di Varazze dal 1884 al 1901

Amministratore di larghe vedute, a lui si devono alcune migliorie della città, tra cui l’illuminazione stradale.

Ma l’utilizzo di risorse pubbliche, per illuminare le strade, fu causa di una violenta protesta popolare, la gente scese in strada al grido di “Famme e lusce” , come dire a Vase abbiamo le luci ma abbiamo fame

Questa minacciosa sollevazione popolare, lo costrinse a scappare nottetempo, dalla sua abitazione e a rifugiarsi, in una delle proprietà dei Camogli sotto au Cian du Tunnu o Timmu, nella zona della Vignetta.

Ringrazio ancora una volta, Lina Ghigliazza, capace di raccontare con dovizia di particolari, storie di lavoro, famiglie legate a questo bellissima parte della nostra città .

Le foto b/n di Varazze sono tratte dall’Archivio Fotografico Varagine

E Strie de Vase

Oggi 25 novembre è la “Giornata Mondiale per l’Eliminazione della Violenza Contro le Donne”.

Ci fu un periodo storico, nel 1600, che le donne furono perseguitate con le accuse di stregoneria e le violenze fisiche e verbali su di loro legalizzate, da un clima di caccia alle streghe, che colpì anche il nostro territorio, la città di Varazze.

Ringrazio il sig. Giuseppe Testa e le sue sempre interessanti pubblicazioni, da cui ho estratto, a mio parere, le parti più significative di un post sulla credenze popolari, di mia prossima edizione.

Il bel resoconto di Giuseppe Testa, narra di due casi di caccia alle streghe, nella nostra città, documentati nel suo “La magia popolare nei verbali dell’Inquisizione della Diocesi di Savona (XVI – XVII secolo)

Condivido il suo pensiero, per la perdita della trasmissione generazionale, una grave mancanza, per le nostre future generazioni, che è necessario cercare di ricucire.

Le Streghe di Casanova

Il primo di questi casi, riporta una serie di accuse e credenze tipiche dell’epoca (la borsa verde, i piedi di rospo, i gatti che nottetempo spengono i lumi, i ciuffetti di capelli attorcigliati ecc), questo caso rivela probabilmente un tentativo del marito di far accusare la propria moglie per “liberarsene”, in una sorta di divorzio all’italiana “ante litteram”, producendo finte prove, attinte dalle credenze dell’epoca.

Di questa oscura vicenda, sappiamo che i principali accusatori della donna imputata sono i suoi parenti acquisiti, legati alla famiglia del marito, e alcuni suoi vicini di casa.

E’ ipotizzabile, il sospetto che sia stato un tentativo di creare prove credibili, per montare una accusa di stregoneria contro la donna, Caterina Damele, con la sua borsa verde contenente una foglia di castagna, certi capelli lunghi di donna inviluppati con dei piedi di rospo e l’accusa di inviare un gatto a spegnere nottetempo il lume della vittima del maleficio.

Dopo qualche tempo Caterina Damele, fu Enrico è trovata morta in Teiro.

Il suo corpo era immerso nell’acqua. ma il dottore dichiarò che era stata uccisa, perché aveva molte ferite alla testa che non potevano essere causate da una caduta.

È interessante notare che, a pochi anni dal processo intentato contro di lei per stregoneria, undici testimoni avevano accusato l’uomo, a favore della donna.

Il ruolo del vicario è importantissimo per la risoluzione secondo giustizia della vicenda.

Egli risulta senz’altro in grado, per via del fatto che opera già in mezzo a quella comunità, a comprendere i risvolti sociali dei coinvolti.

La seconda storia tratta di malefici sui nascituri, e di avvelenamento da cibo (la classica mela di Biancaneve): di questa vicenda al momento ne ignoriamo gli esiti finali.

Le prove contro la presunta strega Bernarda sono di tipo più classico.

Due testimoni, Antonio Calamano e Giovanni Molinari, sostengono che la donna gli abbia maleficiato i rispettivi figli.

Nel primo caso Calamano sostiene che la presunta strega, toccando in modo particolare (da dietro) la pancia di sua moglie incinta, avesse provocato la morte del nascituro.

Nel secondo caso Bernarda offrendo una mela avvelenata alla bambina, ne mette la vita in pericolo.

La questione si era risolse quando il Molinari, minacciando di morte la donna, aveva ottenuto un rimedio magico per la bimba.

Anche in questo caso la documentazione si interrompe, lasciandoci all’oscuro delle fasi successive, ma sicuramente queste testimonianze ci raccontano pratiche fortemente radicate nella cultura locale.

L’Associazione Culturale “San Donato” di Varazze aveva pubblicato nel 2004 questo materiale archivistico, proveniente dall’archivio diocesano di Savona, a firma Mario Damele.

I documenti prevengono dagli atti della curia criminale, sono pubblicati sul Bollettino parrocchiale della medesima parrocchia e sono datati “prima metà del 1600”.

L’esorcismo di San Nazario

In una lapide murata nella sacrestia di S.Ambrogio è tramandata la memoria di un padre esorcista, che esercitò nel 1632 a Varazze.

Nel 1620 il parroco di San Nazario, esorcizzò Maria Perietta, posseduta da ben dodicimila spiriti!

La cronaca di questo esorcismo, fu tramandata con grande enfasi da uno scritto di Tito da Ottone, con tanto di solenne promessa, da parte degli spiriti malvagi, che mai più sarebbero entrati nel corpo della poveretta.

Fu anche depositato un atto con cui si affermava l’avvenuto esorcismo, il 28 aprile del 1620, alla presenza di una decina di testimoni, prescelti tra le personalità più illustri della città, non si hanno notizie di quali furono le spese e i ricompensi ricevuti

Nulla anche della sorte della povera Maria, guarita dalla possessione malvagia, chissa’ quale sarà stata la sua vita, se si era maritata, diventando nonna di molti nipoti a cui perpetrare la paura del demonio, oppure avesse finito i suoi giorni in un convento “consunta di una malinconia che nessuno seppe mai conoscere”.

Le due datazioni non coincidono, l’esorcismo di Maria Perietta fu esercitato nel 1620, mentre la lapide di Sebastianus Beneventus padre esorcista reca l’anno 1632, ma del suo operato a Varazze presso la parrocchia di S. Ambrogio, reso noto da questa lapide, non si ha notizia ne’ di quanti e quali furono, gli esorcismi praticati, in quell’anno, nella comunità parrocchiale, la più grande di Varazze.

Dell’esorcismo di Maria Perietta esiste anche un’opera pittorica, conservata nell’ufficio parrocchiale di San Nazario, dove nella tela è rappresentato il parroco Don Sciora, mentre esorcizza la donna, raffigurata in basso a sinistra, in proporzioni minori, assistita da un uomo e una donna, mentre sta vomitando dei diavoletti neri.

Questo accadeva secoli fa nella nostra città, Caterina, Bernarda e Maria accusate di stregoneria e di diavoleria.

Le loro storie sono pervenute a noi tramite documentazioni parrocchiali.

Solo di una se ne conosce il tragico finale, perchè fu trovato il colpevole della sua morte , ma delle altre, del loro proseguo di vita, nulla è stato scritto.

Ma è verosimile che la loro vita, in una comunità rigida e fortemente radicata nelle convinzioni religiose, sarà stata tribolata e la loro presenza in pubblico mal tollerata o non permessa .

E chissà quante altre donne, avranno subito accuse e maltrattamenti, perchè su di loro era concentrato il controllo, di una società, soggiogata, terrorizzata dai poteri forti, in primis quello ecclesiastico.

Emilio Vecchia

Medaglia d’argento al valore militare, Emilio Vecchia è nato il 12 dicembre 1924 a Castelleone (CR), fu fucilato il 24 novembre 1944 nel greto del torrente Teiro nelle Tascee, difronte alla località S.Anna .

In suo onore, fu intitolata la brigata autonoma “ Emilio Vecchia ”, una delle cinque brigate costituenti la Divisione Garibaldi Mingo.

Lo ricordano una via nel comune di Varazze, una lapide lungo la strada, soprastante il luogo dell’esecuzione, ed un’altra a Milano, in piazza Villapizzone.

L’Italia, nelle guerre mondiali, aveva un’esercito, dove erano costretti ad arruolarsi, perlopiù contadini e boscaioli, perchè di buon comando e già avvezzi ad una vita tribolata.

Anche Emilio, era di famiglia contadina e per sottrarsi alla chiamata alle armi, si rifugiò a Milano.

Fu catturato, durante una retata alla ricerca dei renitenti di leva e costretto ad arruolarsi nella X Mas. Destinato in Liguria dove era stato attuato un poderoso sistema difensivo nell’illusione di ostacolare un’eventuale sbarco degli alleati .

Mario Traversi nel suo libro “Una Generazione Irripetibile” lo ricorda come un giovanotto, allegro e simpatico, giocava a pallone, in divisa mimetica estiva, con i ragazzi du Suò, nel tratto di spiaggia dove ora sono i Bagni Paolina, aveva un carattere giovale, era benvoluto da tutti.

Si sapeva che era uno dei tanti ,che si erano arruolati nella Repubblica di Salò solo per sfuggire ai campi di prigionia in Germania.

Entrò in contatto con i partigiani e si unì a loro portando con sé molte armi. Fece parte della divisione Mingo.

Commise qualche ingenuità e fu catturato a seguito di una delazione, imprigionato in località Cadan-na, all’interno di un’opificio, nei pressi della frazione Pero, fu torturato e minacciato di morte perchè rivelasse i nomi dei suoi compagni

Non fece nessun nome e venerdì 24 novembre del 1944 davanti alla Ca Russa de Tascee fu fucilato

Ora regna l’incuria e il degrado naturale, di un manufatto, destinato alla rovina, presto la vegetazione la fagociterà del tutto. Ma a Ca Russa de Tascee dovrebbe essere un luogo della memoria, per noi e per le future generazioni.

Nelle foto il probabile itinerario con le ultime cose che avrà visto quel ragazzo di vent’anni, non ancora compiuti, prima di essere trucidato, dalla barbaria nazifascista: a Cappella de S.Anna e Tascee, il lago di Preustin, a diga u beo e quella Ca Russa.

Ma forse non era neanche cosciente, perchè sfinito dalle torture e i suoi aguzzini, lo avranno trascinato a forza, verso il luogo prescelto per la sua fucilazione.

Legato mani e piedi, con un cavo elettrico, ad un’albero di verna, ontano, la sua giovane vita fu stroncata da colpi di arma da fuoco.

Dopo la fucilazione, fu lasciato lì, perché il suo cadavere, fosse visto e essere da monito a chi transitava lungo la strada soprastante.

Alcuni passanti e abitanti del luogo, furono obbligati a guardare a lungo quel corpo senza vita, legato ad un’albero, laggiù in Teiro, davanti alla Ca Russa.

Fu un’inutile barbaria, uccidere un ragazzo di vent’anni, ormai la guerra era persa già dal 1943, ma un regime di vanagloria, continuava a uccidere chi combatteva per la Libertà dal fascismo, internava e deportava nei campi di sterminio i dissidenti gli ebrei e i nemici del popolo.

Quel popolo i cui figli erano mandati a morire in nome della patria, solo per avere un pò di morti per vanteria con l’alleato tedesco.

La fucilazione di Emilio Vecchia, fu decisa anche, per porre fine alle continue diserzioni tra le file dei S.Marco.

Serviva incutere il terrore della morte e la scelta di effettuare l’esecuzione di Emilio Vecchia, alle Tascee, fu fatta perchè in quei grandi terrazzamenti era accampato un reparto di soldati italiani.

Su quell’albero di ontano dove fu legato Emilio Vecchia a guerra finita, fu posta una targa commemorativa.

Solo un’eccezionale piena, quella del Teiro nel 1968 è riuscita a sradicare quell’albero, ma era già un’albero vecchio e malandato.

U Giu du Briollu

Passato l’abitato del Pero, prima di arrivare in località Verne, “u giu du Briollo” era lo spauracchio, per chi, come la mia famiglia andava in direzione del Sassello.

Era la curva più famosa di Varazze, fino ai primi anni 70, quando la discarica della città, che qui operava, fu chiusa e interrata.

Ricordi di bambino quando mio papà avvisava di chiudere i finestrini, perché stavamo per arrivare “au giu du Briollo”!

Qui sotto alla spazzatura, scaricata dai “camion da rumenta” ardeva un fuoco perenne, con il suo fumo, reso pesante dalla mancanza di comburente, che ammorbava le zone circostanti e comunque entrava lo stesso in auto, nonostante le precauzioni prese e così fatte alcune curve, era necessario aprire i finestrini per arieggiare l’abitacolo.

Era un fumo denso a volte giallognolo e nelle giornate di maccaia, non saliva in alto, si fermava ad altezza d’uomo e questo rendeva spettrale percorrere quel tratto di strada, specie con il buio e le luci dell’auto.

Fu scelto questo sito di stoccaggio dei rifiuti urbani di Varazze, in corrispondenza della curva del Briollo, perché a lato del rian che scende “dau Cian da Giescia”era presente un profondo avvallamento che sarà poi riempito di rifiuti ,

Questa discarica in prossimità della statale del Giovo, era funzionale alla nostra città negli anni 50/60 quando ancora non esisteva la società dei consumi e la quantità di rumenta era a misura d’uomo.

I camion avevano uno spiazzo per far manovra e dopo aver scaricato l’immondizia, una ruspa cingolata provvedeva alla movimentazione del cumulo di rifiuti.

Una piccola costruzione in laterizi, in posizione sopraelevata, svolgeva la funzione di controllo/ufficio e di riparo per gli addetti alla discarica.

I rifiuti non erano differenziati e non esistevano regole o divieti e tutto poteva essere qui scaricato, ma nonostante l’esistenza di questa discarica pubblica di libero accesso,era molto più semplice e pratico scaricare i propri rifiuti ingombranti o derivanti dalla propria attività lavorativa, direttamente nel Teiro.

Innumerevoli erano le discariche improvvisate lungo il fiume, tanto poi con le piene autunnali tutto era smaltito in mare!

Quando la buca fu riempita, la discarica fu “messa in sicurezza” ricoperta di terra e chissà quanti veleni oggi al bando sono ancora lì interrati.

Le foto illustrano lo stato attuale dell’ex discarica, come si può vedere, gli sversamenti di rumenta sono proseguiti, anche a discarica chiusa, ci sono grandi quantità della solita onnipresente plastica, tante bottiglie di vetro pneumatici rottami in ferro che completano questo habitat.

L’unica nota positiva, è quella relativa alla datazione di questi abbandoni di rifiuti, che risalgono a qualche anno fa, oggi sembrano cessati, o avranno trovato altre vie, chissà dove.

La natura nel suo incessante moto di riposesso di ciò che gli era stato tolto sta lentamente fagocitando tutte le nostre risulte di attività umana

I Funtanin

L’appuntamento con Germano e alle 8, presso la sua casa du Cian du Tunnu, dopo caffè e focaccia, ci inerpichiamo lungo il ripido pendio alle falde du Munte Grossu.

Qui sono ancora visibili, le grandi opere idriche che tramite dei bei raccoglievano le acque piovane e le convogliavano in due peschee.

L’ambiente è quello servegu dei nostri bricchi , con un’incredibile biodiversità della macchia mediterranea, pin, zeneivi, ruette, ersci, brughe, murtin, ruvei, zenestre, canne, fighi, lelua ecc.

La presenza di qualche posa, diruta, è indicativa delle soprastanti zone, un tempo coltivate, ma anche di luoghi di fienagione e di raccolta pigne.

Nel link allegato è descritto u Cian du Tunnu o Timmu e il nostro primo tentativo, per trovare la sorgente, fallito a causa dell’eccessiva vegetazione.

Andiamo alla ricerca da vinvagna dei Funtanin, nell’omonima zona, siamo nel versante sud du Munte Grossu.

Con una grande movimentazione di terreno è stata captata una sorgente, per uso potabile, resa fruibile, presso la casa du Cian du Tunnu, con la posa in opera di una tubazione da 3/4″ lunga almeno trecento metri,

I resti del tubo in ferro, a tratti sostituito, con una tubazione in plastica, ci guidano verso i Funtanin.

In certi punti, si avanza a stento tra ruvei, brughe e pini marittimi.

Non senza difficolta, individuiamo la zona della vinvagna e a colpi di messuia, marasso e de tesuie, liberiamo le opere murarie, dall’abbraccio della vegetazione, in parte rinsecchita e con un grande albero abbattuto.

Davanti a noi, si svela, poco alla volta, il pozzetto di raccolta, con una grande pietra piatta che fa da architrave, altre pietre all’interno formano un stretto cunicolo.

All’interno della sorgente si può introdurre un braccio.

Nell’opera di presa è presente un lento stillicidio d’acqua, la causa dell’esiguità di questa vena d’acqua, è stato l’abbassamento della falda, a seguito del traforo ferroviario negli anni 70, deleterio per tutte le vinvagne della Vignetta e dell’Invrea.

Ma quando è stata intercettata, la portata della sorgente, era discreta e l’acqua era inviata ad un invaso, che fungeva da abbeveratoio, oggi quasi del tutto interrato.

Qui inizia un canale, che sottopassa il piano di calpestio, del terrazzamento, quasi impossibile da individuare a seguito della vistosa presenza di rampicanti

Liberato dalla vegetazione, ecco l’ingresso del canale.

Questa è la partenza della tubazione che arrivava au Cian du Tunnu.

Una persona poteva entrare nel cunicolo per operazioni di pulizia

La nostra “spedizione” ha avuto successo! Meritata pausa focaccia in una delle poche radure, presenti in questi terrazzamenti, completamente invasi da alberi di alto fusto e dalle eriche arboree, che precludono la vista mare.

Qui ai Funtanin, si possono ammirare grandi opere murarie, di sostegno degli ampi terrazzamenti, intervallate da rampe di accesso, dal canale dell’acqua e anche una cascina diruta E’ evidente che chi ha realizzato questo grande complesso, era un committente in possesso di grandi risorse finanziarie, in grado di utilizzare un gran numero di mano d’opera, piccaprie cavatò e manenti.

Probabilmente i terrazzamenti, erano in fase di espansione verso u Cian de Donne

Sempre, al cospetto degli innumerevoli manufatti, della nostra citta e del suo entroterra, penso chi erano le persone che hanno costruito na ca, na mascea, un beo o na crosa e come è stato possibile averne perso la memoria, non conoscere piu’ la loro storia, i loro nomi.

Tutto il terreno verso mare, del monte Grosso era di proprietà Camuggi che spartivano la cima dell’odierna Madonna della Guardia, con gli Invrea dei Cianetti e a famiggia Delfin.

Sotto la supervisione dei Camogli furono costruiti i terrazzamenti dei Funtanin, fu scavata quell’opera di presa, da noi resa nuovamente visibile, creato un’invaso, realizzato un canale di sottopasso e tutte quelle opere idriche, che in un terreno molto acclive e poco permeabile, raccoglievano le acque piovane, poi tramite canali, regimentati con delle paratoie, riempivano le vasche du Cian du Tunnu, qui l’acqua era prelevata e inviata ad una capillare rete de solchi, per irrigare gli orti.

Vicissitudini commerciali a seguito della crisi del 29, costrinsero i Camogli a vendere queste proprietà, alla famiglia Passega, oggi è un altra famiglia la proprietaria di queste aeree.

Il ritorno è nella valle du rian da Moa, dove si è al cospetto di uno dei più bei panorami della nostra città, la neve in lontananza ha imbiancato le vette delle Alpi.

Si scende il sentiero in direzione della Vignetta, poco prima dell’innesto stradale, a sinistra la grande vasca per l’irrigazione, dove arriva la tubazione che preleva l’acqua di falda nella galleria del treno.

Ringrazio l’amico Germano Gadina, di questa bella mattinata, insieme abbiamo “riscoperto ” i Funtanin a cui sono legate le storie non solo dei potenti i Camugii, Passega o Invrea, ma anche e soprattutto delle famiglie, nostri concittadini che hanno tratto sostentamento, in questa porzione, bellissima, della nostra città