U Fo du Vultui

La terra dei Liguri, è povera di grano e di vino, non c’è zolla senza pietra, i Liguri coltivano con ardore e fatiche la terra sassosa, si nutrono di animali domestici, di verdure che crescono nei loro campi.

Il paese è selvoso, alcuni fanno il boscaioli, maneggiando le grosse asce di ferro, spaccano i macigni, hanno corpi magri e vigorosi, la loro terra è priva dei doni di Demetria e Dionisio, le donne vivono in genere come gli uomini, il più vigoroso dei Galli è vinto da un gracile Ligure, sono coraggiosi e valorosi nelle circostanze pericolose della vita, navigano esponendosi a gravissimi pericoli anche gli abitanti della Liguria Marittima, affezionati alle loro rupi, nemici dell’ozio e delle agiatezze, senza grandi fatiche e assidua coltura, il loro terreno nulla produce, ma sono i Liguri che stritolando il macigno e ingrassando la terra nelle valli, seminano biade e sui poggi educano le api e piantano viti.

Con questa prefazione, tratta da un antico testo, non c’è da restar stupiti, se il popolo dei Liguri, diviso in tribù, dette del filo da torcere per quasi 500 anni alle legioni romane, che tentarono la conquista della nostra regione.

L’attaccamento alla propria terra è un legame molto profondo e un Ligure era pronto a sacrificare la propria vita, per difendere ogni rupe, ogni lembo di quella terra inospitale impervia, ma che lui aveva strappato alla montagna, viveva in simbiosi con la natura, temeva le sue intemperie e ne rispettava i simboli, come le grandi piante.

Furono gli alberi, i grandi faggi centenari, ma soprattutto le querce, che servivano in abbondanza per i cantieri navali, sulle spiagge di Ad Navalia, ad attrarre i romani, già padroni delle spiagge e del primo entroterra, verso quegli alberi, quei boschi, quelle rupi, quella terra strappata alla montagna, dove viveva il popolo Ligure.

U Fo du Vultui

Oggi si tramanda la storia/leggenda, di un grande albero, un fo, altissimo, dalla grande chioma, con un tronco enorme, venerato da una tribù dei Liguri che viveva sotto la sua protezione.

Quell’albero per i romani era una sfida, lo avrebbero volentieri tagliato e strappato dalla terra di quel popolo rozzo incivile, ma invincibile e come un trofeo eretto nel Castrum Romano o tagliato, per farne u fasciamme o e stamanee di qualche trireme.

Quel grande fo per i Liguri era come una presenza divina, lo veneravano e ne osservavano i suoi cambiamenti stagionali, percepivano molte sensazioni provenienti da quell’albero, dal colore delle sue foglie, quando in primavera si vestiva di un verde acceso, allora quello era di buon auspicio, per la bella stagione e all’approssimarsi dell’autunno, scrutavano quelle bellissime tonalità, rosso arancio intenso delle foglie, che annunciavano l’arrivo dei primi freddi, una sensibilità umana persa per sempre, ma che era propria di chi era a contatto stretto con madre natura.

Quell’albero forse non era il più grande del territorio, ma visibile da ogni parte, lassu’ sul Bric Vultui, ma chissà che significa il nome di quel bricco che sovrastava la località degli Armuzzi.?

I romani volevano quell’albero, erano stati guidati sul posto in avanscoperta da altri liguri “romanizzati” e avevano escogitato un piano, avrebbero tagliato l’albero e lo avrebbero legato ad un tiro di beu e trascinato verso l’accampamento del Campo Marzio, un drappello di arcieri dall’alto, avrebbe tenuto a bada la reazione dei Liguri, tenendoli occupati, il tempo necessario per il taglio e il trasporto del grande faggio e per l’arrivo di un’altra guarnigione pronta per dar battaglia.

Il piano “ordito era ardito il taglio dei quel fo, sarebbe stata una grande umiliazione per quei ribelli indomabili, l’offesa subita avrebbe fatto perdere l’uso della ragione e la loro proverbiale prudenza, a quei selvaggi, sarebbero usciti, accecati dalla rabbia, allo scoperto e inevitabilmente in uno scontro in campo libero le falangi romane, avrebbero avuto la meglio e finalmente sterminato quella tribù dei Liguri, depredato le loro mandrie e reso in schiavitù donne e bambini, i boschi sarebbero stati finalmente al sicuro per poter procurare tutto il legname che serviva all’industria cantieristica di Ad Navalia.

Ma per realizzare quel piano, si doveva aspettare la fine dell’inverno, lo scioglimento delle nevi e l’arrivo delle foglie sugli alberi, i romani, avrebbero atteso di vedere diventare verdi quei boschi, l’azione fu rimandata alla primavera successiva.

I liguri ignari di quanto era stato escogitato, sul quel bricco sopra le loro teste, si preparavano dopo un duro inverno alla stagione della caccia e delle transumanze.

L’aria iniziava a riscaldarsi e le giornate diventavano sempre più lunghe.

Quel grande fo era lassù era come un gigantesco totem, era il Dio Fo a proteggere quelle povere genti nelle caverne e capanne degli Armuzzi, quell’albero era la prima cosa che con lo sguardo di un nuovo giorno, i Liguri cercavano.

Non si è mai saputo il perché i romani non riuscirono nel loro intento, si disse che ai primi colpi d’accetta, dai rami e dal tronco, uscirono migliaia di voltor, vultui, avvoltoi, che ghermirono chi avevano osato destarli dai posatoi e dai loro nidi, celati nelle cavità di quell’albero.

I Liguri allertati dalle urla, accorsero in massa e cacciarono i romani, che lasciarono sul campo, preda dei vultui le carcasse di quaranta loro commilitoni, completamente spolpati dagli avvoltoiI superstiti scapparono via, in preda al panico, inseguiti da quei volatili, abbandonarono tutte le armi anche le due coppie di buoi, che erano state portate fino al Poggio, per trasportare il grande fo.

Uno di questi buoi, divenne il pranzo di quei liguri, tagliato in due con i piccusin e cotto sopra un letto di brace, su quel pianoro delle Ciaze, nei pressi di quella che oggi è chiamata Rocca di S.Anna, in un bel momento conviviale, si festeggio così l’inizio della primavera con una vittoria sui romani, un bel bottino di archi, frecce e i buoi.

Fu un buon pranzo rallegrato dal vino un buon auspicio per il futuro di quelle genti.

Gli studiosi hanno accertato che in una zona della nostra scatola cranica si annida una sorta di memoria preistorica, legata alla nostra sopravvivenza come specie umana.

Tou lì! Perché a poca distanza dalla rupe di S.Anna, nello spiazzo delle Ciaze, ogni anno gruppi di arpiscellin fajanti e gente de Vase, si ritrovavano in un momento conviviale, alla sagra della mucca!

E quel bricco fu chiamato Bric Voltui !Storia o leggenda?

E’ però verosimile che nei pressi della rocca S.Anna, stazionasse una colonia di rapaci saprofagi che in questa zona trovava abbondanza di cibo a seguito delle attività umane.

Sul pianoro antistante la cappella, difronte ad un suggestivo panorama con quell’inquietante precipizio, in antiche ere, erano effettuati dei sacrifici agli dei, comunque da sempre luogo di culto e dove secondo gli studiosi, qui si praticava un particolare tipo di caccia che consisteva nell’inseguire e far precipitare dalla rocca gli animali, quelli più grandi difficili da abbattere.

A lato del pianoro la grotta una dei tanti ripari sotto roccia tipici di questi monti, uno dei primi luoghi di devozione diventato poi culto cristiano, con la presenza di una nicchia votiva,

I Armuzzi

Pe arrivò ai Armuzzi, se passa da U Punte du Rian dell’Ommu Mortu.

Il toponimo è raccapricciante! Sembra quasi voler dissuadere il viandante dal suo camin !

Quell’ommu mortu, si riferisce ad un episodio tragico, di cui si è perso memoria

Ma l’ambiente e uno di quelli più suggestivi del nostro entroterra.

U Rian dell’Ommu Mortu, è un susseguirsi di cascate e laghetti con un bel rumor d’acqua, udibile ben prima di arrivare alla sua vista.

Il Rian dell’Ommu Mortu e’ oltrepassato da un bel ponte ad arco, con annessa edicola votiva, dalla precaria stabilità (impressionante la sua pendenza destinata a sicura rovina!).

Questa località e’ chiamata degli Armuzzi, il toponimo deriva da armuzzu, arma, armisu, armussi, ovvero in dialetto volgare, riparo sotto roccia o capanno di montagna.

In questo ambiente molto antropizzato, sono presenti, in una zona impervia, immersa nella vegetazione, una serie di anfratti e ripari rocciosi, con notevoli presenze di muretti e “muggi de prie” testimonianze di antichissimi insediamenti umani, a mio parere non sufficientemente indagati.

E’ necessario procedere con prudenza visto il tappeto di foglie che nasconde alla vista buche e pietre sconnesse, in certi punti ci si accorge di camminare sopra a degli spazi vuoti.

Grandi terrazzamenti, canali per lo scolo delle acque, recinti per animali, mura di delimitazione e difesa, un tempo imponenti, ridimensionati dalla solita razzia di pietre, pratica comune in ogni zona dove erano i più antichi insediamenti umani.

La materia litica non mancava e questo è il nesso con quella che è la caratteristica principale di questo lembo del nostro entroterra: i manufatti in pietra cascine, abitazioni, ponti, strade, muri.

Da E Rocche altro toponimo di questa zona, si intravvedono nella vegetazione, oramai spoglia, in questo periodo dell’anno, ruderi di case, cascine ed essiccatoi per castagne, ne ho contato una decina di questi edifici, ma altri devono essere da qualche parte, persi nel bosco.

Ognuna ha il suo nome che deriva da chi l’ha costruita o abitata a Ca du Maggiu a cascina du Brascian ecc.

Questa zona gronda d’acqua, sono molteplici le vinvagne d ‘equa che erano convogliate verso l’Arpiscella dau u surcu du Gua.

Oggi è l’acquedotto di Savona che ha la concessione idrica e fa pervenire l’acqua captata, nella grande vasca sopra l’Alpicella, nei pressi di un telone blu, al disotto del quale giacciono, chissà per quanto tempo ancora, i resti del “Niccio du Bruxin” diruto a dicembre 2020.

Oltrepassato il ponte, ancora una cascina, sulla strada e altri terrazzamenti con edifici fagocitati dalla lelua.

Sarebbe bello e molto importante, ricordare il nome di tutti questi manufatti, perché non si perda la memoria, di questi insediamenti e del lavoro di generazioni, che qui hanno tratto il loro sostentamento e cresciuto dei figli.

Mi meraviglio, al cospetto di questo gruppo di case in pietra, di buona fattura con i loro intonaci colorati, tutte costruite seguendo l’andamento della carrareccia, questo denota l’importanza che doveva avere questa via di comunicazione .

In effetti non molto tempo fa, questa era la direttrice più veloce, per chi proveniva da Vase e doveva oltrepassare per commerci o altro il giogo dei Giovi.

Questa strada, una Via del Legno, trovava la sua naturale prosecuzione, verso Fo Lungo, costeggiando il fiume Teiro e mantenendo grosso modo, la stessa altitudine, raggiungeva il Giovo.

La costruzione di altre viabilità, nuovi commerci , ma soprattutto lo sconvolgimento economico e sociale perpetrato dai due conflitti mondiali, deposero per il decadimento e lo spopolamento del nostro entroterra,delle sue strade e delle sue abitazioni.

Restano questi diruti edifici, in memoria di chi, anche agli Armuzzi,aveva radicato la sua famiglia, tiò sciù na nio’ de figgi e sciàppo’ a schenna a cavò o a taggiò e rubelò di erbui.

Chi ha spianato u pra da Bellafia e costruito quella bella casa, colorata di rosa? Chi ha dissodato quel terreno e formato quei due enormi cumuli di pietre, risulta di un massacrante lavoro di bonifica, per rendere questo terreno coltivabile?

Chi ha anche manutenuto costantemente in buona efficienza, la “stra da lese” nome derivato dal più importante mezzo di trasporto, utilizzato nel nostro entroterra ?

Lese carighe de legnu, che da sti bricchi arrivavan a Vase, per esse travagiè da e ciunne e sere a nastru, dai banchè de Teiru pe fo de toe, taggiè cieghè e incioè dai meistri du Ciantè.

Se si osserva il selciato di questa antica strada, si può scorgere il segno lasciato dalle “lese” che hanno consumato i spigoli delle pietre .

Siamo al cospetto del severo del Bric Voltui, forse una licenza dialettale del termine voltaprie, voltatufiu volta pietre, volta tufo, oppure derivare dal termine voltor avvoltoio falcone, preferisco la seconda ipotesi, anche perché i versi di alcuni rapaci in volo, mi hanno tenuto compagnia durante tutto questo tragitto.

Sul Bric Voltui ho ambientato un mio racconto/leggenda.

Dopo la Ca da Bellafia, proseguendo la strà da lese, si arriva all’area di sosta del Piccolo Ranch, ma prima si incontrano altri toponimi

La strada passa al disopra de Prie di Furni, poi con un’irta salita oltrepassa la Rocca da Giusa e il Pizzu da Rocca, si arriva d un pianoro denominato Cian de Beiru, che spiana la strada nel grande prato de Cianzausu, continuando si oltrepassa lo stagno dove nelle serate estive gracida la Rana Temporaria, la rana rossa del Beigua e si arriva presso la bella ed attrezzata area pic nic,del Piccolo Ranch, già Cian de Moie

In questo lembo del nostro entroterra, l’elemento liquido, la fa da padrone, laghetti, rian, prese d’acqua, rigagnoli da guadare “smogge” con le inconfondibili tracce lasciate dagli ungulati.

Questa escursione, evidenzia, ancora una volta, che dove c’era abbondanza di acqua, un sentiero e poi una strada, l’uomo nelle diverse epoche, vi si è radicato e lì ha modificato l’habitat, per le proprie esigenze, costruendo cascine, abitazioni, ponti, strade, muri.

Itinerario consigliato, in auto verso la Ceresa,al bivio si prende a sinistra la strada per l’ex cava dei marmi, si parcheggia l’auto al secondo bivio ( quello dove ci sono dei grandi massi squadrati) e si prosegue a piedi per la strada di sinistra in leggera discesa, al successivo bivio si prosegue a destra verso il fabbricato dell’acquedotto.

Dopo una breve salita si arriva ad un valico dove la roccia è stata tagliata per allargare la sede stradale.

Ora il sentiero spiana e poi sale qui si incontrano le prese dell’acquedotto,si arriva agli Armuzzi attraversando U Punte du Rian dell’Ommu Mortu, restando a debita distanza dall’ edicola votiva pericolante da dove anche la Madonnetta per “precauzione” è stata tolta o trafugata.

Si prosegue, incontrando ancora diverse case e cascine e in circa 45 minuti si arriva all’area attrezzata del Piccolo Ranch.

Ringrazio per loro gradite informazioni i sig. Aldo Caviglia e Giovanni John Ratto.

L’Altare della Patria

Il 4 novembre del 1921, nell’Altare della Patria, fu tumulato il Milite Ignoto.

Ho un mio ricordo, legato al Vittoriano.

Del mio anno di naia, da settembre 1977 a ottobre 1978, non ho un buon ricordo, è stato un’anno da buttare, io non ho mai avuto vent’anni e a chi oggi, auspica il ritorno del servizio di leva, per “raddrizzare” le giovani generazioni, vorrei solo ricordare che fare il militare, non è solo divisa e disciplina, ma anche solitudine, sottomissione e disperazione.

Feci 650 km, per andare a imparare a marciare e dire signorsì al CAR di Ascoli Piceno, a ottobre fui inviato alla scuola di specializzazione della Cecchignola, a Roma, un’immensa, inutile città militare, a gennaio fui a trasferito a Bologna in un casermone, perso nella nebbia della campagna, qui a marzo, subimmo l’allerta militare dell’esercito, a seguito del rapimento Moro.

A novembre del 1977, ero militare a Roma, nella caserma Emanuele Filiberto, la famigerata SMECA

La mia compagnia, fu comandata per la guardia all’Altare della Patria, io fui tra i prescelti e feci due guardie all’Altare il 19-20 e il 24-25 novembre del 1977

Servivano dieci soldati e un sottufficiale, furono scelti quelli con la statura più alta, si iniziava alle 8 del mattino per 24 ore, con turni di un ora e quattro ore di riposo.

Ci fu un siparietto comico, quando per fortuna, prima di partire, ci fecero provare la divisa da libera uscita, quella che dovevamo indossare durante il servizio di guardia al Milite Ignoto, con i cappotti invernali che erano in nostra dotazione.

Era una scena fantozziana c’era chi aveva un pastrano di due taglie più grandi, da dove non fuoriuscivano le mani, chi come me, aveva le maniche che arrivavano a malapena al gomito !

Un’armata Brancaleone!

Ci fu uno scambio di cappotti, fra doi noi e chi non aveva trovato la taglia giusta fu esonerato dal servizio.

Ricordo ancora il lungo e freddo viaggio, verso il centro città, a bordo dei camion telonati

Disorganizzati, senza aver effettuato delle prove, fummo mandati allo sbaraglio!

Non ci fu impartita nessuna istruzione, di come fare il cambio della guardia, al monumento simbolo della Patria!.

Decine di turisti e spettatori, aspettavano il momento clou della loro visita al Milite Ignoto, pronti con la loro macchina fotografica ad immortalare la scena.

Quando fui di fronte alla guardia smontante, un marinaio, lui già esperto, mi suggerì sottovoce e con la mimica facciale, gli spostamenti da fare…….. fai un passo a destra……. poi avanti…….un passo a sinistra…….. dietro front……. saluto e riposo!

Fummo immortalati migliaia di volte, ricordo in particolare le torme di turisti giapponesi.

Poi c’erano quelli, molti italiani, che si mettevano in posa avendo noi , come sfondo

Per l’occasione, al secondo servizio di guardia all’Altare, portai la mia macchina fotografica, un ferrovecchio che faceva anche foto discrete, ma quel giorno non so che cosa combinai, non misi bene il rullino e così ho il grande rammarico,di non aver un ricordo fotografico di quel 25 novembre del 1977.

Era tassativo restare fermi, immobili, ai lati della tumulazione del Milite Ignoto, per ogni emergenza, potevamo solo premere un pulsante di allarme, posto alle nostre spalle, che faceva suonare un campanello al posto di guardia.

Ricordo il freddo di Roma, nelle ore notturne e quei bracieri sempre accesi ( ma con il buio la fiamma era abbassata) troppo lontani per scaldarci e in piazza Venezia, la pantera dei Carabinieri a guardia del monumento e per controllare noi soldatini.

Forse fu il vitto arrivato scotto e freddo, quella notte gelida, le concause del malore che colpi il mio collega, dall’altro lato, mi pregò di chiamare aiuto, prima di accasciarsi al suolo , premetti a lungo il campanello.

I carabinieri, a bordo della volante in piazza Venezia, accesero quasi subito il faro sopra il tetto dell’auto di servizio, puntandolo contro il posto guardia sguarnito.

Io rimasi fermo, chiesi se voleva aiuto, mi rispose di no e di restare al mio posto.

Continuai ad avere un riscontro vocale con lui, ma ero anche pronto a lasciar posto e fucile per andare a soccorrerlo

Arrivò il capoposto accompagnato da due guardie, una di loro si mise al posto del poveretto che fu sorretto e accompagnato al posto di guardia

Quel faro, puntato su di noi dalla piazza, si spense.

Subito dopo i carabinieri entrarono al Vittoriano e presero il nome del mio collega che fu denunciato.

Qualche giorno dopo, convocato dal colonello della caserma, dovette raccontare la sua versione dell’accaduto.

Finiti i turni di guardia, il solito camion ci riportò alla Cecchignola, passando accanto a due senzatetto, mentre stavano raccogliendo, con un cucchiaio dal cassonetto dei rifiuti, quel rancio freddo e immangiabile, che noi soldati avevamo gettato nell’immondizia.

Quell’anno con le stellette,i miei vent’anni, li conservo in una scatola.

Il Riparo Sotto Roccia

Allantua tutti stavan sutta na pria

Se capita, di transitare in auto, di notte, salendo, in direzione di Alpicella, sorpassata la località “In Cada-na” ci sorprende il fitto buio, che avvolge le pendici del monte Cucco, alla nostra sinistra, oltre l’alveo del Teiro, dove è stato scoperto e esplorato da Mario Fenoglio negli anni 1977/79, il Riparo Sotto Roccia, in località Fenestrelle.

Il toponimo Fenestrelle, sembra derivare da finestra e stelle, intesa come una radura in mezzo ai boschi da dove si poteva guardar gli astri e dove i nostri avi veneravano i loro dei.

Il buio per i nostri lontani antenati era foriero di pericoli.

E se fossimo transitati nottetempo da quelle parti, migliaia di anni fa, nel neolitico o nell’età del bronzo, avremmo intravvisto, tra gli alberi, un falo’, tenuto sempre acceso.

Un fuoco per riscaldarsi, per allontanare gli animali e anche verosimilmente per difendersi da altri gruppi, magari quelli degli Armuzzi.

In quest’altro grandioso sito preistorico, primordiale insediamento umano dell’Alpicella, è molto probabile, che, nel Neolitico Medio,ci fosse un altro gruppo, molto numeroso e stanziale.

Nella perenne lotta per la supremazia dei più forti sui più deboli, quelli degli Armuzzi avevano già cercato di sorprendere diverse volte, gli uomini di guardia al riparo di Fenestrelle, per impossessarsi degli animali, del cibo o compiere qualche ratto di donne.

Chissà quali accadimenti avvennero, in questo sito preistorico!

Intorno a noi si percepisce un’antica violenza

E come immutevoli testimoni restano le pietre, che ancora si trovano Spantegate, disperse o emergono dalla terra, poste in buon ordine a formare i basamenti di quelĺo che poteva essere un primordiale villaggio.

Secoli fa, in questa radura, si sono perpetrate, vere e proprie razzie di pietre distruggendo tutto quello che era stato costruito.

Quando l’ultimo dei nostri avi, abbandonò o fu cacciato da questo posto, non ci fu pace a Fenestrelle.

Ci furono vere e proprie razzie della materia prima, per uso edificatorio, sottratta a questo sito.

Pietre che sono parte dei muri di qualche vecchia cascina dei dintorni.

Anche per costruire la ” Ca de Fenoglio”, deposito di attrezzi, durante gli scavi archeologici.

Non meno devastanti, sono state le distruzioni sistematiche dei luoghi di culto pagani, perpetrati su tutto il nostro territorio con l’arrivo del Cristianesimo in Liguria.

Il Cristianesimo ha imposto i suoi simboli religiosi e distrutto tutte le testimonianze di antichissime devozioni, che erano presenti, sulle le cime dei nostri bricchi e nei luoghi più suggestivi del nostro entroterra.

Gran parte dei luoghi di culto cristiano, dove si gode della bellezza del creato, sono stati edificati sulle vestige di altri primordiali culti.

Nella visita sempre interessante del Riparo sotto Roccia, luogo molto antropizzato, è necessario a mio parere osservare sempre con la curiosità della “prima volta” l’ambiente che ci circonda, io stesso quando capito per l’ennesima volta in questo sito, scopro cose nuove, mai notate prima.

Ampliando il raggio di visita, in questa zona alle pendici del monte Cucco, ci si rende conto, che il Riparo sotto Roccia è solo, anche se molto suggestiva, una piccola parte di altre numerose testimonianze di presenza umana a mio parere non sufficientemente indagate.

Suggestivi i nomi dei spuntoni di roccia che sovrastano il sito di Fenestrelle sono la Rocca Due Teste e Rocca da Stria. La strada che sale in leggera salita, arriva ad un pianoro, dove alla nostra sinistra si trova un primo riparo sotto roccia.

Qua è necessario fare una prima sosta e osservare bene quello che ci circonda anche allontanandosi da quello che è il percorso principale.

Proseguendo in direzione del riparo, si incontrano i simulacri di due cerchi di pietre, probabili luoghi di culto, oppure recinti per animali, le cui pietre sono state divelte e di queste, alcune giacciono nelle vicinanze, disordinatamente accatastate.

Proseguendo, la strada si fa decisamente in salita, per arrivare al cospetto della grande roccia, che offriva riparo e luogo comune di coabitazione nel neolitico a diversi gruppi di nostri antenati,

Di questo sito archeologico si sanno molte cose, impossibili da elencare in un post, ed è quindi d’obbligo e molto interessante, effettuare una visita al museo Archeologico dell’Alpicella, dove sono in mostra i reperti che sono stati ritrovati durante gli scavi, la storia e i plastici che riproducono il sito.

Sono diversi i probabili insediamenti umani sotto roccia, nel territorio del nostro Comune, degni di essere studiati o anche solo censiti

Altri gruppi di esseri umani, erano agli Armuzzi località sopra l’abitato di Alpicella, altri possibili ripari sotto roccia potevano essere in ta “Liggia” quella cascata di pietre sulle pendici del Monte Greppino, anche al disotto del Bricco delle Forche, dove anche in questa zona sono presenti delle rocce sporgenti, oggi completamente interrate, possibili ripari contro le intemperie.

Un’altro sito di interesse archeologico è la zona delle Agugiaie sopra la località di Campomarzio, zona molto impervia e oggi impraticabile per l’eccessiva vegetazione.

La strada sempre in salita oltrepassa il Riparo Sotto Roccia.

E con un paio di tornanti, in mezzo ad un lago di foglie secche.

Arriva sulla sommità della roccia di Fenestrelle, dove sono presenti due “sbaragge” postazioni per cacciatori.

Qui alla vista ancora muretti a secco e molte piante di pungitopo a rinverdire il paesaggio autunnale di un bosco ceduo.

Proseguo per cercare altre tracce di manufatti in pietra e invece trovo le tracce della nostra era di inciviltà, quelle che proprio qui non avrei voluto trovare….

Bottiglie di vetro, lattine di bibite e tanta plastica sotto forma di sacchetti bottiglie, contenitori di cibo ecc.

Proseguo seguendo questo scempio e trovo anche uno scaffale da cucina e un pericoloso televisore a tubo catodico, gettato al di là del guard rail che delimita la strada di collegamento Alpicella S.Martino che scorre proprio sopra questo sito archeologico.

Penso con amarezza che questa “rumenta” sopravviverà, per decenni, e sarà quello lasceremo in eredità ai nostri posteri!

Al ritorno oltrepassato il Riparo sotto Roccia, deviando dal sentiero principale salendo alla nostra sinistra, si incontrano alcune “pose” a testimonianza di soprastanti luoghi di fienagione du Briccu du Carmu o da Becca.

Poi ancora scavalcando un gruppo di rocce, si scopre all’improvviso un’inquietante altissimo spuntone roccioso, A Rocca dell’Ursu, chiamata così perchè qui furono trovate delle ossa di plantigrado, alla base un altro riparo sotto roccia.

Delimitato da un recinto in pietra, di epoca più recente, forse usato per animali domestici, ora invece da quelli selvatici visti i numerosi segni lasciati da caprioli, cinghiali ecc .

Lascio questa zona con un riparo sotto roccia altra bella testimonianza dell’insediamento dei nostri avi in questo territorio.

Allantua stavan tutti sutta na pria.

Questi gruppi di esseri umani, che da nomadi divennero stanziali, costruirono le prime rudimentali capanne forse proprio a Fenestrelle.

Nella evoluzione abitativa avranno coesistito le due tipologie con l’utilizzo della pietra e del legno.

La capanna era molto più confortevole ma in caso di forti piogge tutti scappavano ancora a cercar rifugio sutta na pria!

01 novembre 1968

Il primo novembre 1968 fu una giornata tragica, pe quelli Sciu da Teiru.

Alle prime luci dell’alba, la piena del fiume tracimò dall’alveo, in diversi punti, il lungo Teiro a partire da Gambun fu completamente invaso dall’acqua.

Il torrente Arzocco, esondò allagando la zona della Camminata e della Sottostazione Elettrica

Il fiume in piena distrusse il ponte in località Frati.

La cianca Da Cin-a resistette alla piena

Il ponte dau Laguscuu fu gravemente danneggiato.

Alcuni degli opifici ancora in funzione Sciu da Teiru subirono danni

Il Teiro uscito dagli argini dau Turtaiò de Gambun, allagò le zone du Bachettu, Bosin e u Pasciu.

Presso u punte du Rissulin in tu Pasciu, i vegetali trasportati dall’acqua, bloccati dal ponte, formarono una barriera, facendo uscire il fiume dagli argini.

Allagando il Parasio e i Busci, la locanda della Besestra, fu semidistrutta.

Un’altro punto di esondazione del Teiro, ci fu in via Montegrappa, dove esondò anche il rio Moerana

Il Teiro usci dall’argine sinistro dau Marasin, allagando la zona della Camminata e l’edificio scolastico .

L’ Arzocco, con il Teiro in piena, non potendo scaricare le sue acque, esondo’ allagando la zona della Camminata, la Sottostazione Elettrica e oltrepassò u Garbassu.

L’esondazione arrivò anche in via Ciarli, dove padre e figlio, intenti a verificare l’allagamento del loro locale forno, persero la vita per elettrocuzione

Acqua e fango invasero i piani terra delle abitazioni, negozi e garage.

Molte le auto fuori uso.

La forza dell’ acqua, da Ca di Pelosi, fece crollare parte del muro di sostegno della strada, nella parte alta di via Montegrappa oggi via Scavino, ma nei pressi della Ciusa da Fabrica, la furia dell’acqua, asportò tutto il materiale, di quella che era una vera e propria discarica abusiva, svelando la bella opera di presa per il Cotonificio.

Dalla Ciusa da Fabbrica, l’acqua scavo’ fin sotto le fondamenta della falegnameria Baglietto Paolo e gran parte del legname, che era accatastato, fu trascinato via dall’ondata di piena del Teiro, mai più recuperato

A causa della rottura di alcune tubazione dell’acquedotto la città rimase per alcuni giorni senz’acqua

Negli anni 70, era il fiume Teiro a far paura, per l’impressionante quantità d’acqua delle sue piene e quasi sempre, erano allagate le zone del Bolzino, Parasio, Lomellina e della Camminata.

Ci volle la tragica esondazione di Genova del 1970, perchè fossero stanziate delle risorse, per mettere in sicurezza alcuni torrenti, tra cui il Teiro.

Furono ricostruiti e rialzati i parapetti di via Montegrappa, via Piave e via Emilio Vecchia .

Nella zona du Muin a Vapure fu eretto ex nuovo un muro d’argine.

Ma solo negli anni 2000 fu demolito u Punte du Rissulin, causa delle esondazioni du Pasciu, ricostruito più a valle.

Oggi il Teiro non è più il problema primario, in caso di nubifragio, anche a seguito della modifica del deflusso dell’ Arzocco.

Via Scavino 4 ottobre 2010

Un nuovo pericolo grava sulla nostra comunità, è il fenomeno delle tempeste “autorigeneranti” con grandi quantità d’acqua, che si riversano in pochissimo tempo, lungo il nostro litorale, portando al collasso la parte finale “tombinata” di tutti i rii affluenti del Teiro.

L’acqua straripa e trova il suo naturale percorso lungo le strade.

Gli alvei, canali sotterranei e tubazioni, dovrebbero essere monitorati e dove è possibile, essere messi in sicurezza, aumentandone la portata

Foto b/n Archivio Fotografico Varagine

Ai Laghetti

I Laghetti du Pei, anche detti de Campolungu, dal nome della località che li sovrasta.

Dau Pei, cun a macchina se passa Ca-dana, u lagu Bagnò e u s’arrive dai Cadelli a questo punto si lascia l’asfalto e si prosegue, per la strada sterrata, che inizia a metà della curva.

Il percorso è carrabile, finchè si arriva a delle abitazioni, poi diventa un sentiero invaso dai rovi e non manca na sbiggia, una frana, a complicare il tragitto.

Questo era l’itinerario classico, che facevamo noi zuenotti, molti anni fa pe andò ai Laghetti.

Oggi, visto lo stato di impraticabilità di questo sentiero è da preferire il tragitto, che diparte da via Campolungo e scende in sponda destra del Teiro.

Comunque sia, le suggestioni che regala questa zona del Sciu da Teiru, sono impagabili e valgono ben qualche graffio da rovo!

Si continua il sentiero, finchè si raggiunge la stessa quota dell’alveo del Teiro, il punto di convergenza, è segnalato da un’ampia radura, con un gigantesco monolito solitario.

Arrivati sulle sponde del fiume, si è al cospetto del gigantesco lavorio perpetrato dall’acqua, che in milioni di anni ha scavato, levigato e contorto, questo gigantesco affioramento di roccia serpentinoscisto.

La zona più blasonata, è chiamata dau Lagu Riundu o da Pria da Testa, come si evince da quel masso, dove forse volutamente, sono stati scolpiti occhi naso e bocca.

Lungo questo tratto del sciu da Teiru ci sono altri due laghi u Lagu Neigru e u Lagu Scu, anche quelli, penso, difficili da raggiungere a causa della vegetazione.

Enormi rocce solitarie, erranti… boulder per appassionati di free climbing, che arrampicano in questa zona, da loro denominata Potala, dal nome di una delle meraviglie architettoniche dell’oriente, l’ex dimora del Dalai Lama, che si erge sopra un’altura a Lasha, citta santa del Tibet

Il sito free climbing di Potala è stato reso famoso da Marco Bagnasco, Roberto Armando e i coniugi Core/Marchisio, che scoprirono  la maggior parte dei boulder, divulgati in rete e divenuti famosi.

Potala è frequentata da migliaia di climber ogni anno, quasi tutte le rocce, scalate da questi appassionati, sono nel versante che scende da Campolungo.

https://www.infoboulder.com/varazze.php?mod=news&inizio=60

In questo link alcune informazioni di Boulder Varazze.

Mitologici/fiabeschi i nomi delle varie zone di Potala: Andro dei druidi:Druidi (basso): Piccola area: Dimora degli elfi: Terra di mezzo: River block: 

Impressionante il numero di boulder censiti con proprio nome e grado di difficoltà ben 91 !

Ho visitato Potala e si capisce il perchè sono stati scelti quei nomi.

L’ambiente è da fantascienza!

L’acclive versante di Campolungo è cosparso di enormi massi di ogni forma, rotolati a seguito di qualche cataclisma chissà quando, alcuni finiti nell’alveo del Teiro.

Diversi sono gli anfratti, che forse celano altri ripari sotto roccia, occasionali rifugi in caso di maltempo o per tribù erranti, del neolitico.

Un paio di pietre fitte delimitavano qualche recinto o confine.

In una radura una grande stele abbattuta, era forse un menhir? Eretto in onore di qualche capo tribù o per ringraziare qualche divinità?

Erano tre i climber che oggi si esercitavano su queste rocce, tutti dotati di crashpad, il materassino paracadute, scarponcini da boulder e l’immancabile magnesite.

Ritorno al Teiro e mi soffermo a fotografare le bellissime rocce stratificate, erose dall’incessabile lavorio dell’acqua in prossimità dello scivolo che è l’attrazione principale dei Laghetti.

Risalgo il torrente, dove in un’ansa di un ristagno d’acqua, si sente distintamente, il rumore cupo, di qualche sifone d’acqua, che testimonia la presenza, in questo enorme affioramento roccioso, di qualche cavità sotterranea scavata dall’acqua .

Mi soffermo a guardare l’imbuto d’acqua che fuoriesce dau Lagu Riundu quella è la misura di portata del Teiro, esigua per questo stagione, stranamente, ma fortunatamente con scarse precipitazioni

Sulla via del ritorno, cerco altre testimonianze di antropizzazione, in questa zona ampi terrazzamenti coltivati erano irrigati dall’acqua del Teiro, alcune piante di alloro, nocciole e fichi tramandano l’antica destinazione d’uso di questi luoghi, onnipresenti i ruvei e le brughe e una rarità, alcuni cespugli di Carex .

Un’altra zona della nostra città da valorizzare, ben conosciuta dagli appassionati dei boulder e dai giovani che arrivano nella bella stagione per un bagno e i scivuli in tu Lagu Riundu.

Ma attenzione sono da evitare i tuffi e mai avventurarsi da soli lungo il corso di questo e di altri torrenti.

Ai Laghetti du Pei, ci sono stati diversi incidenti, purtroppo anche molto gravi.

Percorro a ritroso quel sentiero che feci molte volte in compagnia di amici, con il mio cinquantino, molti, troppi anni fa.

Gli articoli sono di libera fruizione e possono essere utilizzati in copia, previa comunicazione e citando la fonte, in alcun modo ne deve essere modificato il testo.

Da a Crusce a Natta

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Un percorso ad anello, da effettuare in auto, è quello che arriva al Santuario della Croce di Castagnabuona e poi tramite via alla Croce raggiunge la località Natta di Celle.

Il monte Croce è uno dei punti più belli e panoramici di Varazze, ma è anche il luogo dove avvennero i due fatti storici più importanti della nostra citta, il transito di papa Innocenzo IV in fuga da Federico II e la Battaglia di Monte Croce tra i francesi del generale Massena e gli austo-ungarici.

La storia del Santuario di Nostra Signora della Croce di Castagnabuona, è tratta dal sito web “La Confraternita di Castagnabuona”, questo luogo di devozione nel 1244 ha visto passare un papa, Innocenzo IV nella sua fuga dall’Imperatore Federico II.

Il pontefice dalla sommità del monte vide le galee di Federico II entrare nel porto di Savona giunte per catturarlo e riuscì a mettersi in salvo.

Il papa proseguì poi per Stella San Martino percorrendo la strada che risaliva il torrente Malacqua.

Per ricordare questo importante avvenimento, lo stesso anno gli abitanti di Castagnabuona, costruirono un pilone con una croce che diede il nome alla collina: Monte Croce

Nel 1657 la peste colpì Castagnabuona provocando molte vittime.

In quel periodo una pietosa donna di casa Accinelli della borgata di “Tessarole” si recava ogni sabato alla cappella della Madonna, per rifornire la lampada che ardeva davanti all’immagine portando con sé la chiave della porta, della quale non vi era copia.

Da un sabato all’altro, trovava la lampada sempre accesa e con olio sufficiente, come se vi fosse stato aggiunto da poco.

A ricordo di questo fatto, i massari posero una lapide ora scomparsa.

Nel 1745 davanti alla piccola cappella, fu costruito un porticato per il riparo dei viandanti e dei pellegrini e due finestre.

Nel 1790, nel punto dove la tradizione vuole che l’unico albero di ulivo della zona sia scampato al terribile gelo del 1709, iniziarono i lavori per la costruzione del santuario.

Gli abitanti della frazione diedero anima e corpo per i lavori.

Anche la colonia di pescatori varazzini di Gibilterra, venuta a conoscenza dell’iniziativa, inviò offerte con le quali fu acquistato il meraviglioso altare in marmo ancora oggi visibile, con relative balaustre e cancelli.

Nel 1799 i lavori terminarono e il 18 ottobre la nuova chiesa fu benedetta.

La zona fu teatro di scontri tra le truppe austriache e quelle francesi guidate dal generale Andrea Massena nell’aprile del 1800. (Questo episodio fece la fortuna di un cercatore di tesori qualche anno fa con il ritrovamento in zona di alcune monete d’oro, d’epoca napoleonica), …..continua sulla pagina web “La Confraternita di Castagnabuona”.

Oggi l’intero complesso religioso, avrebbe necessità di interventi di restauro, consolidamento e di messa in sicurezza, nelle foto sono evidenziati alcuni sostegni per l’architrave dell’antica cappella del 1244.

https://fondoambiente.it/luoghi/santuario-di-nostra-signora-della-croce-castagnabuona?ldc

Il complesso del Santuario di Nostra Madonna della Croce è stato proposto dal FAI come luogo del cuore, ma ad oggi è stato poco votato, scarso l’interesse della cittadinanza, per la salvaguardia di questo patrimonio di storia e di lavoro dei nostri “vecchi. Forse l’iniziativa è stata poco pubblicizzata o il Santuario è troppo decentrato, non offre la visibilità che offrono altri monumenti o Chiese, aggiornato al 2020, solo 22 voti, compreso il mio, che valgono a questo posto del cuore il 855° posto!

Dalle foto si evidenziano le diverse tipologie costruttive dalla primordiale cappella in stile rurale, alla chiesa in stile neoclassico, con il campanile in stile romanico molto simile au campanin di S.Ambrogio, bella la canonica con il suo stile lineare.

Dal porticato, si puo’ osservare l’interno dell’antica cappella, dove si intravede il bel altare in marmo con colonne e in alto appesi alla capriata, gli ex voto, bastoni di sostegno, grucce, un casco e quella bici reduce da un terribile impatto, chissà se c’è chi oggi, ricorda la storia delle persone, che hanno portato qui in questo luogo sacro, per grazia ricevuta, questi oggetti, testimoni di scampati pericoli o di qualche miracolosa guarigione.

Lascio il Santuario e imbocco la strada, via alla Croce sterrata, ma con un bel fondo in ghiaia, in direzione della Natta, al bivio di colle Gangi, siamo nel territorio del comune di Celle, si prende la strada in discesa a sinistra, si raggiunge bric Oliveto, tramite un panoramico tracciato e poi la ripida discesa del monte Tabor, chiamata non a caso via Spunciun!

Alla Natta due sono le attrazioni vegetali, in primis nel grande parcheggio dello stadio, l’enorme pino marittimo senza rivali in zona, come maestosità e altezza e poi ci sono le rarissime querce da sughero che danno il nome a questa località.

Un tempo la raccolta del sughero era una bella fonte di reddito per il nostro territorio, peccato per la recinzione che include l’esemplare piu vecchio.

E’ stagione di funghi e sembra sia anche il momento giusto per i sanguin, già che sono qua alla Natta faccio un giro.

Ma dopo una ventina di metri nella boscaglia, qualcosa attira la mia attenzione, sono al cospetto di una barriera di rami, che sembrano celare qualcosa e infatti aggirando questa schermatura, mi ritrovo in una specie di “accampamento” da tempo abbandonato.

Dove è stato introdotto un tavolo in legno con sedie, probabilmente prelevato dalla vicina area pic nic, molti rifiuti di generi alimentari una sedia, sacchetti di nylon antipioggia e probabili giacigli.

Questa radura dalle dimensioni ragguardevoli è capace di ospitare molte persone.

Azzardo un’ipotesi probabilmente questo è stato un punto di sosta dei tanti disperati che transitano nel nostro paese, silenti sopra le nostre autostrade, stipati nascosti a volte asfissiati negli autotreni.

Per raggiungere altre mete, non il nostro Bel Paese che oramai anche a loro non offre più nessuna occasione di lavoro.

Erano dei giovani uomini in forza quelli che hanno trasportato il grosso tavolo e poi costruito questa barriera per non essere visti, una forza lavoro che sarà sfruttata, malpagata da qualcuno in questa nostra Europa, degli egoismi e dei nazionalismi, forse hanno aspettato per giorni un altro vettore che arrivasse dalla vicina autostrada per proseguire il viaggio.

Chissà quante cose avrà visto, quel grande albero nella sua vita…..Questo succede oggi nel nostro paese, dalla pace e solitudine di un colle dove la storia è un passato lontano, al presente doloroso dei giorni nostri, con la disperazione di esseri umani nascosti in un bosco pronti per esserre stipati in uno dei tanti viaggi della speranza.

La Peste

Il morbo della peste, fu il terrore più grande in Europa nel 1300 e poi ancora periodicamente per altri quattro secoli.

Le popolazioni sono in preda di un nemico invisibile, nascono le diffidenze e i sospetti fra le persone, ciascuno si ritira nella propria abitazione.

Si sospendono i rapporti sociali e si evitano i contatti umani, perché, anche se privi di conoscenze scientifiche, si sa comunque, che il nostro prossimo, a maggior ragione se sconosciuto, è un potenziale portatore della malattia.

Per combattere questo male, a poco servirono le scarse conoscenze mediche, spesso ci si affidava, oltre che alla preghiere e alle superstizioni, ai rimedi popolari e all’operato degli stregoni.

Le epidemie si propagarono enormemente, seguendo percorsi misteriosi, ma in realtà il virus, non faceva altro, che seguire, passo passo, le stesse strade che faceva l’uomo!

Il viaggio della peste nera: l’assedio di Kaffa

Indagini storiche, fanno risalire, l’arrivo della peste in Liguria, a seguito delle conseguenze dell’assedio della città di Caffa, colonia genovese sulle coste del Mar Nero, da parte del Khan Gani Bek.

Le truppe tartare, furono decimate, dalla peste e il condottiero dovette desistere dal suo intento, ma prima di abbandonare l’assedio, fece catapultare, oltre le mura della città, alcuni cadaveri dei suoi uomini morti di peste.

Finito l’assedio, seppelliti i morti la città di Caffa riprese la sua vita commerciale e i suoi traffici marittimi, le navi si trasformarono così in “messaggeri di morte”

Cronache dell’epoca narrano di navi alla deriva, con interi equipaggi deceduti, a seguito del morbo.

Quando si avvistava l’arrivo di queste imbarcazioni impestate, si chiudevano i porti, negando l’approdo anche a navi della propria flotta mercantile.

Solo quelle che avevano a bordo dei carichi preziosi, potevano barattare lo scalo, con le merci che trasportavano.

Da questo momento, è storicamente annotato, l’andamento ciclico, delle epidemie pestilenziali, che colpirono l’Europa.

Fai clic per accedere a PESTE_lezione.pdf

La più grande epidemia, che colpì la nostra città, fu quella del 1300, che decimò la popolazione e “fece crescere l’erba sulle soglie delle case”. e si è ipotizzato, al termine dell’evento, per i sopravvissuti, una specie di immunità dovuta allo sviluppo di specifici anticorpi, di cui potevano godere gli scampati.

Questa protezione durava circa una ventina d’anni, in questo lasso di tempo, la peste si presentava ancora ogni 2/3 anni ma in forma sporadica e meno infettiva.

Si può affermare, che per oltre quattro secoli, ogni persona che avesse raggiunto l’età adulta, era venuta in contatto, almeno una volta nella propria vita con il morbo della peste.

Secondo la scuola di Ippocrate, il contagio aveva origine dalle esalazioni putrescenti dei corpi e si propagava nell’aria.

Questa teoria non fu mai messa in discussione.

Allora ecco che la profilassi riguardava unicamente, il rilascio di vapori benefici in grado di bloccare l’aria contaminata , ogni sostanza vegetale che emanasse un odore gradevole era usata, di solito bacche di cipresso ginepro e rosmarino, i soliti ricchi potevano permettersi l’uso di cannella, chiodi di garofano e noce moscata per profumare l’ambiente e il corpo.

La gente più semplice, il popolo, doveva accontentarsi delle erbe aromatiche, raccolte nei prati che portavano appese al collo, all’interno di un sacchetto.

Medicamenti

Ma anche le credenze popolari, avevano le loro convinzioni, le congiunzioni astrali, fenomeni celesti eclissi di sole o di luna, il passaggio di comete era poi presagio di sicure sciagure!

Ovvio in un territorio, come quello di Varazze, dedito da sempre alla coltivazione dell’ ulivo, non poteva mancare questo rimedio naturale, anche per debellare questa malattia.

Lazzareto di Genova

Ma l’uso dell’olio a scopo medicamentoso, per lenire le ferite o come unguento, arricchito di balsami, aveva i suoi effetti antivirali, perché inconsapevolmente, serviva a tenere lontane le pulci, che fuggivano all’odore dell’olio.

Un’altra pratica, che ebbe qualche effetto di contenimento dell’epidemia, fu quella di isolare all’interno di una abitazione due categorie di oggetti la biancheria e i libri.

La peste a Genova

Il bianco delle lenzuola, lo si è capito solo a seguito di studi, attirava irrefrenabilmente le pulci portatrici del morbo, questa biancheria stoccata in appositi locali e fumigata con aromi provocava lo sterminio di questi insetti, triste fine invece per i libri, erano quasi sempre dati alle fiamme, una grave perdita per la conoscenza.

A Savona, all’approssimarsi di una possibile un’ondata epidemica, si adottavano grandi misure di profilassi e di sicurezza.

Questi preparativi, erano simili ad una città che si preparava ad un assedio.

Erano poste delle guardie, alle porte della città, eseguiti grandi lavaggi delle strade, nelle concerie e nei macelli, scavati nuovi pozzi per l’acqua e assicurate grandi provviste, di granaglie, legna e paglia, ma servivano anche molte botti, contenente aceto che sarebbero servite per disinfettare l’aria.

Si vigilava che nessuno entrasse e uscisse dalla città, ma il nemico era già lì in mezzo a loro, nei meandri della citta, nascosto, al buio pronto ad attaccarsi ad ogni essere vivente.

Quando la pulce sentiva che doveva abbandonare, il corpo dell’animale, di cui era stata ospite, perché morente, allora diventa aggressiva, e si metteva alla ricerca del sangue di una nuova vittima.

Il testo è tratto dalle pubblicazioni dell’Associazione Culturale S.Donato, le arti pittoriche dell’epoca hanno descritto, con innumerevoli opere, le epidemie di peste.

L’uomo non riuscì mai a sconfiggere questa malattia.

E non ci riuscirono neanche i Santi o la medicina del tempo, il motivo della scomparsa della peste dall’Europa,fu scoperto molto tempo dopo, quando l’uomo ebbe gli strumenti e le conoscenze scientifiche per spiegare, come era stato debellato il morbo.

Mentre in superfice, gli uomini ringraziavano i Santi protettori, per il miracolo o diventavano ricchi con qualche medicamento miracoloso, nelle cantine e nelle fogne si consumava la vera guerra contro la peste.

Fu l’esito di un conflitto invisibile e sotterraneo, che combatterono milioni di ratti fra di loro, che determinò la scomparsa del morbo della peste dall’Europa.

Fu quello che oggi noi chiamiamo ratto di fogna il nostro eroe!

Il Rattus Norvegicus, proveniente dalla Russia, che ebbe la meglio, contro i piccoli ratti indigeni, il Rattus Rattus e il Mus Musculus portatori della pulce della peste.

U Punte di Peccetti

Lasciato il pianoro di Campumarsu, la via romana Emilia Scauri, raggiungeva la borgata di S.Luensu, dove, durante il sopralluogo del Rocca, furono individuate, a fianco della chiesa, alcune tumulazioni di epoca romana e poco distante i resti diruti di una fornace per mattoni.

A questo punto, la strada era impossibilitata, a proseguire in linea retta, perché sarebbe stato arduo, costruire e soprattutto rendere percorribile, una strada carrabile, visto il notevole dislivello per arrivare alla sottostante borgata oggi du Pei.

Dopo S.Luensu, gli ingegneri stradali, cercarono un percorso meno ripido, dirigendosi verso sud, attraversando la località Batto’, scendendo in Valloia per poi risalire nuovamente verso u Pei, paralleli al Teiro, fino ad attraversare il fiume, in località Posi e proseguire in sponda destra duvve ghe discian in Spalla d’Ursu.

Il toponimo Battò, dà il nome alla strada che da Valloia, si inerpica ad arrivare al bricco dei Peccetti e al Brichetto.

L’origine di Battò può significare, dal zeneise baatto`, baratto o disputa.

Il baratto, era la prima forma di scambio commerciale, è probabile che questa zona, crocevia tra le mulattiere che provenivano dalle località dell’entroterra, e la via Emilia Scauri, fosse zona di commercio o di baratto e le dispute, una diretta conseguenza di questi scambi.

Grazie alla gradita e interessante storia di questa zona, che mi racconta Bruno Rossi, proseguo la mia “esplorazione” partendo dau Brichettu per raggiungere S.Luensu.

La strada di Battò è interrotta dal rio Lampu, dove in sponda destra, si erge, maestoso, un bellissimo bosco di canne d’india, in questo punto, sono ancora visibili alcune pietre di un’antico sedime stradale.

Attraversato il corso d’acqua, dell’antica strada, non rimane che un viottolo, adiacente ad una casa, da dove inizia la salita, che arriva alla soprastante località di S.Luensu, attraversando la borgata detta di Saccun.

Anche questo toponimo può aver diverse interpretazioni, saccun in zeneise è il pagliericcio, antesignano della strapunta, materasso, forse in queste case di Saccun, si confezionavano/ricomponevano questi giacigli, ma saccu è il sacco, oppure ancora sacuna’ bastonatura o colpo.

Bruno, mi racconta dell’antica edicola, eretta chissà quando, al culmine della salita del Brichetto, contenente una statua della Madonna, acquistata a Savona e fatta consacrare nel 1965, da sua mamma Palmira.

Infissa in basso, nel pilastro, una lastra di pietra, una posa per chi in questo punto, scaricava dalle proprie spalle il pesante fardello del carico che doveva trasportare, per un momento di riposo e di preghiera.

La fatica, l’ingegno, la mano dell’uomo, è visibile, presente da ogni parte in contrada Battò, dalla strada messa in sicurezza e ampliata, con le proprie forze e risorse dagli abitanti di questa località, dove in alcune mancanze di asfalto emerge l’antico sedime di pietre “posò de costa” per meglio far aderire gli zoccoli degli animali che arrancavano o discendevano questa strada.

La grande vasca rotonda, fatta costruire da Luigi il papà di Bruno, per raccolta dell’acqua, eretta nel punto più alto.

I canali per l’acqua di irrigazione che sottopassano la sede stradale.

E’ una bella zona immersa nel verde, belle case ristrutturate, con i loro orti e frutteti, in una zona aperta e soleggiata, adiacente alla località Pancodo, pane caldo, cosi denominata la porzione di territorio soprastante i Posi.

Anche ai Batto` raccolgo testimonianze, da chi abita in questa zona, relative ai danni operati dagli animali selvatici, che compiono nottetempo, disastri alle colture e al terreno.

Per proteggersi da questo flagello sono state posizionate alcune recinzioni, che delimitano le zone prative.

Bruno mi accompagna in vista di quello, che è a tutti gli effetti, un mirabile esempio di costruzione in pietra, u Punte di Peccetti.

In questo punto della via romana, c’era un ponte ad arco che oltrepassava il rio dell’Ulmu, Olmo, probabilmente diruto a seguito di una alluvione o distrutto in qualche contesa territoriale,.

Bruno ricorda, dai racconti di suo nonno, che il ponte fu ricostruito a fine del 1800 o ai primi anni del 1900, dagli abitanti del posto, insieme ai piccaprie de Groppine, gli Scoppellin, che dovevano transitare, provenienti dalla Munta` da Cappelletta, con i loro carichi di pietre in direzione di Genova.

Il ponte originario, era il classico ponte romano ad arco premente, quello che noi oggi possiamo ammirare è un ponte formato da quattro enormi macigni, della lunghezza di circa due metri cad. posati sui muri, in pietra del precedente basamento, per scavalcare il corso d’acqua del rio dell’Olmo.

Ci si chiede, quale tecnica fu usata, per il trasporto sollevamento e posa in opera di queste pietre, dal peso di qualche tonnellata!

A fine ottocento già esistevano dei bighi, gru o paranchi, ma impossibili da trasportare sul posto.

Fu la sola forza delle braccia, la fatica l’ingegno, l’impegno dei nostri avi, tutti uniti per realizzare un bene comune, riuscirono nell’impresa, lasciando a noi posteri, il compito di mantenere, vivo il ricordo del loro immane lavoro, avendo cura di questi manufatti, che testimoniano vite vissute, nel nostro entroterra.

Gente povera ma dignitosa, che traeva il necessario per campare e tio` sciu` di figgi, sciu da Teiru, da un campo coltivato, da l’allevamento di animali e da altri lavori come le giornate a paga nei terreni altrui.

Peccetto è il nome dialettale di pettirosso, ma peccetto` vuol dire anche peccetta` litigare.

Se prendiamo per buono il significato delle parole, nella vicina località Battò in tempi remoti si praticava il baratto, il toponimo peccettò, potrebbe esserne la consecution, relativa al litigio e alle controversie, che si evidenziavano durante le fasi del barattare.

Bello pensare ai nostri avi, quando fu posata l’ultima pietra du punte di Peccetti.

Avranno gioito, festeggiato, cementando ancor di più, la loro comunità e le pietre di questo ponte, stanno a simboleggiare, l’unione fra esseri umani, che solo la solidarietà, quella vera sa creare.

Solidarietà che si ha quando si contribuisce, tutti insieme, a migliorare le condizioni di vita di un singolo essere umano o di una comunità, (oggi necessario aggiungere senza ledere i diritti altrui)

Sulla via del ritorno alcune foto della via d’acqua in Beuca e in Valloia.

Ringrazio Bruno Rossi e Graziella Panelli per la loro gentile disponibilità a raccontare un altro tassello di storia del nostro entroterra legato ad un’importante arteria viaria e Daniele Bignotti a cui ho chiesto alcune informazioni.

I riferimenti storici sono tratti dalle pubblicazioni dell’Associazione Culturale S.Donato

In calce un’interessante link sull’uso delle monete in Liguria che pose fine alla pratica del baratto.http://www.mariojan.com/monete/uni_ter_eta_94.html

La Fortezza delle Nuvole

Il forte Chaberthon

Il 21 luglio del 2011 io e Alessandro raggiungiamo la vetta dello Chaberthon a 3131 m.

Almeno 15 i chilometri di percorso, del versante italiano, su una comoda strada militare, molto ripida la parte finale, con il sentiero per la vetta, che ha un dislivello di 400 metri.

Ma il ricordo più vivo è l’interminabile ritorno in discesa!

La vetta del monte, fu spianata per costruire un basamento, per le soprastanti torrette e cannoni.

Questa fortezza, composta da otto batterie, con cannoni da 149, faceva parte del vallo alpino, un sistema difensivo, con fortezze e postazioni che si estendeva da Ventimiglia fino a Trieste.

La Santa Barbara, si trovava nel ventre della montagna a 70 metri di profondità. in una costruzione, distaccata dal forte.

Piu defilata e protetta dalla sommità del monte, un’edificio, ospitava la guarnigione, che si avvicendava nei turni.

Chiunque arrivi fin quassù, resta meravigliato, al cospetto del lavoro, della fatica che è occorsa, per costruire queste imponenti opere esterne.

Fatiche immani per realizzarfe quelle interne, scavate nella roccia di questo monte per realizzare quella che era chiamata la “Fortezza fra le nuvole”

https://www.montechaberton.it/

Alcuni articoli e video presenti sul web narrano la storia di questo forte.

Il 21 giugno del 1940 i mortai francesi Sheidner da 280 dopo molti colpi sparati per l’aggiustamento della parabola di tiro, alle 17.15 colpirono la prima batteria e in seguito, ne misero fuori combattimento altre 6.

Solo due batterie furono risparmiate dai colpi, distrutte poi dai partigiani francesi, a guerra praticamente finita.

Ogni anno il 21 giugno, delegazioni francesi e italiane, raggiungono il forte per commemorare le vittime di quell’inutile aggressione alla Francia, che funestò tante famiglie italiane, per la vana gloria di un regime di morte e distruzione.

Oggigiorno è bene informarsi delle vie di accesso al forte lato Claviere e Fenils, salita molto impegnativa anche per la mancanza di sorgive.

Il tratto finale è molto ripido e anche in piena estate presenta tratti di sentiero ghiacciato.

Buona Giornata.