25 maggio 2020.Oltrepassato il prato delle felci, sempre proseguendo in discesa, si arriva ad un boschetto di faggi, Francesco è sicuro che la zona è questa e dopo alcuni minuti di ricerca, eccola “A Nevea de Prie Russe!”
E’ più grande di quello che mi sarei aspettato di vedere, ha le forme di una cisterna, con un diametro di almeno tre metri la profondità stimata, visto il tappeto di foglie e terra presenti sul fondo, sarà non meno di cinque metri.
In alto ben conservato è visibile il canale di immissione della neve, manca una porzione di muro, demolito in tempi recenti, per estrarre un toro caduto all’interno della neviera, l’opera muraria non è stata più ripristinata e così oggi è possibile scendere, lungo la discesa, creata per far uscire l’animale e raggiungere il fondo.
Dal basso si notano altri particolari, l’ottima esecuzione della muratura e i fori lasciati nei muri, che erano funzionali a sorreggere una scala in legno, solitamente nelle vasche, costruite per approvvigionamento idrico, erano posizionate delle pietre sporgenti, che fungevano da scala, ma nella neviera, probabilmente, avrebbero ostacolato l’utilizzo della copertura mobile in legno e paglia.
Mi meraviglio sempre di fronte a dei manufatti in pietra, ma questo è veramente mirabile, dalle dimensioni ragguardevoli, immagino l’immane lavoro fatto per costruire questa cisterna, in primis lo scavo che per ovvie ragioni doveva essere molto più grande, delle dimensioni finali e poi le pietre trasportate e messe in opera a secco, dopo aver costruito una struttura circolare con pali infissi nel terreno, come armatura.
Chi erano gli uomini, quelli che l’hanno costruita? Dispiace aver perso la trasmissione generazionale storica di quest’opera, meritevole di valorizzazione e soprattutto da conservare per il futuro, un altro patrimonio del nostro entroterra!
La neviera de Prie Russe è una tipica neviera dell’appenino ligure, dove la neve, compressa e immagazzinata, restava in attesa della stagione calda, quando serviva per la conservazione degli alimenti e per uso medico.
Il trasporto della neve come raccontato dagli anziani era effettuato tramite “le corbe” da trasportare a spalla fino alla sottostante “stra de lese”, le corbe erano rivestite all’interno con la “natta” il sughero dell’omonima località di Celle, che fungeva da coibente per ritardare lo scongelamento, portata in piazza alle Faje era caricata sui carri e trasportata in città.
L’usanza di impiegare neve e ghiaccio, delle nostre montagne, per raffreddare le bevande sulla tavola delle famiglie più facoltose e per la conservazione delle cibarie nei conventi, era divenuta piuttosto comune in Liguria soprattutto tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo.
Il commercio della neve a Genova era un’attività importante, al punto che nel 1625 la città di Genova applicò un’imposta sull’importazione della neve.
A Genova c’erano diversi magazzini di stoccaggio di questo bene un antica usanza che ha lasciato come ricordo il nome a una via del centro storico della città, il Vico della Neve.
A questo punto per il ritorno raggiungiamo l’ex strada Faje Prato Rotondo o quel che rimane di una bella viabilità panoramica non eccessivamente ripida, percorsa innumerevoli volte in sella alla mia montain bike, un tempo era possibile raggiungere Prato Rotondo anche in auto, con un fuoristrada o con un’auto “da battaglia”.
Oggi la strada a seguito di frane e dilavata dall’acqua è percorribile solo a piedi.
Ringrazio Francesco Canepa, amico, collega e del 58! che mi ha accompagnato a vedere questa opera testimone silente, abbandonata in un bosco ma significativa del lavoro e della storia delle nostre genti.
Nella seconda metà dell’800, una terribile malattia, colpì e annientò gran parte degli oliveti e dei vigneti.
Fu l’inizio di un periodo catastrofico, per l’economia della città.
Poco tempo dopo anche i due principali settori, su cui era basata l’economia della nostra cittadina, entrarono in crisi e nel volgere di un trentennio, furono drasticamente ridimensionati.
Le prime ad entrare in crisi, furono le cartiere, a partire dal 1865, con un effetto domino, quasi tutte furono costrette a chiudere, la principale causa, fu l’aumento del prezzo degli stracci, la materia prima per la fabbricazione della carta.
Altre concause, furono i metodi antiquati di produzione, la concorrenza straniera e un losco commercio di pezzame, dove gli stracci italiani erano esportati all’estero, tutti questi fattori, decretarono la fine di una secolare attività lungo l’asta del Teiro.
Dieci anni dopo, entrò in crisi l’altro settore trainante, la cantieristica navale, anche in questo caso, furono le rivoluzioni tecniche a decretarne la fine, prima con le navi a vapore e in seguito con utilizzo consolidato dell’acciaio per lo scafo.
A partire dal 1875 i cantieri navali di Varazze, eredi di una tradizione millenaria abbandonarono uno dopo l’altro la spiaggia della città.
Fu la fine per i lavoratori diretti e dell’indotto di questa industria.
Per molte famiglie di Varazze, costrette alla fame, fu giocoforza cercar lavoro fuori città, ad emigrare, i primi furono i contadini, a seguire pescatori e marinai. Le mete preferite furono le Americhe Argentina, Uruguay, Venezuela e Paraguay.
Chi non volle fare la transoceanica emigrò in Francia e in Spagna, un discreto numero di Varazzesi emigrò in Algeria.
A fine secolo, ci fu un’altra ondata di emigranti, erano gli addetti alla cantieristica navale, maestri d’ascia, calafati e gli ex operai delle cartiere, anche la loro meta fu l’America latina, Argentina, Uruguay, Perù, Panama e Cile, molti anche quelli che chiesero il visto per entrare negli Stati Uniti, quasi tutti diretti in California.
Alcune famiglie raggiunsero anche l’Estremo Oriente.
In totale a partire dal 1854 al 1881 circa 2700 cittadini furono costretti ad emigrare insieme alle loro famiglie.
L’amministrazione locale cercò, una qualche via di uscita, dallo stato di grave crisi occupazionale ed economica della città.
Furono esaminate alcune proposte, di insediamenti produttivi.
Dopo alcune trattative non andate a buon fine con alcuni imprenditori di industrie meccaniche, fu stipulato una convenzione con la società Figari e Bixio, per la costruzione di un cotonificio, l’accordo fu finanziato da parte del Comune con 31.500 lire per l’acquisto dei terreni, l’ente si sobbarco’ anche l’onere del rifacimento delle strade di accesso allo stabilimento.
Il cotonificio entrò in funzione nel 1885 e garantì per circa un secolo una buona occupazione per le famiglie di Varazze.
La crisi della cantieristica liberò quasi completamente l’arenile della città.
Il primo stabilimento balneare di Varazze fu quello di Domenico Botta inaugurato nel luglio del 1887 e intitolato alla Regina Margherita, nei mesi successivi si affiancarono altri bagni, quelli dei Pimpinelli, Messè, Ranghettu, Dentin, Barilon Bepillu u Cioccu.
Fu una fortunata intuizione del sig. Botta che diede una svolta all’economia della città. Varazze divento’ una meta turistica, merito della ferrovia delle sue spiagge, del clima ma anche al suo entroterra e dei suoi prodotti.
Prucesciun dell’Assunta
Questa è la storia, poi ci sono le leggende/dicerie cittadine che raccontano un’altra versione di questi ultimi accadimenti…. il sig.Botta, era a Varazze, attratto dall’annuale fiera del bestiame, il 24 di agosto, festa di S.Bartolomeo, molto frequentata dagli abitanti del Solaro, che portavano in processione i Cristi e la cassa del Santo, il sig. Botta chiese qual’era il compenso dei cristanti, saputa la risposta, pensò bene di fermarsi in questa località, dove c’era gente che faticava a gratis, meglio si potevano fare affari!
Ma l’intuito della svolta turistica, secondo le dicerie cittadine, lo ebbe l’anno dopo, sempre durante la festa di S. Bartolomeo, osservando la statua del Santo martirizzato con lo strappo delle carni. Con il passa parola generazionale, ancora oggi, per alcuni, la statua del Maragliano è la raffigurazione… du bagnante spellau vivu.
Questa l’evoluzione dell’economia della nostra città fino a metà del 900, fu in questo periodo che iniziò spopolamento del nostro entroterra continuato fino ai nostri giorni.
La fine della seconda guerra mondiale lasciò devastazione e miseria molti nostri concittadini se ne andarono da quella Patria che tanti lutti aveva creato.
Nel secondo dopoguerra ci fu la terza emigrazione dalla nostra città, erano perlopiù gli abitanti delle frazioni, che incoraggiati da parenti e conoscenti, già oltreoceano, fecero domanda di immigrazione e si imbarcarono in cerca di un futuro migliore.
Bisognava ricostruire anche l’Europa ed era forte la richiesta di mano d’opera qualificata e a basso costo, un’intera generazione, valicò il confine francese per tagliar boschi nella Francia Centrale.
Sono molti i racconti che “Il Museo del Bosco” ha pubblicato relativi all’emigrazione dei Lurbaschi in terra di Francia.
8 agosto 1956 ci fu la tragedia nella miniera di Marcinelle in Belgio
Serviva carbone per ricostruire l’economia italiana e il governo italiano fece un’accordo con il Belgio, carbone in cambio di esseri umani, da mandare a scavar carbone nelle miniere.
Le foto, estratte dall’Archivio Fotografico Varagine, non sono coeve agli argomenti trattati.
Da Ramugnina in direzione della Guardia, oltrepassata a Postetta sento il mio nome, provenire da una sbarraggia.
E’ Ambrogio Giusto, u Canaetta, che emerge dal suo mimetismo, ci salutiamo e mi avvicino per far due chiacchere, con lui e il suo amico di caccia al passaggio.
Si parla di questa zona, crocevia di antiche strade e sentieri, case sperdute nascoste alla vista, ma dove hanno vissuto per molti anni, famiglie che qui traevano il loro sostentamento, coltivando e allevando animali.
Un duro lavoro, tramandato da generazioni, chissà chi erano quelle persone che hanno edificato case, muretti a secco fasce e strade in questa zona così lontana da ogni centro abitato.
Ambrogio ricorda la madre, che da Custò de Beffadossu, ogni giorno, saliva da questi sentieri, per raggiungere la via Gianca e arrivare al Cotonificio, dove lavorava.
E gli anni giovanili, quando tutta questa zona era un grande bosco di pini e lui insieme a molti altri, che arrivavano anche da Vase, erano qua a raccogliere le pigne, da bruciare nella stufa.
Per raggiungere e Sevisse e poi a Ca da Luigina, mi consiglia un altro itinerario, diverso da quello che mi ero programmato, che passa dal briccu di Lapassui, seguendo, come segnavia i tralicci della linea elettrica.
Il sentiero è ben marcato e zigzaga fra le brughe.
Arrivato sul crinale, ho una stupenda vista verso il Beigua e la piana di Sciarbuasca.
Scheletri di alberi, residui dei devastanti incendi degli anni 90, sembrano totem, testimoni dell’incuria e delle devastazioni di un patrimonio arboreo, perso per sempre, un delitto, a mio parere, non indagato a sufficienza, per scoprire i responsabili o chi ha avuto dei vantaggi da questo disastro.
Il sentiero ora scende ripido e appare in lontananza,a Ca de Sevisse ancora eretta, ma con il tetto quasi del tutto crollato.
Il crollo del tetto ha divelto anche il tavolame del piano sopraelevato.
A Ca de Sevisse, i vecchi alberi da frutta, il lavatoio, un altra costruzione adiacente, completamente diruta
E poi quel bellissimo campo, unica zona ancora verde in mezzo alla brughiera, un tempo coltivato ad ortaggi, e cereali.
Si ha una bella sensazione a stare in questo posto, nascosto alla vista, ma con la bella cornice du Munte Gross e da Custea.
Una tragica storia è legata a Ca de Sevisse, quella di una giovane coppia, na niò de figgi e un virus maledetto, accaduta nel mese di novembre del 1918.
A Ca de Sevisse
Pantaleo conobbe Antonietta, alla festa di S.Ermete a Sciarborasca e come facevano tanti zuenotti, che per andare dalla loro bella valicavano bricchi a piedi anche di notte, anche lui andava in veggia, fino alla località Custa’, dove abitava la sua bella, partendo da Varazze.
Piaceva anche a Antonietta, la Ca de Sevisse, un’edificio ad un piano con la classica disposizione delle case coloniche, stalla e ricovero degli attrezzi a piano terra, ad uso abitativo la parte superiore, c’erano poi lì vicino, quei resti diruti di chissà che cosa è lì poteva essere costruita, con il tempo una seconda abitazione.
Doveva comunque essere una sistemazione provvisoria, in attesa di avere una casa propria, ma arrivarono i figli…… anzi na niò de figgi, erano otto sette fratelli e una sorella, Antonio all’età di undici anni, morì a causa della difterite, l’ultimo nato si chiamava Pellegro ed era il papà di Lino.
Era il lavoro che regolava la giornata di quella famiglia in ta Ca de Sevisse, Antonietta quasi tutte le mattine, andava al mercato a Varazze a vendere uova e latte, Pantaleo si occupava del terreno, c’era sempre da dissodare in quel grande campo, c’era il beo che raccoglieva l’acqua del rian, da tenere pulito, come anche i sentieri uniche vie di accesso.
I bambini in età scolare, andavano a scuola a S.Pietro a circa un’ora e mezzo di cammino.
I figli più grandicelli, davano una mano con gli animali domestici o a raccogliere frutta e verdura.
Una vita semplice, una famiglia contadina, come tante altre, abituate alla fatica nei campi e nelle faccende domestiche, ma anche rallegrate dalla spensierata età dei figli sempre pronti ad ogni tipo di gioco o passatempo nei prati, boschi o nell’acqua dei un rian da Ciusa o de Sevisse ma anche ai laghi dell’Aniun, per fare il bagno o a pescare.
Nelle festività ci si vestiva da festa per andare alla messa solitamente a Casanova qualche volta dai frati al convento del Deserto.
Ma le cose sarebbero purtroppo cambiate, in mezza Europa, infuriava la guerra, ma una subdola malattia, aveva iniziato a mietere più vittime di quante ne potessero fare tutte le armi di quegli eserciti.
In Italia, in provincia di Imperia, nel 1918, si stava lavorando per continuare il tracciato della ferrovia, nel ponente ligure e al cantiere di Arma di Taggia cercavano degli operai, Pantaleo decise di accettare quel lavoro, per aiutare finanziariamente la sua famiglia.
Lasciò a malincuore la sua gente in quella casa alle Sevisse.
Ai figli più grandicelli Juan di quattordici anni e Giuseppe di tredici anni, il papà affidò loro, il compito delle faccende da fare, accudire la mucca e l’asino, galline conigli le coltivazioni e si raccomandò di mantenere pulito, sgombro da terra e pietre quel beo dell’acqua.
Ninna di 10 anni già aiutava la mamma nelle faccende domestiche, aumentate a dismisura dopo l’ultimo arrivato, Pellegro, che aveva due anni e mezzo.
Senza un uomo in casa, non era facile tirare avanti in quella casa delle Sevisse, l’autunno del 1918 arrivò presto, con i primi freddi, e si doveva riscaldare quella grande casa, i più grandicelli, memori delle raccomandazioni del padre, facevano scorta di pigne raccolte riempiendo grandi sacchi a volte più pesanti di chi li doveva trasportare su quelle esili spalle, i fratelli maggiori, si dividevano i compiti per accudire gli animali e nelle altre faccende.
Un giorno Ninna, vide la sagoma di un uomo, sul sentiero che saliva dall’Invrea, riconobbe subito il suo papà a cui lei voleva un gran bene, e gli corse incontro felice, per abbracciarlo.
Pantaleo era molto affannato, a stento riusciva a parlare, arrivato a casa disse di essersi ammalato di bronchite e anche se febbricitante aveva deciso di lasciare momentaneamente il lavoro e ritornare dalla sua famiglia, pensando di stare qualche giorno con i propri cari, magari riuscire a sbrigare qualche lavoro, aiutare la sua famiglia e non ultimo per rivedere la sua Antonietta.
Quella sera, ascoltò tutte le cose che erano successe durante la sua assenza, raccontate dai suoi vice, Juan e Giuseppe, ma ebbe parole di gratitudine anche verso Ninna, una piccola donnina, per l’aiuto che dava in casa.
Colpi di tosse persistenti, non lo fecero dormire quella notte, e le seguenti.
Dopo qualche giorno, si ammalò anche Antonietta, Ninna prese in cura i suoi genitori, ma le cose precipitarono in poco tempo, quei colpi di tosse si colorarono di sangue, l’influenza spagnola che imperversava in Europa, che nessuno aveva diagnosticato nè si sapeva che cosa fare per combatterla, aveva contagiato quel cantiere di Arma di Taggia.
Furono giornate difficili chissà, se qualche frate dal Deserto era arrivato fino alle Sevisse per portare un pò di conforto religioso, perchè dei medici manco a parlarne, l’epidemia aveva colpito duro, anche in città.
Pantaleo morì una sera di novembre e nella stessa notte Antonietta a seguito dell’immenso dolore per la morte del suo uomo e con l’angoscia nel cuore, pensando a quei poveri suoi figli senza più il loro papà, non riuscì a superare una crisi e a poche ore di distanza, morì anche lei , lasciando nella disperazione più totale quei bambini nel buio della notte alle Sevisse.
Alle prime luci dell’alba, in un freddo giorno di novembre un bambino solo disperato, Juan, affrontò il lungo sentiero che portava in località Costata, dove viveva il papà di Antonietta, Giovanni, per dare la tremenda notizia e avere aiuto per se e i suoi fratellini.
I corpi dei genitori furono trasportati con una barella alla chiesa di Casanova per i funerali.
Due giorni dopo quella maledetta malattia si prese anche la vita di Giuseppe.
Gli animali furono venduti per avere le risorse per i funerali e per i figli che furono tutti adottati dai parenti più stretti.
E’ passato un secolo da quegli lontani accadimenti e ora che ho conosciuto, questa triste storia, ogni volta che ritornerò ancora alle Sevisse, cercherò i segni che restano sempre anche quando le persone sono andate, via i segni di chi in quella casa in quel grande e fertile campo ha lavorato faticato ha visto crescere i suoi figli e avrebbe voluto vederli diventare grandi e poi diventare vecchio stare accanto alla sua Antonietta nella loro Ca de Sevisse.
Ancora una foto, come un saluto alle Sevisse e mi dirigo verso la casa da Luigina, seguo il solito sentiero tracciato dagli animali selvatici, ora non solo brughe, ma molte piante di mirto e lentisco.
Intravvedo il rudere della casa, circondata da giovani piante, ma anche da un’impenetrabile bosco di rovi, che sempre si trovano in corrispondenza delle piante di ulivo.
Semi di rovi, sparsi con le feci, dagli uccelli, che si nutrono di more e che trovano poi i loro posatoi, sugli ulivi.
Un tappeto di fiori di vinca, copre tutto il terreno e tra qualche giorno, sbocceranno anche i narcisi, un fiore che perpetua il ricordo, di chi ha ingentilito, molti anni fa questa dimora.
Anche questa casa e il terreno, dove il lavoro, la fatica di generazioni, era il pane quotidiano, sta per essere fagocitata dalla vegetazione e fra qualche anno la natura la renderà invisibile, cadrà nell’oblio e come molte altre cose costruite dai nostri vecchi, alla fine, la nostra comunità ne perderà ogni memoria.
Sulla via del ritorno, fa bella mostra di se, un posa come quelle descritte da u Canaetta, per chi doveva camallare u lensò o bellainin-a de fen o u saccu de pigne.
Arrivato in prossimità di questo cumulo di pietre, u camallu aveva un poco di sollievo, riprendeva le forze, si asciugava il sudore, scaricando il peso sui massi, per poi continuare il tragitto in salita verso a Pustetta.
Il sentiero, lascia il posto ad una strada lastricata, a tratti slavata e franata, ma dalle fattezze già viste e di tipologia molto antica, servirebbero degli studiosi archeologi o storici per catalogare sul posto, questa viabilità.
Arrivati su di un pianoro, se ne perdono le tracce, ma alcuni cumuli di massi, stanno a testimoniare, l’esistenza di qualche manufatto, un punto di osservazione o un Castellaro.
È arrivata al termine questa mia escursione, ritorno sulla strada della Guardia. Ambrogio e il suo amico, se ne sono andati da tempo, non ho udito colpi di fucile, forse per loro è stata una giornata da capotto.
Saluto alcune persone, in arrivo dal comodo sentiero che scende dalla Madonna della Guardia, ben curati nell’abbigliamento e per niente affaticati,.
Mi sun tuttu straffugiò, spellò dai ruvei e cun e punte de bruga in tu collu! Mi chiedo chi me lo fa fare. Molto meglio seguir facili strade!
Ma già penso alla prossima, ancora una volta, alle Sevisse.
Superato l’abitato di Casanova, dopo circa 1km, si prende a destra verso la Ramognina, per via Canavelle, dopo qualche decina di metri, sempre a destra nascosta da un folto bosco, c’e la Rocca du Magian, il toponimo potrebbe essere nato dall’unione di Ma, malo, cattivo e Cian, piano, pianura.
In bella evidenza in questa curva l’edicola votiva I Trei Nicci,
Perchè questo insolito luogo di preghiera?
La costruzione e poi l’ampliamento della strada, che porta alla discarica, ha cancellato ogni traccia delle antiche vie di comunicazione.
In antichità, in questo punto si congiungevano, tre strade, la via Emilia Scauri, che scendeva da Leicanà- Prie de Lima-Briccu da Furca, la strada che saliva da Casanova-S.Bastian, proseguiva poi per la Torrazza, Peana e arrivava alla Rocca du Magian., l’unione di queste carrarrecie, proseguiva, con un unica strada, pe a Berlanda- il Rian dell’Olmu-e Campumarsu.
Oggi, presso la Rocca du Magian, in bella vista, vi è una grande edicola votiva, unica nel suo genere, dove in tre delle quattro nicchie, presenti, sulla facciata, rivolta verso la strada sterrata, che proviene da Casanova, ci sono tre statuette, due con l’effige della Madonna e una con quella del Bambin di Praga, una quarta nicchia è dedicata ai fiori.
Quasi sempre, nicchie ed edicole votive si trovano al culmine di una mulattiera o presso un crocevia, per un momento di pausa, dalle fatiche, con la scusa o con la convinzione, di rendere omaggio ad una Madonetta all’interno di un niccio.
…..ma i tre nicci, del titolo di questo post, non sono quelli della bella edicola votiva, colorati e ben curati, dall’ultimo restauro, effettuato come sta scritto sopra una targa, nel 1988.
Cambiano i tempi…. e anche le cose dette fra amici al bar, da zueni se parlova de ballun, donne e muturi,……aua cun un toccu de figassa e un caffè, se parla de nicci e de madunette!
E cosi, conversando al bar con Maurizio Caligiani, ho scoperto che i tre nicci, non sono quelli dell’edicola votiva, ma tre cavità scavate nella roccia dirimpettaia.
Quasi nascosti dalla vegetazione, queste tre incavi si intravvedono a malapena. Ma perché sono state scavate queste tre nicchie?
Avevo interpellato il compianto Mario Damele, lui grande conoscitore del mandamento di Casanova, che mi aveva confermato quello avevo saputo qualche tempo fa.
In antichità, questa zona, era conosciuta come “U l’è un postu duvve u se sente” questa frase, sta ad indicare che proprio in questo punto, per chi crede negli spiriti e nelle presenze extrasensoriali, si poteva entrare in comunicazione con l’aldilà.
Le persone dotate di particolari sensibilità “sentivano” la presenza di entità, non più materializzate con il corpo, ma con lo spirito.
Chi evocato, rivelava la sua “presenza” era molto spesso, un famigliare, o una persona conosciuta, che aveva svolto un ruolo importante nella comunità.
Nonni, genitori e parenti, a cui chiedere, anche dopo la loro dipartita, consigli o condividere qualcosa di importante, come la nascita di un figlio, portato fin quassù e adagiato in una delle nicchie, come a voler creare un contatto fisico tra il neonato e la madre terra, dove stava lo spirito della persona defunta.
Non c’è da stupirsi, se esistevano queste credenze, il legame famigliare era molto forte nel nostro entroterra, spesso ad ogni nuovo arrivo o a seguito di un matrimonio, si aggiungeva un locale in più, alla casa patriarcale, dove potevano essere presenti, anche tre generazioni, sotto lo stesso tetto.
Le persone anziane, erano molto rispettate, ed erano evocate dopo la loro dipartita, in questo modo si perpetrava nel tempo, il legame generazionale tra anziani e giovani.
Si cercava di lenire in questo modo, il dolore per la perdita di una persona, con cui si era condiviso un’abitazione e un pezzo di pane.
Insieme al cibo, si divideva anche la fatica quotidiana, gli stenti a seguito di un cattivo raccolto, freddo, vento, estati torride, guerre e soprusi.
L’anziano accudiva gli ultimi arrivati, ed era appagato dall’affetto che riceveva.
Vite consacrate alla propria terra, da quel giorno, in quel niccio.
Poi la storia si ripete, sempre uguale nel nostro entroterra, un luogo di devozione verso i defunti, le persone care, che hanno lasciato questo mondo terreno, perpetrato tramandato da generazioni, è stato trasfigurato dai simboli cristiani.
Nei tre nicci, avranno trovato posto statuette di Santi, della Madonna con dei dei lumini, traslati poi, nella grande edicola votiva da Rocca de Magian.
Puntabella a Vase e Capo Mimosa nel comune di Cervo, sono due bei nomi per denominare l’inizio e la fine della Riviera delle Palme.
Il bel nome di Puntabella non disattende le aspettative, dalla grande area di sosta si ha un’impagabile vista verso la sottostante scogliera e il mare aperto .
Ma se viaggiatori nel tempo fossimo capitati da queste parti un secolo fa non avremo fatto caso alle bellezze naturali.
La presenza di una grande cava di pietre dove era prodotta la rinomata Gea Neigra de Puntabella avrebbe attratto la nostra curiosità.
La roccia era staccata dal blocco tramite esplosivo e poi sminuzzata a colpi di mazza da decine di piccaprie un lavoro massacrante reso ancor più faticoso dalla particolare durezza di questo affioramento di serpentino .
L’uomo nelle sue attività modifica, spesso deturpa, l’ambiente e anche a Puntabella lo ha fatto, prima spianando una montagna sostituita poi con una vistosa discutibile cementificazione.
Le proprietà dei marchesi dell’Invrea comprendevano anche questa zona, dove fino agli anni 40/50 era in attività una grande cava di serpentino.
Gianni Vernazza mi racconta dell’esistenza di questa cava che produceva principalmente a gea grossa per la ferrovia.
Un’ingegnoso sistema permetteva di scaricare la ghiaia direttamente nella sottostante sede ferroviaria, facendola precipitare nella scarpata di Puntabella, e poi convogliata in una tramoggia fissata a quattro piloni in cemento.
Erano così riempiti i vagoni del treno merci che sostava tra le due gallerie Forno e S.Giacomo.
Oggi proseguendo a piedi seguendo il muro che delimita l’Aurelia versu Vase, si arriva all’apice di questo spuntone di roccia da dove la vista spazia a 360° verso il mare aperto, davanti a noi il parco e il Castello d’Invrea, alla nostra destra lo spettacolare ponte ad arco dell’A10 e sottostante fratello minore dell’Aurelia che scavalca il torrente Portigliolo
Numerose le vicende storiche che si sono succedute in questo biglietto da visita della nostra città.
Qui gli ingegneri stradali romani, si arresero alla sola vista del scoglio d’Invrea e scelsero la via dei bricchi per arrivare a Ad Navalia
Naturale confine sud del Latronorium, la decantata selva oscura che avviluppava il fondovalle dell’Arenon, terra di briganti e di animali selvatici, luogo infido e pericoloso, che forse ha ispirato il sommo poeta, per comporre il cantico dell’Inferno.
Terre inospitali ottimi nascondigli per briganti e pirati che proprio alla foce del Portigliolo avevano i loro covi.
Dall’alto di Puntabella, si notano in basso i resti di quella zona malfamata, che divenne poi una piccola borgata, con una famosa fabbrica di gallette per marinai.
Oggi questi edifici storici sono invasi dalla rumenta e dimenticati da una comunità, distratta e poco interessata alla sua storia.
Visibile dal greto dello Sportigliolo i resti del ponte, di epoca medievale che rivoluzionò e rese più fruibile la viabilità in direzione della nostra città.
Qui sbuca l’Invrea l’ex galleria del treno scavata nel serpentino d’Invrea pietra compatta e impermeabile.
La grande curva parabolica è stata testimone/causa di innumerevoli incidenti stradali e di qualche grazia ricevuta, una di queste resa materiale dall’edificazione di un pilone votivo.
Ma questa è un’altra storia che sarà oggetto di un prossimo post.
Ringrazio Gianni Vernazza per le notizie storiche di questa zona della nostra città.
Le batterie costiere della Punta d’Invrea sono inglobate nella scogliera, mimetizzate nella macchia mediterranea, qui particolarmente rigogliosa con dei bellissimi esemplari di succulente, agavi e fichi d’india.
Ma la meraviglia delle biodiversità in questo lembo di Liguria, comprende tutto lo scibile della flora mediterranea, mimusa, zenestra, lentisco, innumerevoli esemplari di parmetta, pin da pinò , un belu cipresso, ersci e molte altre piante di cui non conosco il nome.
Impressionante lo strapiombo da cui si intravvede una latrina “bellavista”
Suggestivo il panorama verso il mare aperto, visto da queste opere militari
U Scoggiu d’Invrea, con le pinete e uno scorcio del Lungomare Europa, dove si intravvede la galleria dei Pescuei.
Sotto di noi la piccola insenatura di Santu Cristo o Spiaggia della Marchesa.
Erano tre le batterie costiere di Punta d’Invrea, che facevano parte del Vallo Ligure, una di queste non è piu visibile, dovrebbe essere oltre una recinzione, da cui si intravvede un’abitazione.
Una ventilata possibilità, di sbarco alleato in Liguria, propugnata dallo stesso Churchill, fu propedeutica alla costruzione di grandi opere di difesa, passiva e armata, in ogni altura, promontorio e spiaggia, dell’intero arco ligure
Per realizzare queste opere, la Todt si avvalse del lavoro di prigionieri di guerra, di imprese e manodopera locale.
Dopo un paio d’anni, fu quasi completato il Vallo Ligure, che comprendeva bunker, casematte, batterie e piazzole.
Sulle spiagge fu eretto un muro antisbarco, dispositivi anticarro e i tobruk piccoli bunker, numerosi i POC Posto di Osservazione Costiera, alcuni di questi avevano sistemi di rilevazione trigonometrici ed erano anche centrali di tiro, in collegamento radio, con le batterie costiere e in questo tratto di litorale, era stabilito un contatto, con il treno armato, che si celava in una delle gallerie tra Vase e Arbisoa.
Tutti questi presidi sono stati costruiti in cemento armato e sono ancora ben conservati, nonostante l’incuria e lo stato di abbandono in cui versano, dalla fine del conflitto, volutamente dimenticati, invasi dalla vegetazione, come voler cancellare quel brutto e triste periodo con la seconda guerra mondiale che ha insanguinato tutto il mondo.
A mio parere, invece andrebbe preservata anche la memoria materiale dell’ultima guerra, solo quando si è al cospetto di queste grandiose opere in calcestruzzo, si ha la misura dell’enorme dispendio di risorse energie e di vite umane, perpetrato da un folle regime, quando nel 1943 sentendosi oramai braccato e in difficoltà su tutti i fronti, ancora si ostinò a costruir forti bunker, casematte e anche ridicoli deterrenti, contro lo strapotere delle forze alleate, deturpando, modificando per sempre uno dei più belle regioni della Patria, quella Patria troppe volte menzionata, ma solo per mandare al massacro generazioni di giovani, in una guerra inutile e ingiusta.
Le batterie di Punta d’Invrea, molto probabilmente erano armate con il cannone antiaereo Flak 38 di fabbricazione tedesca.
All’interno della piazzola, nel muro perimetrale circolare sono presenti otto vani adibiti a riservetta.
Il parapetto alto un paio di metri, offriva protezione ai serventi al pezzo, che in caso di necessità, potevano trovar riparo, in un locale adibito a rifugio, a cui si accedeva tramite una breve scalinata.
Sotto alla batteria centrale, è presente, ma interdetto all’accesso, il locale del Punto di Osservazione e direzione di tiro, di Canuin d’Invrea.
Consiglio l’approccio a questa zona solo se esperti escursionisti, adeguatamente equipaggiati, diverse sono le difficoltà e i pericoli, visto la quasi impraticabilità della zona a causa della vegetazione e agli inquietanti strapiombi a picco sul mare.
Lasciato l’abitato di Cogoleto, passato il ponte dell’Arrestra, a metà salita verso Puntabella, addossato alla roccia, nei pressi di una piazzola di sosta, c’era la dimora “du Franseise” identificato anche come u Barba.
Lo ricordo come un uomo alto magro, lo si vedeva in giro con il suo carretto, pieno di ogni cosa, che poteva servire alla sua sussistenza, un cagnolino che si era affezionato a lui lo seguiva nel suo peregrinare giornaliero.
Decido di far qualche foto all’ex casetta ” du Franseise” e parcheggio la Panda, dietro un’auto dei Carabinieri, ferma in questa piazzola, mentre controlla i documenti di un’automobilista, dichiaro le mie intenzioni ai militari, l’appuntato annuisce e mi avvisa del deposito di rifiuti che troverò se mi avventuro oltre la siepe.
Oltrepasso gli arbusti che delimitano questa area di sosta e la recinzione completamente divelta, sono al cospetto di uno schifo, un disastro ambientale !
Un ingente quantità di rifiuti sono presenti ma nascosti alla vista dalla vegetazione, la plastica la fa da padrona, ma anche alcuni televisori, una cucina, un seggiolino da auto, un rotolo di rete metallica, esaminando questo sfacelo, dalla tipologia degli oggetti presenti è evidente che i principali rifiuti qui abbandonati sono i residui e gli imballaggi, dei generi alimentari, consumati dalle auto in sosta, nella piazzola, a nulla serve, l’inutile cartello, che invita a non abbandonare rifiuti!
U Franseise viveva da eremita, aveva costruito la sua casetta, sopra un ripiano roccioso, la cui base, oggi è l’unica cosa rimasta e visibile in mezzo ad un groviglio di rovi e piante.
Erano gli anni 70/80 dalla sua casetta, dipinta di rosa, ben protetta dalla tramontana, con una bella vista mare, d’inverno e nell’ora di pranzo, si levava sempre un filo di fumo dal tubo della stufa, non gli mancava niente altro, au Franseise, in quella sua dimora, aveva anche l’acqua potabile, prelevata da un rubinetto, che era presente nella piazzola sottostante.
Era un uomo libero, bene accetto dagli abitanti di Cogoleto.
Molte erano le dicerie/leggende, sul suo conto, si diceva che era fuggito dalla Francia, dove aveva compiuto un delitto, che era un disertore della legione straniera.
Fu incolpato ma senza prove delle innumerevoli distruzioni, della statua del Bambin di Praga, nella curva di Puntabella.
Si diceva anche che avesse una fortuna, nascosta in quella casetta…quando morì, dopo qualche giorno, quella sua casetta fu distrutta, forse da chi, non trovando l’agognato tesoro, volle così sfogare la sua rabbia.
Le cose che accadono, non preventivate, sono le più belle!
Vado alla ricerca di qualche libro, di storia di Cogoleto, e ritorno con 5 libri che raccontano la storia di Varazze!
Merito di Monica Badano e di Piero Perata, ai bei libri che hanno a disposizione, all’entusiasmo e alla passione, che dedicano al loro lavoro, l’attività che fu di Vittorio Badano, il papa’ di Monica.
Mi affascinano le macchine della Tipografia SMA di Cogoleto, veri e propri gioielli di meccanica e poi il racconto dei procedimenti di stampa, con i caratteri mobili, cliché e inchiostri, si svela un mondo a me sconosciuto, fatto di precisione, pazienza, dettagli microscopici e poi tanta perizia ed esperienza.
Traspare dai loro racconti, la passione per la stampa di qualità, che ancora si effettua con queste incredibili macchine, anche se la tipografia, si è dotata di moderne apparecchiature digitali, in grado di soddisfare ogni esigenza di stampa e di formato, anche in questa attività l’avvento del digitale ha creato una vera e propria rivoluzione!
Faccio molte domande e ad ogni dettagliata risposta, mi stupisco degli accorgimenti adottati, come ad esempio, nel passato, la stampa delle cartoline colorate!
Un ambiente di lavoro, che è anche un patrimonio storico, ma non solo libri ma anche migliaia di stampe e foto, merita fare una visita in tipografia e lasciarsi stupire, dai racconti dei titolari.
Fuori si è fatto buio, solo ora ricordo dell’auto parcheggiata, con un tagliandino scaduto da almeno un’ora!
Ringrazio Monica e Piero della pazienza avuta, per l’intrusione di un curiosone.
Grazie e complimenti, per la vostra bella attività.
Dalla Costea, l’Emilia Scauri, la strada romana, proseguiva verso Ad Navalia e dove ora sorge la bella chiesa del Beato Jacopo, si biforcava in direzione del mare, in quella che è oggi chiamata via Bianca e in direzione del passo di Leicana’- Campo Marzio.
I Gruppi
Della strada che arrivava dalla Costea al bivio, nulla rimane, questa zona è sottoposta al dilavamento dell’acqua che scende dalle pendici dell’Arenon e nei secoli, le piogge hanno divelto il sedime in pietra e abbassato il piano viario.
Stranamente, però non c’è traccia, ai lati dell’ex arteria romana, delle pietre che costituivano il fondo stradale, che, come abbiamo visto, invece sono presenti a lato del tracciato a mezza costa del monte Arenon.
Idem per quanto relativo alla strada che proseguiva in direzione di Leicana’- Campo Marzio.
Le pietre sono sparite!
È da ipotizzare come è successo per altre ex strade romane decadute, l’utilizzo del fondo stradale, prelevando pietre e sedime per costruire case e muri a secco del circondiario.
A riprova di questo sono i cumuli di pietrame che si celano nel folto della vegetazione, accatastati e pronti per essere trasportati e utilizzati per costruire qualche manufatto.
Questi cumuli sono presenti lungo il tracciato vrso Leicanà che seppur spogliato di pietre, scavato dall’acqua e fagocitato dal bosco, mantiene ancora, qualche testimonianza, che indica la presenza di un’ antica importante strada di comunicazione, non ancora distrutto dall’uomo o dalle intemperie.
A questo punto, visto il luogo isolato, privo di muri a secco e di rustici o ruderi, non è azzardato ipotizzare, che le pietre prelevate lungo il tracciato, dell’Emilia Scauri, in questa zona, prima e dopo il bivio con la via Bianca, siano servite, per la costruzione della chiesa del Beato Jacopo da Varagine.
L’edificio, la cui datazione è incerta, ha le mura perimetrali intonacate e quindi non è possibile individuare la tipologia di pietre utilizzate, ma senz’altro l’Emilia Scauri ha contribuito alla sua costruzione.
Non c’è da stupirsi se è stata distrutta una grande opera, ma orami in disuso, per costruire una chiesa, in antichità si badava alle cose pratiche, avere una buona disponibilità di materiali da costruzione poteva influire sulla scelta dove edificare un’abitazione o un luogo di culto.
La via Bianca, che dalla chiesa, inizia la sua interminabile discesa verso Varazze rappresenta la classica via romana, lastricata e con la larghezza standard di 2.40 metri.
A sinistra un sentiero sale in vetta au Muntadò.
Le notizie storiche relative al percorso della via Emilia Scauri sono tratte dalle pubblicazioni dell’Associazione Culturale S.Donato.
Un racconto di molti anni fa, quando la Patria caduta preda di un folle cercava nel nostro entroterra giovani contadini o boscaioli, carne da macello per una guerra già persa, tributi di sangue per compiacersi fra dittatori.
Giovani vite strappate da un paesino o una borgata, sogni progetti, amori giovanili persi per sempre .
Ritrovata tra le rovine di un bunker questa lettera non fu mai recapitata, la censura l’avrebbe comunque distrutta.
Lo scritto, un misto di dialetto e italiano era quello che poteva esprimere, un giovane, negli anni quaranta, in una Italia arretrata e poco scolarizzata.
Francesco giovane soldato con questa lettera si scusa con quello che per lui fu l’unico amore della sua vita, non sappiamo nulla di lui, non si sa se ritornato alla vita civile abbia rivisto la sua bella.
Ciao Angela
Te scrivu sta lettera doppu tantu tempo, mi hanno detto che tu hai domandato come sto. Staggu ben ma di tornare a ca non se ne parla.
Te devu di che te pensu sempre.
Ho le tue lettere, ce lo ancora tutte, penso ancora a te primo amore della mia vita. Me cau surdatto della Patria……te ricordi? Mi scrivevi. Malediscio sempre e stellette e questa divisa che mi hanno messo, si sono presi i miei vint’anni e anche ti.
Era di maggio quando ci siamo conosciuti ti ricordi?
Ai Posi erano sempre le stesse facce e quel dopopranso, ti ho vista subito, come mai eri lì? Ti ho chiesto di ballare, ma non volevi, perché tu in quei balli non ti ghe capivi ninte, ma io ti ho detto che era tutto facile e poi tua sorella, ti ha spinto, e così abbiamo ballato.
Sentivo il cuore battere, non avevo mai balla con una ragazza bella cumme ti, ricordo il tuo vestio giancu e blu. E mi che ti chiedevo scusa, quando ti me sciaccavi un piede,
Poi il tuo sorriso…e i tuoi occhi, mamma mia eu cottu de ti. Eu contento quando tu eri con me. Ricordi le nostre corse in bicicletta e i bagni in Teiru ?
Poi arrivò quella maledetta cartolina da parti surdattu e sono stato abbelinato a comportarmi in quel modo…ma avevo puia di perderti di non vederti ciù…..coscì non ti ho dito ninte, aspettavo, vureivu dite quantu te voggiu ben
Ma non te lo detto mai
Sei tanto bella, cun il tuo sorriso e sei sempre allegra mi invece sun un musun cumme me discian i miei amisci
E’passata veloce quell’estate di un’anno fa la ciu bella da me vitta.
Sono partiu che me vegniva da cianse, e i me vint’anni cun ti non ce lo mai avui si sono presi i miei vint’anni e anche ti.
Mi hai scritto quelle lettere che mi hanno fatto contento ricordo i tuoi disegni nelle lettere, è stata la cosa ciù bella da quandu sono surdattu.
E quello giorno…. su quello scoggio, ti me ditu Francesco scusa ma megio lasciamo perdere restiamo amici.
Non volevo finisse mai cun ti , ma e stata per colpa mia e ….di quei miei vint’anni che nu lo mai avuto. Ho pensato che foscia era megio cosi, te cusci bella e mi pelle e ossa e pieno di puie e poi chissà se ritornerò da questa maledetta guerra, qua ci fanno sempre marciare e sparare con lo scioppo che a volte manco spara.
Me sento sulu senza di te tutti ci hanno la ragazza e mi fanno vedere la foto, mi de ti nu go ninte, mi sono restate quelle quattru lettere e i to disegni che ogni tanto lesu, pe cianse un po.
Voglio dite grassie Angela pe quello poco tempo che sei stata con me e per quelle cose belle che io avevo quando eri vicino a me…e so che mai piu proverò altro nella mia vita!
Scusa se questa mia lettera piena di cose male scritte ma l’ho scritta di notte quando penso a ti alua seru i oggi e mi pare di vedere te con me. Chissà duvve sei e se anche te pensi a me. Sei più andata in ta Fabrica ? Mi hanno detto che ci sono i surdatti anche dentro.
Te chiedu na cosa, se di notte prima de durmi puoi pensare un po a me come oggi io penso a te a noi due Angela e Francesco e a quella nostra estate passata tanto troppo veloce un’anno fa.
Le tue lettere finivano sempre così. Buonanotte clik