A Ciusa du Spurtigiò a l’è in te un postu servegu.
Per arrivarci e fare quattro passi nella natura, immersi nelle sempre poco ammirate biodiversità, al cospetto di imponenti opere idrauliche …….ai Piani d’Ivrea, c’è una stradina con tutti i presupposti e requisiti, che in mezz’ora a piedi ci porta alla confluenza tra il rio Ciusa e il rio Arenon.
I due rian, sbarrati dalla bella Ciusa du Spurtigiò, mischiano le loro acque formando il torrente Portigliolo.
Il segnavia da dove iniziare questo percorso è un bel pino marittimo di fronte al civico.111 di via Genova.
Da qui parte una strada sterrata, carrabile, che in circa 5 minuti di percorso pianeggiante a piedi, arriva dopo una leggera discesa ad un bivio.
Prendiamo il sentiero di sinistra, dove parallela corre la tubazione dell’acqua che riempie una vasca per irrigazione e alimenta l’acquedotto cittadino.
Il percorso è completamente in piano, con un buon fondo compatto ed esente da pietrame.
E’ necessario prestare sempre attenzione ai bordi della stradina, dove la vegetazione può nascondere alla vista il limite esterno, del piano calpestabile.
Alla nostra destra in basso serpeggia il tratto finale del torrente Portigliolo, sovrastato dai due rami autostradali.
In uno dei suoi meandri, in corrispondenza dei piloni, l’alveo è stato cementato per evitare che le piene del fiume scavino intorno basamenti del viadotto nord.
Si continua circondati dalla macchia mediterranea bella nella sua biodiversità, in ogni stagione con i diversi colori dei suoi fiori.
Si attraversa un boschetto di roverelle e l’autostrada scompare alla vista, in una galleria, ora si sente finalmente il rumore dell’acqua, che scende dalle rocce forma cascate e precipita in alcuni laghetti.
L’ ambiente è “servego” la vegetazione, dopo i devastanti incendi degli anni novanta è rimasta come bloccata nella crescita, sono innumerevoli e molto ravvicinati gli alberi e gli arbusti, cresciuti disordinatamente e una mancata opera di diradamento, li obbliga ad una crescita lentissima.
Non rivedremo mai più le magnifiche pinete che dalla Madonna della Guardia scendevano verso le Sevizze e l’Arenon.
Gli scritti più antichi, citano con terrore questa zona, dove c’era la tanto temuta selva del Latronorium, regno di animali selvatici e rifugio di malviventi, dove solo pochi temerari osavano avventurarsi !
Una curva, ci porta al cospetto dell’opera di presa, con la bella cascata e relativo lago.
Poco oltre la confluenza dei due rii, la tubazione in plastica prima contenuta all’interno dell’ex canale, prosegue in bella vista in direzione del rio Ciusa, toponimo relativo ad una probabile diga a monte di questa confluenza.
Arduo seguire il corso di questo rian, lascio a chi vuole avventurarsi e fare del torrentismo, la gioia di un’eventuale scoperta di antichi manufatti , ma mai da soli, ben equipaggiati e in buona forma fisica!
Chissà forse potrebbe essere svelato un mistero del nostro entroterra
E scoprire che il rian della Ciusa è il punto di arrivo di quella mastodontica opera idraulica, che prelevava l’acqua tramite un beo dal rian de Gambin appena sotto le Faje.
Il canale, in località Muagiun sovrapassava la strada e poi arrivato alla Ramognina, proseguiva per alimentare le vasche di irrigazione dei Centurioni ai Piani d’Invrea
Di quest’opera ciclopica, sono rimasti pochi resti a stento visibili, sepolti o inglobati nella vegetazione.
Scomparsa alla vista e persa per sempre anche nella memoria della nostra comunità, che dovrebbe mantenere sempre vivo il ricordo delle passate generazioni, che tanta dedizione, lavoro, fatica e ingegno hanno profuso sciu dai bricchi o in te na sciumea.
Alla Ciusa du Spurtigiò sono presenti, ma abbandonati, tre orti estivi, con ancora i tutori per pomodori e due zappe che invano aspettano chi le voglia ancora alzare, una pianta di basilico cresciuta spontanea, mi avvisa con il suo aroma che l’ ho calpestata.
Un po’ di tristezza mi assale, pensando, chi erano le persone che sono arrivate fino qua in questo posto servego, per farsi l’orto e se ancora qualcheduno scenderà dalla soprastante strada di Beffadosso, per ciattelò, fo di surchi e sceguò sti orti, insemme a n’otru besagnin
Con cotanto gorgoglio d’acqua mi è venuto sete e allora bevo qualche sorso d’acqua, fresca e dissetante, più tardi sulla via del ritorno mi sovviene pensare che il rio Arenon dove ho bevuto, è quello che lambisce la discarica della Ramognina….
Anche in questo posto servegu, generazioni di nostri concittadini con il loro lavoro fatica e ingegno hanno reso possibile questo bel percorso, uomini che hanno scavato e messo pietra su pietra costruito muri e sbarramenti per raccogliere l’acqua e intubarla per raggiungere i nostri brunsin.
Alcune deviazioni in salita portano ad intercettare il sentiero che sale alla Madonna della Guardia.
Questo sentiero era una frequentata via di comunicazione e come tutte ha le sue testimonianze di fede, rappresentata in questo caso da una maddonetta incastonata fra le pietre a inizio sentiero.
Il sole scada le miagge e sotto i tetti di quelle case ammuggiate du Burgu e de Ca-Braghe si scioppa dau codu.
Ma in te seianne, quandu u vegne scuu c’era un po’ di aia, che arrivava dal Teiro e alua tutta a gente a sciortiva de cà.
G’hea chi andava alla sciumea, le donne a ciappetare, settate sulle prie cun i pè a bagnu, l’ommi invece a fa bisboccia sutta i portisci, i zueni in giu a tacca bega au Sua o a S.Naso’.
Restavano, in te un recanto a Ca-braghe, solo i nonni, a cunta’ storie, per tenere bravi i figgiou, pe non fali andò in giu de notte a guantare le armugnine e perseghe in ti orti da Cammino’ o in ta Lomellina.
Cummme la settimana scorsa, ci hanno beccato due seotti del Borgo e quasi se li volevano tenere, per darli alle teste fasce’ quandu arrivan con u sciabeccu!
Ma de sciabbre e de gabibbi, sono sinquant’anni, che non se ne vedan più.
A Chintana
Però i ciù vegi, ancun si ricordano, quando arrivavan i turchi e ci toccava scappare, sciu da via Gianca, cun e donne e figgette, sensa fermarsi mai, fin au briccu du Grippin, dove si vedeva sotto chi arrivava.
Per farci venire un po’ di puia e di ubbidiensa, ai figgiou, i vegi raccuntavan de quei ciappa ciappa, che erano i pirati turchi.
Una de queste storie narrate dagli anziani nei caruggi de Vase è quella de Uluch Alì in zeneise Ucciali, l’urtimu Bey che arrivo’ a Vase, pe ciappo’ da gente.
Da zuenu, se ciamava, Giuan Galeni era un frate dumenican!
Un giorno stava con le crave e a cogge l’erba pe i cuniggi, in Calabria, quando lo hanno ciappato i turchi e avevano chiesto delle palanche, se volevano ancora il frate.
Ma nesciun pagò mai per farlo turnò in ta giescia, alua lo hanno portato via e messo ai remi du sciabeccu.
Lui si arraggio’ tanto, che gli usci un ciavello in mezzo ai cavelli e questo cresceva sempre giù grossu, tantu che i turchi ci fasciarono la testa come uno di loro.
Alua divento’ ancora ciù cattivu tanto che’ stranguo’ un de Napoli, che ci aveva dato un pattone e comincio’ a bestemmiare tanto più dei turchi, e poi si misse a prega’ pe u Mumma.
Faceva puia, u l’ea sempre arraggiò e alua pe falo sto bravo ci hanno fatto sposare la figlia di un Rais e ci dessero una galea, e lo chiamarono Uluch Alì.
Era diventato pascià e andava in giro dalle nostre parti a taccar bega con Zena e a Spagna e faceva quello ci avevano fatto a lui, ciappava la gente e domandava delle palanche.
A gente ou cunusceivan ben e quando vedevano arrivà e so galee tutti bragiavan u l’arrive Ucciali!.
In tu 1563 sbarcò anche a Vase e Selle cun 600 ommi e ciappo’ 50 ommi a quelli de Vase Celle e Savuna che ci erano andati incontro con 300 ommi.
E per questi meschinetti chiese 3000 scudi.
Nel 1571 u 7 de ottubre, Andrea Doria da Zena e tanti cristien, stuffi de turchi e de sciabecchi a Lepanto g’han detu na bella lesiun a quelle teste fasce’
Ci hanno abbrucciato li sciabecchi e le galee e i balistai de tanti erano de Sana e anche de Vase, hanno massato tutti i turchi, che si è perso la semenza di quei desgrasiati!
A Lepantu c’era anche Ucciali, con e so galee e ha ciappato de navi e masso’ di cristien, ma poi è dovuto scappare perché la battaglia era perduta.
E da quelu giurnu de Ucciali e dei suoi ommi a Vase e versu Vintimiggia nesciun nu l’ha vistu ciù na testa fascia’ e mancu un sciabeccu!
E Uluch Alì che fin u l’ha fetu?
Discian che l’han avveleno’ pe piggioghe e palanche.
Ma discian anche che u barbè, arraggiou perche Uluch Alì u ghe purtava via e banane in te l’ortu… u ga taggiou a gua!
A questo punto chi cuntova sta storia faceva il segno du taggiagua e a tutti i figgiou, specie quelli che andavano a sciatta’ negli orti da Lomellina e da Cammina’, u ghe vegniva tanta de quella puia che armugnin e perseghe pe un po’ nesciun u n’ha ciu’ guanto’!
I ciu’ piccin, invece vedevano i taggiague da tutte e parti in tu scuu e alua s’attaccavan a e braghe di grandi per ando’ a casa.
E quelu vegiu, che u l’eiva raccunto’ a storia de Ucciali, u g’he scappova da rie, mentre u l’andava in tu so caruggiu.
Libera narrazione con racconti di vita di molti anni fa, in zenagliano tratto da “Corsari del Mediterraneo” del Dott. Roberto Mariani.
Era un lunedì mattina quel quattro ottobre del 2010.
Per una di quelle, che io chiamo imponderabili circostanze della vita, fui testimone di quello che mai avrei pensavo potesse accadere.
Quel giorno non fu la sveglia delle 6 a farmi aprire gli occhi, perché già da qualche ora stavo cercando di debellare un fastidioso mal di testa.
Decisi che avrei telefonato in Centrale e quella mattina, non sarei andato al lavoro, anche se il mal di testa andava scemando, mi mancavano parecchie ore di sonno.
Una precipitazione insistente, già all’opera nella notte appena trascorsa, era rafforzata da un forte vento.
Impossibile intuirne la provenienza.
Vento e pioggia avevano iniziato a battere sui vetri delle finestre, poi successe qualcosa, che io ad oggi non so bene come descrivere!
Da un cielo nero come la pece scendevano delle lame d’acqua!
Quello che vedevo dalla finestra, era un mondo liquido, che premeva contro la mia casa e cercava di entrare da ogni fessura.
Via Scavino 4 ottobre 2010
Erano circa le ore 8.30, il rumore era impressionante, cupo si sentiva la potenza di quella che sarebbe stata nominata come “una bomba d’acqua”
Il monte Zucchero, la vetta che ci sovrasta, con i suoi 429 metri, già pregna d’acqua, dopo una notte di pioggia, respinse questa massa liquida, facendola precipitare lungo i suoi ripidi pendii.
L’acqua trascinò con se tutto quello che incontrava, vegetali, terra, pietre e anche tutti gli oggetti, attrezzi o altro, che l’uomo aveva portato fin lassù, nelle fasce, negli orti o negli uliveti .
L’ondata d’acqua che stava precipitando, percorse l’alveo del rio Rivà, fino alla tombinatura di via Scavino.
Dalla sezione sottodimensionata, e già semiotturata da detriti.
Come faceva a ricevere tutta quella massa liquida, frammista con ogni sorta di materiale solido?
La bocca della condotta, fu da subito occlusa dai vegetali, che l’ondata d’acqua, aveva travolto e raccolto nel suo tragitto.
A questo punto, la massa liquida, a contatto con l’asfalto di via Scavino, aumentò la sua velocità e la sua forza distruttiva.
In questo zona confluirono due fiumi.
Quello che arrivava dal Monte Zucchero, si unì a quello che si era incanalato lungo la strada, aumentando così, notevolmente la portata.
Arrivata alla biforcazione della strada, una parte si direzionò verso i “Busci” e“u Rissulin” dove provocherà diversi allagamenti.
Via Scavino 4 ottobre 2010
Il fronte di quel fiume d’acqua, non riusci’ a trovare il suo naturale sfogo in Teiro, a causa di un inopportuno muretto, costruito come base per la ringhiera di protezione.
Ma anche e soprattutto dalla vegetazione che è cresciuta incontrollata in questa zona, alberi e arbusti, che proprio nella curva occludono e impediscono in caso di esondazione del rio Rivà, lo scarico dell’acqua verso il fiume.
Via Scavino 4 ottobre 2010
Un considerevole trasporto di terra, pietre, legname e vegetali, completarono l’opera, incastrandosi, tra ringhiera e alberi, formando una diga nella curva di Milina.
La massa liquida fu costretta a compiere una deviazione e a riversarsi verso valle.
Verso la parte bassa di via Scavino.
Via Scavino 4 ottobre 2010
Fui testimone di questo fiume d’acqua, in via Scavino.
L’acqua allagò le zone sottostanti, gli orti, la casa di Sergio, i locali della Bottega del Legno.
Sergio e Emanuela, fecero appena in tempo a salir le scale, prima che la massa liquida sfondasse le finestre, allagando fino al soffitto la loro abitazione.
Via Scavino 4 ottobre 2010
Con una furia devastante, fango e acqua invasero il nostro posto auto, fecero ruotare e galleggiare le nostre auto, come fossero barchette.
Sfondò la porta del magazzino, di mio papà, allagandolo fino ad un’altezza di circa un metro, mettendo fuori uso, tutte le sue macchine per la lavorazione del legno.
Via Scavino 4 ottobre 2010
Scendemmo in strada io e mio papà.
Ma che fare, anche se la pioggia era cessata, la portata d’acqua che scendeva da via Scavino, era ancora notevole.
Si rimaneva in piedi, solo se ci si aggrappava a qualcosa e guai a cadere o scivolare, saremmo stati travolti e trascinati via!
Trascinati e precipitati oltre il muro che delimita la strada, dove la cascata d’acqua che si riversava nei campi sottostanti era di almeno tre metri!
La forza dell’acqua portava di tutto, si vedevano rotolare anche grosse pietre come se galleggiassero.
Ad un certo punto, arrivò da chissà dove, una panchina in ferro, che si mise di traverso convogliando l’acqua in direzione della nostra casa.
Mio padre la raggiunse e nel tentativo di spostarla, per poco non perse l’equilibrio!
Lo esortai di lasciar perdere e lo aiutai ad attraversare quel fiume d’acqua e fango.
Via Scavino 4 ottobre 2010
Fini tutto all’improvviso come era iniziato, lasciando la desolazione assoluta, ben documentata dalle foto che scattai quello stesso giorno.
Via Scavino 4 ottobre 2010
Impressionante, l’apporto e il deposito di terra e pietre e immancabile “rumenta”.
La forza dell’acqua aveva creato una poltiglia finemente triturata di residui di legno, che spinta e pressata dalla forte pressione era penetrata dappertutto.
I giorni seguenti, furono tutti impiegati al drenaggio di questa poltiglia di acqua fango e residui di legno, che erano penetrati all’interno del magazzino.
Una ruspa dei Vigli del Fuoco, tolse la montagnola di terra, che si era depositata davanti al posto auto.
La famiglia Martini si ritrovò unita, come sempre e riuscì a pulire, lavare trasportare via, tutta quella melma dal magazzino, cantina, locale caldaia e legnaia.
Smontammo tutti gli interni delle auto, per lavarli e farli asciugare.
La mia auto invece subì un grave guasto meccanico.
Non ricevemmo alcun aiuto nè indenizzo dei danni subiti
Ci prodigammo quello stesso giorno insieme ad altre persone abitanti in via Scavino, per facilitare il deflusso delle acque del Rian da Riva.
Molto utili nei giorni seguenti, le nostre manichette antincendio, utilizzate dal vicinato per sciogliere il fango che si era consolidato .
Alessandro Martini sull’escavatore per rimuovere i vegetali dall’imbocco della condotta del Rian da Riva
Mi preme dare un consiglio fondamentale, mai cercare di avviare un’auto dopo che è stata anche solo parzialmente immersa in acqua.
Gli elementi solidi possono essere penetrati all’interno del vano cinghia di distribuzione compromettendo la fasatura del motore.
Vano motore della mia ex auto invaso dalla fanghiglia
Un grazie al mio collega Piero Sala e a Perego Valentina che si prodigarono insieme a noi in quei giorni.
Che dire sono passati dodici anni ma il ricordo è sempre vivo!
In questo periodo, un’anno fa, iniziavano i lavori per una grande opera idraulica sul tratto finale del Rio Bagetti, con rifacimento dell’alveo e della copertura.
Una grande opera ma non sufficente, per mettere in sicurezza questa parte della città.
Gli scoli dell’acqua piovana ma anche di una eventuale esondazione, non finiscono in Teiro, ma si incanalano verso la parte bassa di via Scavino.
Negli anni 60, quando la strada era ancora sterrata, nella curva di Milina, con mio papà e a turno con quelli che abitavano le case nella parte bassa di via Scavino, si manteneva in efficenza u Surcu che indirizzava l’acqua in Teiro!
La mia è una situazione comune a tanti altri miei concittadini, del Sciu da Teiru e delle Frazioni, zone ricordate solo in caso di esondazioni.
Metto le paratie quando annunciano le allerte meteo.
Ho acquistato una motopompa, pronta all’uso nella legnaia.
Ho sempre pronti stivali e tuta anti acqua.
E ogni notte di temporale, la passo insonne da dodici anni a guardar l’acqua che scende da via Scavino.
Questa casa è come quelle che si possono trovare nei nostri boschi e come tante altre, sta per essere inglobata, fagocitata dalla natura, instancabile, nella sua opera di riprendersi quello che l’uomo gli aveva strappato cento anni fa
Un baccu da funsi u l’è posò a na miaggia.
Mi affaccio ad una porta spalancata, all’interno è tutto buio nero come la notte, serve tempo per abituarsi alla mancanza di luce.
Quando la vista ritorna mi svela un ‘ambiente dove regnano sovrane la polvere e le tele dei ragni, che hanno avviluppato ogni cosa, sembra che tutto sia stato abbandonato, improvvisamente e i tanti oggetti d’uso quotidiano, sono ancora lì, pronti ad essere usati da un momento all’altro.
Un furnu di voi de buttiggia quattru careghe e na toa pe fo bisboccia.
Un forno vuoti di bottiglie e quelle quattro sedie, stanno a testimoniare di momenti di convivialità, vissuti fra queste mura, ancora solide ed eterne come tutti i manufatti in pietra e calce.
Ma nella bella stagione si stava bene insieme in una tavolata sotto a quel pergolato quasi del tutto crollato
Oggi tutto tace e anche in questo luogo è arrivato il silenzio delle storie e delle cose perdute per sempre.
Non c’è più amore per la nostra terra, per questa casa, perchè lo abbiamo perso?
La porta con il buco per far passare il gatto a caccia di topi.
Un fienile annesso alla proprietà, con le tavole di castagno, vecchie, di cento anni, contorte dal tempo, annerite dal tannino che comunque le protegge dagli insetti.
E che cosa si nasconde sotto quel cumulo di fieno arso dal sole con quella forma strana?
Erbui de uive fighi e scesce stranguè da lelua e poi tante fasce….cumme in tutti i nostri bricchi, perse in ti ruvei e in mesu a e brughe, prie che nesciun posia ciù
Durante l’escursione, sul monte Zucchero, mi sono imbattuto in quel che rimane di una gloriosa Fiat 600 prima/seconda serie, costruita presumo negli anni dal 1955 al 1958.
Dell’auto, cannibalizzata di tutto quello che poteva essere smontato, rimane solo uno scheletro, completamente arrugginito. Chissà chi erano i padroni di quell’auto e fino lì, chi ce l’ha portata, c’è arrivata con le proprie forze?
La Fiat 600, negli anni 70/80, era l’auto del papà, prestata ai figli, freschi di patente, per le loro prime scorribande, spesso, questa paterna cessione, era fatale per la carrozzeria e la meccanica dell’auto.
Nei fine settimana, quest’auto ceduta ai figli scavezzacolli freschi di patente, subiva una brusca metamorfosi, da utilitaria usata in settimana per recarsi al lavoro o a far compere, diventava un bolide cittadino ed extraurbano capace di sfrecciare ad alta velocità con stridii di gomme e motore su di giri, vettore di scorribande giovanili.
Come quella domenica mattina, quando io, Gianluigi e Roberto, partimmo da Sciu da Teiru, la mattina presto, per una giornata, sulle nevi di Prato Nevoso, un viaggio già avventuroso per chi imboccava negli anni 70 la micidiale Savona Torino .
L’auto una Fiat 600, era del papà di Gianluigi. Dopo Frabosa, una forte nevicata in corso, sconsigliava il proseguo del viaggio, soprattutto con un’auto come la nostra priva di catene a bordo. Ma si sa coraggio e incoscienza a vent’anni non mancano mai e riuscimmo nell’impresa!
Le auto ” una volta” avevano dei veri paraurti, solidi in robusto acciaio cromato e così io e Roberto, in piedi sul quello posteriore, facevamo peso, per dare aderenza alle ruote. Mentre l’auto avanzava abbastanza veloce fra sbandate e slittar di ruote io e Roberto aggrappati alla “bagagliaia” provammo l’ebbrezza della tormenta di neve, con l’aria gelida che entrava da ogni parte del nostro scarso equipaggiamento sciistico.
A volte quando le ruote comunque slittavano e l’auto non avanzava, ci coordinavamo verbalmente, con l’uno due e tre! Saltando insieme sul paraurti, aumentavamo l’effetto presa, delle ruote, su quel cospicuo strato di neve. Quella gloriosa seicento fu una delle prime auto che arrivarono a Prato Nevoso quella domenica mattina.
Ma altrettanto infido fu il ritorno Gianluigi, perse diverse volte il controllo dell’auto in quella discesa, ma per fortuna nostra e dell’auto, le montagne di neve ai lati della strada attutirono quei colpi. Un paio di giorni dopo il papà di Gianluigi rimase a piedi con la seicento per la rottura di un semiasse……..
Sempre di domenica, questa volta con un’altra Fiat 600, quella del papà di Giorgio, eravamo in direzione di Sassello, per andare a vedere una gara di motocross, insieme a noi Gianni, appassionati come tutti di fuoristrada tutte e tre avevamo lo stesso tipo di motorino, il Gilerino 50cc!
Arrivati sul rettilineo dei Giovi, tamponiamo a causa di una brusca frenata, l’ auto che ci precedeva. Ci fu lo scambio di nominativi e i dati per la pratica dell’ assicurazione. Pochi i danni subiti dalla robusta 600 solo il parafango risultava schiacciato. Ma alla ripartenza, la ruota anteriore destra, quando si sterzava, toccava nel parafango.
Che fare? Decidiamo di raddrizzare il parafango per allontanare quella lamiera piegata dalla ruota. Proviamo a far leva con un palo, trovato ai bordi della strada, ma la robusta lamiera non si raddrizza e allora….. brillante idea!
Trovate delle corde nel cofano dell’auto leghiamo il paraurti, al vicino palo in legno della linea elettrica, che correva di lato alla strada ……Giorgio va alla guida e innesta la retromarcia……… Vai tiraaa tiraaa!!. Ancora! Prendi un pò di rincorsa dagli dei colpi! Dai che va!..vai! vai! Fermaaaaa ! Belin il palooo fermaaaaa!!.
Tutti intenti a guardar il paraurti, nessuno fece caso al palo della luce, che si stava pericolosamente inclinando!!
Per anni, arrivando sul rettilineo dei Giovi, non si poteva non notare, la stranezza di un palo di sostegno, di quella linea elettrica, vistosamente inclinato, verso il centro strada. Il palo fu lasciato lì per molti anni, in quella posizione e ogni volta che si passava era lì a testimoniare il ricordo quel maldestro tentativo.
Riuscimmo comunque nell’intento e la gomma ora sfiorava appena il parafango quando l’auto faceva una curva stretta.
E poi c’era lei la mitica 600 famigliare era del papà di Antonio ed Angelo a volte era ad aspettarci quando uscivamo dalle scuole elementari.
Caricava tutti i bambini che abitavano Sciu da Teiru fino au Pasciu, eravamo in tanti tutti seduti stretti, U Rudina faceva diverse fermate per farci scendere.
Quandu vegne settembre, ottubre, quelli Sciu d Teiru, mia pe l’oia, pe vedde che tempu faià.
Mian in ertu e veddan quellu briccu, cuscì grande e grossu, che u fa puia!……..ma u l’è riundu cumme na succa…..e cuscì l’han ciamò Sucau!
Visto da lontano il monte Zucchero, toponimo “addolcito” e modificato forse dall’originale Zuccaro, appare imponente, incombente sull’abitato di Varazze, è la vetta più alta con i suoi 429 m, quella più vicina al mare, nel comprensorio di Varazze.
Da tempo, volevo arrivare alla sua sommità, conosciamo monti e cime per ogni dove, in Italia e all’estero, ma non quellu che ghemmu suvia a nostra testa, da ragazzi, mai siamo riusciti ad arrivare alla sua vetta, perché cacciati dai cani, che qui facevano buona guardia agli alberi da frutta!
Riuscimmo a conquistare, solamente la vetta del Vignolo, dove sono ora i ripetitori TV e ricordo ancora oggi, la fatica di quell’ardua salita, partiti dalla nostra capannetta in mezzo al bosco e poi arrivati alla meta, per boschi e sentieri da capre e antichissinmi terrazzamenti.
Via Scavino 4 ottobre 2010
La mia curiosità è legata a questo monte, dalla tragica esondazione del 4 ottobre del 2010, quando una massa d’acqua impressionante, precipitò lungo i suoi pendii, facendo esondare il rio Riva’, provocando allagamenti, trasportando con se un’ingente quantità di fango e un’enorme quantità di residui legnosi.
Il prodotto naturale ed evidente, di un bosco e sottobosco da decenni abbandonato all’incuria.
Per una fortunata casualità, quel giorno, non ci furono vittime, perché una famiglia, vicina di casa, riuscì ad abbandonare in tempo, la camera da letto, prima che la stessa fosse allagata fino al soffitto!
Via Scavino 4 ottobre 2010
Acqua e fango, penetrarono nei garage nei pianterreni, sfondarono le porte del magazzino di mio papà allagandolo, oggi una linea scura all’interno di un vano del magazzino, alta circa un metro è testimone del livello raggiunto, dalla furia di quell’evento.
Via Scavino 4 ottobre 2010
Ho le foto, scattate dodici anni fa, è stato un nubifragio senza precedenti, l’acqua scendeva a strisce dal cielo, entrava in casa dalle fessure delle finestre sospinta dal vento di scirocco, in poco tempo la strada diventò un fiume.
Contro gli eventi atmosferici, nulla di umano si può fare, ma nei limiti dell’umano agire, le acque possono essere regimentate e mai accorgersi troppo tardi di una mancata manutenzione o della presenza di opere, che ostacolino il normale afflusso delle acque, come succede nella parte finale di tutti gli affluenti del Teiro che nel loro percorso urbano, sono tombinati, con sezioni che oggi sembrano essere insufficienti, per sopportare un improvviso, imponente afflusso di acqua.
Via Scavino 4 ottobre 2010
E’cambiato il clima ma anche l’agir delle persone. In altri tempi, erano gli stessi residenti, che curavano l’ambiente con i “surchi”.
L’acqua, era costretta a seguire il volere dell’uomo, ricordo mio papà con i miei zii e i vicini, sempre pronti a dare una mano e alle prime piogge autunnali, la strada ancora non era asfaltata, tenevano pulito o rifacevano “u surcu” il solco che nella curva, dirigeva l’acqua nel sottostante fiume.
Ma le cose sarebbero cambiate, dopo qualche decennio, non eravamo più una piccola comunità solidale, ognuno pensava solo al proprio orticello e così fu, l’acqua in quella curva, non defluì più in Teiro.
L’opera fu completata e resa definitiva, quando fu posta in opera una ringhiera di protezione, con relativo muretto di ancoraggio, una diga perfetta!
Via Scavino 4 ottobre 2010
Una diga formata dalla vegetazione trasportata dall’esondazione del rio Riva’, che quella mattina di ottobre, convogliò tutta questa forza distruttiva, lungo la strada.
In dieci anni poco è stato fatto, dagli enti preposti alla nostra sicurezza, niente di significativo tale da farmi riposare tranquillo, in una notte di temporali, e cosi ad ogni scroscio d’acqua, anche in piena notte, mi alzo, vado alla finestra.
Lascio l’auto al Vignolo e vado alla ricerca dei “surchi” o delle loro tracce.
Cappella di S.Anna du Vignò
La salita è molto ripida, un primo solco lo trovo, nei pressi della cappella di S.Anna du Vignò, edificata, con una bella vista sul mare nel 1878, il”surcu” è ben curato, cementato e dirige le acque, nell’altro versante.
U surcu
Oltrepassata la cappella, ecco un abbozzo di solco, non ripristinato, che dovrebbe convogliare le acque nell’altro versante, quello in sponda destra del fiume Teiro, in località Frati.
Cappella di S.Anna du Vignò
In questo punto, facendo una piccola deviazione, sopra una roccia, sporgente in un abisso di boschi, si ha un belvedere insolito verso Casanova e il Beigua.
il gruppo del Beigua Casanova e il Muntadò
Lo scheletro di una seicento, prima serie, traforata dalla ruggine, introduce al sentiero dei calorifici..
Sono alcune vecchie piaste radianti, messe per impedire l’afflusso dell’acqua, nel sottostante uliveto, a testimonianza della necessità di arginare la notevole portata d’acqua, proveniente dalla cima di questo monte.
Della vecchia seicento resta solo uno scheletro privo di tutte le parti meccaniche.
Il sentiero ora diventa difficoltoso, per la presenza, di innumerevoli pietre , e mi chiedo il perché di questo ingente deposito di pietrame, sono tutte pietre spaccate strano… ma tra poco, la mia curiosità sarà appagata.
Il sentiero sempre irto, mi conduce dentro ad un bosco, misto di castagni e eriche giganti, qualche “ersciu” molte ginestre sfiorite e un panorama mozzafiato intravisto tra i varchi della vegetazione.
Scopro la provenienza di quelle pietre, sono la risulta, precipitata a valle, dello scavo di una lunga trincea, che taglia in senso trasversale tutto questo versante, mi sento Jndiana Jones e mi addentro in questo scavo, è alto in certi punti, almeno un metro e mezzo, il fondo è ricoperto di foglie, ma fatti una ventina di metri, devo desistere dall’intento di proseguire, è troppa la vegetazione, ci vorrebbe un “marassu” per tagliare i tronchi di erica e de “serveghi” che qui sono cresciuti, senza regole, dopo il rovinoso incendio del 1990, di cui si trovano ancora le testimonianze sparse per il bosco, con diversi resti di tronchi carbonizzati.
Probabilmente è un’opera militare e come nelle trincee ci sono dei cambi di direzione, dove possono stare due persone, troppo per essere un solco di regimentazione delle acque piovane.
Ma questa opera, in caso di nubifragio, può essere deleteria, poiché raccoglie le acque, che scendono dal pendio e le convoglia in un solo punto, facendole defluire a valle in grande quantità, dilavando il sentiero.
Seguo il suo percorso, dalla parte opposta, che è in discesa, verso un avvallamento e qui, se ne perdono definitivamente le tracce.
Percorso in trincea
Faccio qualche foto, con il cellulare, ma molte le cestino, per la scarsa qualità dovuta ai chiaroscuri che si creano con la luce solare.
Continuo il percorso per arrivare al traliccio AT, che si nota anche dal centro urbano di Varazze, quella è la vetta del monte Zucchero.
Il bosco è abbandonato a se stesso, il sentiero ad un certo punto, invaso dalle ” brughe” sparisce, lascio qualche pietra come segna passo, che mi faccia ritrovare la direzione del ritorno, quello che sto seguendo, viste le molte pasture presenti è il percorso degli animali selvatici, di cui percepisco la presenza, quando sorpresi dal mio arrivo, si allontanano di colpo con il tonfo sordo sul terreno, fatto dalle loro zampe, non riesco a vederli, ma penso siano caprioli o animali della stessa famiglia.
Oggi non è giornata di caccia, altrimenti si sentirebbero latrare i segugi da cinghiali, che in queste foreste sono presenti in diversi branchi.
Una breve sosta, per uno spuntino e noto due pietre fitte a lato del ritrovato sentiero, una probabile delimitazione di proprietà o chissà che, la presenza di molte pietre sparse, può far pensare a qualche manufatto che qui si ergeva molti anni fa, forse un castellaro.
Poco oltre, un avvallamento, segna l’inizio del rio Goitu, un’affluente del torrente Rianello.
Vista verso le Lenchè e sullo sfondo Savona e Capo Noli
Oltrepasso lo spartiacque e ora la visione è verso le Lenchè con lo sfondo di Savona e Capo Noli.
Seguo un segnavia giallo, dipinto su delle pietre e arrivo dal traliccio qui è vertiginosa la discesa, dei cavi di alta tensione, tesi in direzione di Genova sulla verticale della località Frati.
Anche qui rumori di selvaggina in fuga, oltre questa radura il bosco si infittisce e solo con dei mezzi da taglio è possibile avanzare.
Ritorno sui miei passi, la mia escursione sul monte Zucchero è terminata, ho finalmente visto cosa incombe sulle nostre teste, l’incuria dei boschi dovuta all’abbandono di ogni attività ad esso collegata, porta inevitabilmente a delle conseguenze nel nostro Sciu da Teiru, in caso di forti piogge.
Questo racconto, lo dedico ai 25 compagni di classe della 1A, insieme a me in quel primo ottobre del 1964.
Ripetute riforme hanno cancellato la data del primo ottobre, per l’inizio anno scolastico.
Io e i miei compagni negli anni 60/70 eravamo molto serveghi, abituati a salvar la pelle, ogni giorno, tra rian, boschi, sciumea e nelle battaglie con le bande rivali.
“Eravamo sempre in preda ad una frenesia incontenibile, che solo il calar del sole o il grido di una mamma sul terrazzo di casa, interrompeva, con la concessione però di un’altra dilazione, perché si era sempre intenti a fare qualcosa di non procrastinabile”. ( tratto da “Olio di Oliva e Cotone” di Francesco Baggetti)
Di madrelingua zeneise, eravamo in seria difficoltà ad affrontare una lingua straniera come l’italiano, inevitabili gli strafalcioni, come quelli presenti nel racconto, di un verosimile primo ottobre di tanti anni fa
U Primu Ottubre 1964
Ancò 1 ottubre 1965 u l’e’ stetu u me primmu giornu de scoa, il maestro se ciamma Fausto e’ erto e porta i speggetti, siamo in tanti in classe 1.A.
Tutti figgiou de Vase, il maestro na fatto andare alla lavagna a fo’ le aste, ne emmu fatte tante tante, tutte dritte, io però eu già bun a fale cun il lapi di mio papà che gia’ ho disegnato sulle toe da banco’.
Ci ha mostrato che ci duvemmu assettare quando il maestro lo disce, suvia na miaggia c’è Gesu’ missu in crusce e sottu un cun i speggetti u cappu dell’Itaglia.
Ho u me banchetto duvve ho missu a cartella, ho il scoscia’ neigru con u fioccu blo, che devu sto’ attentu che me lo desgruppano.
Emmu fatto la ricreasione in te un campu che ciammano cortile u maestro na ditu de nu curri’ che maniman ci diamo na facciata in tera.
Mi me sun mangio’ la figassa che eivu accattato da Marinin.
Quando u lè suno’ a campanella semu sciortiti tutti un dere’ allaltru.
Foa da scoa ghea me so’ Clara che me aspettava le bambine cianno lo scoscia’ giancu e semmu andetu a ca insemme anche con i figgiò delle Fanfani.
Ma aua basta parla’ in italiano!
Aua che sun sciurtiu da scoa possu parla’ in zeneise!
Duvemmu attraverso’ u puntin cun l’arcu e sta attenti passo’ in su marciape’ che u l’e’ attaccou a miaggia de Teiru, poi tutta via Muntegrappa, cun u giu da fabbrica, duvve u ghe sempre ventu, e quandu traversemmu a stradda me so a me da a man.
A me non piace andare a scoa, mi ballano le gambe di stare tutta la mattina assetato.
La mia bicicletta, un ferrovecchio, acquistata molti anni fa da u “Furmine” compianto amico di tante chiacchierate sul ponte nei pressi della sua abitazione, dau Palassu da Fabrica.
Conosceva bene questa zona della città, u Sciu da Teiru, quante cose mi ha raccontato e quante ancora erano da scoprire, cose perse per sempre, per la sua prematura morte.
Mi chiamava per cognome quando mi vedeva passare, e a volte lo aiutavo a far qualche lavoretto.
Stavo bene insieme a lui era sempre affaccendato a far qualcosa, si scherzava, poi ci salutavano e lui mi ringraziava di averlo chiamato con il suo nomignolo.
Furmine è sempre stato una voce libera critica contro l’arroganza del potere.
E parme du Furmine dau Lagu di Pelosi
Era aggiornato sugli accadimenti quotidiani e chissà che cosa avrebbe detto oggi di tutto quello che succede, avrebbe iniziato con il dire ” Martini cussa te ne pensi de….”Ciao Furmine.
Mele Oratorio di S.Antonio Abate opera del Maragliano
Bella escursione “Andar per cartiere a Mele” organizzata il 26 settembre 2020 dalla Pro Loco e dall’associazione InGe
Mele torrente Acquasanta
Interessante e coinvolgente il percorso escursionistico, lungo il torrente Gorsexio ( forma dialettale di gorgheggio).
Un grazie particolare, alle nostre guide Teresa e Cinzia, che prima della visita, ci introducono nel mondo della carta.
La produzione della carta a Mele e in un territorio limitato tra Varazze e Sestri Ponente, fu a partire dal 1500 una fiorente attività, con moltissime cartiere, edificate in prossimità dei numerosi torrenti, che discendono con forti pendenze, i rilievi dell’appenino e da dove le cartiere, traevano la forza motrice e l’acqua per il processo produttivo.
A Mele erano portati da Voltri ” u paise di strasse’ ” i pezzami di stoffa di lino, rimasugli di vele, lenzuola e abbigliamento in disuso, stoccati all’ingrosso nei magazzini della città di mare, dove era effettuata una prima suddivisione.
Negli edifici delle cartiere il pian terreno, era adibito alla cernita e al taglio, in questa operazione erano impiegati, i bambini e le donne.
Un cartello didattico, indica la necessità della presenza del vento nel processo produttivo, per l’importante operazione di asciugatura dei fogli di carta, effettuati nella parte alta delle cartiere, in ampi locali, dotati di serrande in legno, per dosare al punto giusto l’entità di asciugatura, ma anche per non esporre la carta alla luce diretta del sole, facendola ingiallite.
Torre di essicazione
Molto faticoso e pericoloso il lavoro del cartaio, specie con le nuove tecniche industriali dell’800 dove la produzione era h.24.
A questo scopo, erano ricavati degli amezzati, all’interno dell’edificio della cartiera, dove abitavano gli operai con le loro famiglie, in modo da essere pronti ad intervenire in caso di necessità, in ogni ora anche di notte.
Il lavoro in una fabbrica, crea sempre una sistema di socialità, solidarietà, garantisce, piena occupazione, buoni stipendi e sviluppo del terziario.
Questa forza lavoro, coesa all’interno e fuori dalla fabbrica, si organizzava, nel dopolavoro, con la creazione di confraternite e delle prime Società di Mutuo Soccorso.
Prima di iniziare il percorso, una breve visita ai trogoli, dove una diramazione dei beudi, forniva acqua pubblica per fare il bucato.
I Troggi
La passione anima le nostre due guide, nel descrivere questi aspetti storici, chiamato da loro stesse, “Orgoglio di Mele” e fanno riferimento, varie volte, al Museo della Carta sito all’Acquasanta, dove hanno collaborato, perché l’attività della produzione della carta, sia ben esposta, con cenni storici, attrezzi, foto e la possibilità di effettuare prove di fabbricazione della carta all’interno del museo.
Il percorso inizia, dalla località Fondocrosa, all’inizio di Mele, subito un bell’esempio di riutilizzo di un’ex cartiera, che pur mantenendo la tipologia originale, al suo interno, sono stati creati appartamenti e box per auto.
Riutilizzo di un’ex cartiera
La strada in salita ci porta a vedere altri edifici di cartiere, tre banchetti lungo il percorso offrono acqua e un piccolo ristoro con caffè e ovviamente… le mele!
Mele Oratorio
Si sale una crosa, per raggiungere la parte alta del bel borgo di Mele, qui è possibile visitare l’oratorio con i suoi stucchi da poco restaurati, il bellissimo gruppo statuario ligneo del Maragliano, sopra una cassa processionale e “un cante’ ” di ottima fattura con al centro la riproduzione di una cartiera.
Mele Gruppo ligneo del Maragliano
Si percorre, un tratto della statale del Turchino, per evitare la frana che blocca un sentiero di fondovalle, per andare a vedere un’ultimo gruppo di cartiere, con in bella vista una ruota di mulino.
Una lapide ricorda un partigiano caduto, in altre lapidi posti a lato del palazzo comunale, sovrastato da una rarissima torre civica, sono ricordati i caduti delle guerre mondiali.
Torrente Gorsexio ( forma dialettale di gorgheggio).
Si ritorna tramite una crosa molto ripida, al punto di partenza, di quella che è stata un’ottima iniziativa, proposta dalla Pro Loco di Mele, per valorizzare la storia del suo territorio, dedita alla produzione di un manufatto di pregio un vanto ieri e oggi della laboriosità e dell’ingegno della gente che abitava questa località, ma anche tutto l’entroterra Ligure è degno di essere conosciuto e valorizzato per il lavoro di tante generazioni!
Non posso fare a meno, di fare un paragone con la mia città, Varazze, dove le cartiere e non solo, erano parte importante dell’economia, in un recente passato. Oggi di un patrimonio storico e delle attività che erano fiorenti nel lungo Teiro, restano ancora per poco alcuni edifici e gli ingegnosi beu, ma ridotti a ben poca cosa e da tutti dimenticati.
Un Gumbu
Resta il rammarico di una comunità incapace di preservare le testimonianze di un passato industrioso specie Sciu da Teiro dove erano molte le attività dei paperai, muina`e banche`
Il ricordo, della laboriosità dei nostri concittadini è stata memorizzata nel bel libro di Lorenzo Arecco “Gli opifici ad acqua nella valle del Teiro” che descrive con dovizia di notizie cenni storici e foto, gli opifici della valle Teiro.
Santuario di Nostra Signora della Croce, la grande croce in ferro fu eretta per commemorare il passaggio su questa altura del papa Innocenzo IV il 7 ottobre 1244
L’alveo del torrente Malacqua, lungo tutto il suo tragitto finale, prima della confluenza nel fiume Teiro è completamente regimentato da robuste mura in pietra e la strada, che dalla località Cravassa del Pero, conduceva a S.Martino, passando per la località di Verne, oltrepassava più volte le anse del fiume.
Particolare dei grandi argini in pietra di fiume , del torrente Malacqua
Lasciata l’auto in una radura si prosegue a piedi.
Molto problematico, effettuare il primo guado, ma poi sono le pietre a segnalare dove è possibile, saltando, guadagnare la riva opposta.
Ho percorso questo tratto di strada, fino alla località Verne di S.Martino, con il rian omonimo, che dà il nome a questo borgo di case, verne è il nome dialettale di ontano, ma in questo ambiente è padrona la gasia, (acacia) con numerosi alberi, anche di notevoli dimensioni, alcuni di loro, non aspettano l’acqua piovana, ma si abbeverano direttamente dal Malacqua!
Molti altri, giacciono abbattuti, per qualche misteriosa causa all’interno dell’alveo del fiume.
Il bacino imbrifero del Malacqua è molto vasto e con acclivi pendii, la piena di questo fiume, raggiunge in poco tempo grandi portate, ed è particolarmente temuta, quando conferisce le sue acque nel Teiro.
E reisce da na gasia
Ho fatto anche il percorso inverso, seguendo il tortuoso percorso del rian de Verne, ma sono stato costretto, a causa della eccessiva vegetazione, a scendere e proseguire, con molta difficoltà, nell’alveo del rian de Verne.
Sconsiglio vivamente, quest’ultimo percorso, molto pericoloso!
Nella bella località di Verne, c’è un crocevia, di due antiche strade, che arrivano dai Castelletti e dal fondo valle del Malacqua, quest’ultima, segna il confine tra Varazze e Stella S.G.
Lungo le sponde del torrente, il scenario che si presenta, ad un visitatore senza fretta, solo alla ricerca di manufatti e altre opere, che testimoniano la presenza di antiche attività, che caratterizzano anche questo territorio, ha di che meravigliarsi, dell’immenso patrimonio di terra strappata al fiume e alla foresta.
Anche in questo territorio, generazioni di nostri concittadini, hanno modificato l’ambiente naturale, per trarre da questi terrazzamenti, boschi e prati, il loro sostentamento.
A perenne memoria, se saremo capaci di averne cura, siamo oggi al cospetto dei loro manufatti, frutto del loro lavoro, dell’ingegno e delle loro quotidiane fatiche.
La parte finale del Malacqua è arginata da grandi muri e sovrastanti terrazzamenti
La sponda sinistra del Malacqua, presenta ampi terrazzamenti, un tempo adibiti a coltivazioni, mentre la sponda destra sembra essere stata utilizzata per la fienagione e pascolo, ancora oggi ci sono vaste zone prative, alcune però completamente colonizzate dai rovi, dove a malapena, si intravvedono costruzioni in pietra completamente dirute.
U papa au Maegua.
Nelle cronache storiche di Varazze, è citato solo in parte, un’importante evento che per completezza, si potrebbe così verosimilmente ipotizzare.
Se noi viaggiatori nel tempo, fossimo catapultati, in questi luoghi, nel tratto finale del torrente Malacqua, il giorno 7 ottobre 1244, saremmo testimoni di uno straordinario evento storico.
Lungo la strada, che fiancheggia il Malacqua, stava per transitare il corteo di papa Innocenzo IV, proveniente dalle alture di Castagnabuona.
Il Santuario della Madonna della Croce
Su quello, che poi verrà chiamato monte Croce, c’era stato un repentino cambio di percorso, del seguito papale, dopo la visione, da questa altura, al largo di Savona, delle galee di Federico II, che muovevano in direzione del porto.
L’imperatore, era pronto a far sbarcare il suo esercito, per intercettare e far prigioniero il papa, prima che raggiungesse la terra di Francia, e impedire la prevista scomunica contro di lui “lo Stupor Mundi”.
Bisognava assolutamente cambiar percorso, trovare un’altra strada magari nascosta alla vista, nel folto di un bosco, la Francia e la città di Lione l’avrebbero comunque raggiunta da un’altra direzione, valicando le Alpi!
Monte Cornaro discesa dai Cien de Cantalù ad arrivare in Spalla d’Ursu
Gli abitanti di Castagnabuona, che erano accorsi all’arrivo del papa nella loro contrada, lo accompagnarono fino al valico dei Brasci e consigliarono di proseguire verso i Cien de Cantalù e scendere dalla mulattiera, che dal Curnò arrivava in Teiro e poi proseguiva verso u Maegua
Quel giorno, lungo la carrarecia del Malacqua, avremmo visto arrivare, le avanguardie armate del papa, in avanscoperta, accompagnate, come guida da gente del posto.
Tutti gli abitanti del circondario, erano in allarme, per il gran trambusto, presto si sarebbero schierati lungo gli argini, ad aspettare il passaggio del Santo Padre, grazie ad un veloce passaparola da una rocca ad un’altra e da una contrada all’altra e naturalmente pronti, ad offrire ogni ben di Dio alla corte papale, che quella povera gente, aveva coltivato o allevato in questa parte della nostra città.
Panorama dal Monte Cornaro
“U l’arrive u papa!” Urlavano con un passaparola gli abitanti dal Pero a Cravassa ai Posi a Saccun, au Batò, S.Luensu e Campumarsu fino alla Muntò da Cappelletta!
Ma chi era chino, a lavorar la terra o ad accudire degli animali, non poteva credere ad una notizia così stravagante .
“Cussa braggian quei abbelinè? U papa ? Ma pensa ti che cunti musse!”
Ma poi, quando iniziò ad arrivare il grosso della soldataglia papale, allora ci fu un gran fermento e tutti volevano essere presenti all’evento. Chi aveva il vestito “buono” poteva cambiar abito ed avere così garantito un posto in prima fila, ma la maggior parte erano vestiti di stracci o troppo lontani dalle loro case per poter vestir panni decenti.
Resti del pilone di una cianca sul Malacqua
Le donne arrivarono in massa, portarono con loro i bambini, anche quelli più piccoli, per avere la benedizione papale, anche quelli storpi, ammalati di mal caduto e tosse “asenina”, sperando che questo giovasse alla loro salute, magari con un miracolo propiziato dal Santo Padre.
Solo i vecchi senza forze o alettati, furono lasciati a presidiar le case e gli animali.
Resti del pilone di una cianca
Ci volle quasi tutta la giornata, prima che il papa arrivasse nella valle del Teiro, molti uomini, accorsero in aiuto della carovana papale, perché le mulattiere du Curnò, non erano carrabili e dovevano essere allargate e sedimentate all’istante.
Naturalmente questa mano d’opera, fu totalmente gratuita, come sempre è stato, nei rapporti di lavoro fra la Chiesa e la povera gente!
Era tutta una festa, lungo il Malacqua, la serata non era fredda, le persone radunate lungo le sponde del torrente, dove passa il tracciato della strada verso Verne, accesero dei fuochi, per far luce e cuocere la carne.
Arrivava il papa e l’unica degna accoglienza che poteva offrire, quella povera gente, era offrire i prodotti della propria terra, privando se stessi e i propri famigliari del cibo, che doveva essere offerto al papa e al suo già ben pasciuto seguito.
Località Verne nicciu al crocevia delle strade provenienti dai Castelletti e dal Malacqua
Il papa arrivò, con tutto lo sfarzo della sua corte, al cospetto di quel popolo di poveri contadini e braccianti, malvestiti malnutriti, ma dignitosi nella loro condizione di indigenza.
Un prete, che precedeva il corteo, intono’ alcune preghiere e la gente si inginocchiò facendo il segno della croce.
Il papa, visto la calorosa accoglienza ricevuta, per senso di gratitudine verso quella comunità, che lo stava aiutando nella sua fuga e non per ultimo, per il buon odor del cibo, sprigionato nell’aria dalla carne che stava cuocendo allo spiedo, si consigliò rapidamente con i suoi cardinali, fece predisporre gli armigeri a guardia sulle alture e decise di fermarsi per omaggiare quel popolo di devoti fedeli.
Località Verne, grande costruzione in pietra nei pressi del crocevia probabile stazione di posta
C’era ogni ben di Dio lungo il Malacqua! I signorotti del posto volevano far bella figura con il Santo Padre e avevano posto in bella vista, i prodotti dei loro poderi e tutte le cibarie, che l’umile gente del posto aveva preparato, in poco tempo in suo onore, dopo una giornata di fatica, per accogliere nel migliore dei modi il rappresentante di Cristo in terra.
La fontana del papa
Innocenzo IV accettò di buon grado le offerte di quella povera gente, analfabeta, e timorosa, che a stento conosceva, per averle ascoltate in chiesa, solo qualche parola di latino e che si stupì molto, sentendo il Santo Padre, che era Sinibaldo Fieschi nativo di Lavagna, parlare lo stesso loro linguaggio.
Un mormorio si sparse fra i convenuti e in molti pensarono a questa circostanza, come ad un potere soprannaturale che avevano i papi
Fu allestita, in poco tempo una grande tavolata, in un prò da fen, ma l’illusione di partecipare alla mensa papale, durò poco, il popolino restò in disparte a osservare e a servire quell’abbondante libagione del pontefice e di tutto il suo accompagnamento, che avanzarono altre pretese mangerecce, furono così uccisi altri animali e arrostiti, arrivò anche un mulo con dei barili di vino, che rese euforica la papale cena.
Grande basamento per un ponte sul Malacqua
Si era fatto buio e l’allegra compagnia si rimise in viaggio verso Stella, con le lanterne rifornite di buon olio.
Ci fu una piccola predica in latino, che nessuno riuscì a capire, ma si intuivano comunque le minacce delle pene dell’inferno, rivolte a quei poveri cristi del Maegua che chissà che cosa potevano aver fatto di male nella loro miserevole vita!
I signorotti locali, invece gradirono le minacce degli inferi, pronunciate da Sua Santità, verso quei poveretti, questo era un buon viatico, per mantenere a bada quel popolo di straccioni, sempre pronto a mugugnare e ad avanzar pretese!
E fecero recapitare al tesoriere del papa una cospicua somma di denaro.
Cappella di S.Pietro in località Teglia
Seguì una veloce benedizione papale, ma chi voleva avvicinarsi alla santa persona, fu violentemente respinto e percosso dalle guardie.
Il corteo doveva raggiungere la località di Stella, dove era previsto il pernottamento, durante il tragitto ci fu una sosta per saziare la sete del papa.
Il nome Maegua è riferito proprio al papa, che avendo sete, si lamentava dicendo “ma nu ghe mai egua in te stu postu?”, trovata una sorgente ai lati della strada, il santo Padre si dissetò.
Da quel dì, quella sorgiva divenne la fontana del papa, di Malacqua.
Era previsto che dopo la sosta notturna, Innocenzo IV, doveva riprendere il viaggio verso Mondovì, per raggiungere poi la terra francese, il corteo papale fu costretto a fermarsi, per due settimane nel Castello di Stella, perché il papa e alcuni dei suoi fedeli sudditi, furono colpiti da un forte disturbo intestinale, forse qualche cosa indigesta, contenuta nel cibo di quella papale cena o del veleno, messo in qualche pietanza da qualche anticristo, che si era infiltrato tra quei devoti e pii fedeli ? O fu forse una vendetta di concerto perpetrata, da quegli straccioni, verso l’illustrissima persona del papa ?
Chi aveva osato tanto? La stessa domanda che fecero i francesi, quando qualche secolo dopo, nel 1800, alcuni soldati di Napoleone, in una pausa, durante gli scontri armati con gli austriaci, in questa zona, morirono, fra atroci dolori, dopo un pranzo confezionato con degli spiedini….infilzati con rametti di oleandro.
Questo verosimile racconto storico, finisce qui, non si è mai saputo con certezza, la strada che fece il corteo papale, per sfuggire dalle ire di Federico II, alcuni riferiscono come più probabile la direttrice da Monte Croce verso i Brasci, Rocca Guardioa e Briccu de Furche, comunque poi tutti concordano con il fatto, documentato, del papa bloccato per due settimane nell’abitato di Stella, a causa di non specificati problemi di salute.
Il papa raggiunta Lione convocò il Concilio e il 17 luglio 1245 confermò la scomunica a Federico II lo Stupor Mundi.
Gli abitanti di Castagnabuona eressero una croce in ferro per commemorare quell’evento e un’anno dopo nel 1245 costruirono una cappella dedicata alla Madonna della Croce che fu subito meta di pellegrinaggi.
Una targa presso la Cappella di S.Pietro in località Teglia commemora il passaggio del papa