A Vinvagna da Ferruvia

Vi è siete mai chiesto il perché di quella lussureggiante vegetazione, che prospera durante la stagione estiva, anche quando il fiume è asciutto, nei pressi e a valle del ponte ferroviario sul Teiro?

Acqua della falda nel greto del Teiro

 E quella specie di palude dau Marasin?

E quel lago che forma l’Arrestra, sotto al ponte dell’ex ferrovia, al confine con Cogoleto, dove anche d’estate ci sono le anatre e l’acqua è sempre limpida?

Tre domande, stessa risposta è la Vinvagna da Ferruvia, l’acqua che, drenata dall’interno della galleria Invrea, tramite una tubazione è conferita al Teiro e all’Arrestra.

Foce dell’Arrestra

Le infrastrutture viarie, costruite nel nostro territorio, sconvolsero il paesaggio con i viadotti autostradali e ferroviari, ma nascosti alla vista, provocarono altri sconvolgimenti, all’apparato idrico sotterraneo, mai sufficientemente indagati.

Costruzione ponte della ferrovia sul Teiro

Ricordo da bambino, l’affievolimento della sorgente du Pisciuellin, un termine diminutivo, ma la sua portata era capace di riempire na Peschea, per irrigare gli orti dau Campusantu Vegiu, l’afflusso d’acqua si interruppe poi del tutto, a seguito della costruzione della galleria Cantalupo, che occluse quella sorgente e deviò le acque sotteraneee, in un’inarrestabile vena d’acqua, che sgorga anche nel periodo estivo, nell’alveo del fiume, in via Scavino, al disotto del pilone autostradale.

Parlo con Nello Cabassa, di quella enorme falda che fu perforata durante la realizzazione della galleria ferroviaria Invrea, nelle viscere del monte Grosso.

Nello

Lui era addetto alla movimentazione terra durante i lavori per la costruzione di quella galleria lunga 6,5 km effettuati negli anni 67/68

L’esecuzione del tunnel fu affidata a due imprese di scavo, lato Varazze all’impresa Voli e quella di Cogoleto all’impresa Salci.

L’accordo non prevedeva la spartizione in parti uguali del tunnel, fu lasciato di proposito la libertà di scavare, quindi più ci si addentrava nelle viscere della montagna e più si faceva profitto.

Dopo il preforo, chiamato in gergo da minatori, “avanzamento”, c’erano i lavori di “strozzo”, ovvero l’abbassamento della sede viaria alle dimensioni definitive.

Galleria del treno presso Villagrande

Nel tunnel lato Varazze, l’attività di movimentazione inerti, fu affidata tramite subappalto, alla ditta Cerruti GB, U Bin

Il materiale di risulta, dopo il brillamento delle cariche di esplosivo era caricato sopra gli autocarri da Nello con una pala Caterpillar, trasportato in località Parasio, dove era in funzione un frantoio, di proprietà dei Cerruti, che produceva ghiaia nelle diverse pezzature, utilizzate nell’impasto per il calcestruzzo o riportate all’interno delle costruende galleria per formare il fondo di drenaggio.

Sbancamento per costruire la stazione

Dopo circa 2000 metri di scavo, a seguito dello scoppio di una “volata” (termine da minatori che si riferisce al brillamento delle mine), il tunnel fu invaso dall’acqua, un’enorme falda era presente nelle viscere della montagna, contenuta all’interno del serpentinoscisto nero dell’Invrea, al disopra della costruenda galleria.

Questa falda bloccò per alcuni giorni l’avanzamento, la roccia resa permeabile a seguito delle “volate” rilasciò milioni di metri cubi d’acqua all’interno della costruenda galleria, interruppe e poi complicò molto il lavoro dei minatori. Costretti a lavorare in condizioni molto gravose sottoposti ad un continuo stillicidio di acqua.

Era una vita grama quella dei minatori, durante gli scavi delle innumerevoli gallerie del treno e delle autostrade nella nostra regione, non esistevano le sofisticate e automatizzate “talpe”, un’unica macchina oggi utilizzata per le diverse operazioni, scavo, estrazione inerti e posa in opera dei conci i prefabbricati per la volta delle gallerie.

Negli anni 70 si usava ancora la cosiddetta “marmotta” un generatore di corrente che azionava il detonatore dell’esplosivo, fatto brillare in rapida sequenza, dal centro verso l’esterno, contenuto all’interno di una corona di fori effettuati con un martello pneumatico.

L’inaugurazione di una galleria

Il barramine, è un piccolo martello pneumatico, dotato di una lunga punta cava, la barra, messa in rotazione battente, perfora la parete rocciosa, il foro viene mantenuto pulito dai residui di roccia o terra da un getto d’aria compressa che fuoriesce sulla punta.

Nello, cambiando tono di voce, con commozione, ricorda le persone conosciute durante quello scavo, perlopiù lombardi e veneti, era l’alcool sempre presente in cantiere, che faceva sopportare attenuare e non pensare, alla fatica e ai pericoli quotidiani, che incombevano sopra la testa di quella povera gente, che ogni giorno si spaccava schiena e polmoni in un lavoro massacrante.

La galleria Invrea fu ultimata, ma anche l’esecuzione di questo manufatto, fece la sua vittima, un giovane operaio, perse la vita, schiacciato mentre si procedeva allo spostamento di un macchinario, questa tragedia si aggiunse a mille inconvenienti e altre complicanze, ma nel 1968 nella galleria Invrea passò il primo treno.

Anche queste, sono storie dimenticate, chi erano quelle persone che hanno lavorato in condizioni disumane, nel buio delle gallerie o sospesi sopra un ponte autostradale o ferroviario?

 E’ stato ingente il tributo di vittime, nell’attraversamento del territorio del comune di Varazze, sono state quattro le morti durante la costruzione di queste infrastrutture autostradali e ferroviarie.

Autostrade oggi molto criticate, sempre al collasso, ma vitali per l’economia della nostra Liguria.

A seguito della rottura di quella falda, in alcuni punti si riuscì a malapena ad avanzare di 20 metri in 60 giorni! Per procedere con la volata l’acqua era estratta dai fori praticati con i barramine, prima di essere caricati di esplosivo e fatti brillare.

Il consolidamento della roccia fu effettuato utilizzando il cemento Amoco, una malta a presa rapida. Per il drenaggio di quell’ingente massa d’acqua si rese necessaria la costruzione di una “finestra di lavoro”un tunnel di sfogo che scaricava l’acqua nel torrente Arzocco, altre due tubazioni di drenaggio riversano ancora oggi l’acqua di falda nel Teiro e nell’Arrestra.

Articiocche da Vignetta

Gli effetti della rottura della falda artesiana nelle viscere del monte Grosso si manifestarono dopo qualche tempo con il prosciugamento delle sorgive che permettevano l’irrigazione di tutta quella bellissima fascia pedemontana, riparata dai venti da nord, da sempre produttrice de primisse da ortu e da fruta de Vase della: Vignetta, Cian du Tummu, Sarsciu e S.Ambrogiu.

A Ciusa du Spurtigiò

Rimase senz’acqua anche la sorgiva della bella zona terrazzata detta dei Funtanin, sulle pendici del Monte Grosso, mentre la zona del castello d’Invrea con i poderi era già stata tagliata in due dalla Camionale negli anni 60, ma era approvvigionata con l’acqua proveniente dalla ciusa du Spurtigiò.

Terrazzamenti dai Funtanin

La ricerca di queste fonti idriche fu oggetto di alcune escursioni effettuate con l’amico Germano Gadina proprietario di una bella azienda agricola, au Cian du Timmu, inoltrandoci in zone abbandonate dalle attività umane e oramai completamente invase dalla vegetazione, scoprimmo i grandi terrazzamenti dai Funtanin, testimonianze di un passato di estese colture sulle pendici del Monte Grosso.                                                                                           

Germano Gadina

Ma chi può essere a conoscenza della storia del contenzioso che nacque con l’Ente Ferrovie dello Stato e gli abitanti della Vignetta Cian du Timmu Sarsciu ecc. quando a seguito della perforazione della galleria si prosciugarono sorgenti e ruscelli?

Chiedo a chi conosce bene la Vignetta perché lì è cresciuto o vi abita, domando a Enrico Dabove che mi dice di parlar con Berto Caviglia il quale a sua volta conosce poco la storia da Vinvagna da Ferruvia e mi consiglia di cercare la signora Lina Ghigliazza che abita poco distante in una graziosa casetta con un bel prato e una stupenda vista mare.

Orti della Vignetta

Oltrepassato il cavalcavia sulla Camionale la strada prosegue in salita, vedo due signore sedute in un giardino intente a far due chiacchere, chiedo informazioni ma una delle due signore è proprio lei, la signora Lina che cercavo, in compagnia di Rosetta Ghigliazza.

Mi qualifico come un rompiscatole, che vuol conoscere quella storia di molti anni fa, a questo punto ottenute le informazioni che cercavo, insieme a queste due gentili signore ripercorriamo un bel pezzo di storia di queste zona della Vignetta che io conosco solo dal punto di vista escursionistico, ma non serve più far domande, la signora Lina è un fiume in piena e mi racconta con dovizia di particolari storie di persone fatti accaduti e nel suo intercalare è supportata da Rosetta che aggiunge altri particolari e ricordi al racconto.

U Briccu da Pansa e sorgenti du Rian da Moa

Dopo l’ultimazione dei lavori del tratto Voltri Varazze della ferrovia, iniziò un progressivo inaridimento delle vinvagne e dei rian che erano usati per l’irrigazione delle coltivazioni.

Peschea du Cian du Timmu

La prima sorgente che cessò la sua erogazione fu quella du Briccu da Pansa, che tramite una tubazione portava l’acqua in una vasca alla Vignetta, poi venne meno anche l’apporto idrico della sorgente dei Funtanin, che permetteva l’irrigazione dell’omonima zona e tramite un tubo riempiva le due grandi vasche au Cian du Timmu

U Rian da Moa

Anche i rian de Rive, da Moa e da Furca diminuirono  sensibilmente la loro portata d’acqua.

La cronaca locale, dette molto risalto al prosciugamento del Funtanin da scià Rusin, una componente della famiglia Lavarello, moglie di Francesco Cilea, da cui partiva un beu, un canale, che sottopassando la strada, portava l’acqua alla villa del maestro, il Funtanin un’abitazione furono distrutti durante la costruzione del raddoppio autostradale.

Rusin Rosa Lavarello moglie di Francesco Cilea

Si capì da subito il nesso di quella perdita di risorse idriche, con lo scavo di quel tunnel e poi c’era l’evidenza, di quell’ingente quantità di acqua, che fuoriusciva dalla galleria e finiva nel Teiro, Arzocco e Arrestra, era quella sottratta ai ruscelli e alle sorgenti soprastanti.

Fu intentata una causa civile contro Ferrovie dello Stato ree di aver interrotto la falda artesiana, togliendo l’apporto idrico per le coltivazioni.

La lunga durata del procedimento giudiziario portò alla defezione di alcuni proprietari dei poderi, danneggiati dalla perforazione della falda, che rinunciarono alla causa accettando un indennizzo forfettario.

Rimasero solo in tre Delfino Ghigliazza GB e Gerolamo ad ostinarsi per riavere l’acqua nelle loro coltivazioni, il braccio di ferro si concluse a luglio del 1976, la legge condannò Ferrovie dello Stato a porre rimedio a questa incresciosa situazione.

Sistema di pompaggio all’interno del tunnel di sfogo della galleria Invrea

A risarcimento del danno subito, per il prosciugamento delle fonti di irrigazione, fu installato a spese dell’Ente Statale un sistema di pompaggio all’interno della galleria di sfogo nei pressi del torrente Arzocco, l’acqua ancora oggi è pompata in una cisterna che fu costruita sulle pendici del bricco delle Rive.

 L’importo liquidato non era però sufficiente per completare i lavori e una parte delle spese furono a carico dei tre proprietari.

 Lina ricorda il papà che si commosse quando vide arrivare nel mese di luglio del 1976, dopo 8 anni di contenzioso, l’acqua per uso irriguo nei campi della Vignetta.

Altri tempi, dove la gente partecipava di persona, manualmente per l’esecuzione di opere destinate al bene di tutti, esisteva la solidarietà quella vera quella del buon vicino di casa erano momenti conviviali, dove spesso al termine di una giornata di lavoro ci si ritrovava sotto ad un pergolato o in un prato a mangiare e bere fra chiacchere e risate.

Vasca di contenimento sul Briccu de Rive

 L’installazione del sistema di pompaggio e la costruzione di una vasca di contenimento furono gli aspetti meno problematici di quel sistema idraulico.

Uscita tunnel di sfogo della galleria Invrea

La posa della tubazione tutt’ora efficiente, fu un’impresa ciclopica realizzata completamente a mano, da due idraulici di Cogoleto e da altre persone dell’impresa Craviotto, non si conosce l’esatto percorso del tubo, ma dall’alveo dell’Arzocco dove si trova la stazione pompante, fu eseguito uno scavo per l’alloggiamento del tubo, in salita verso a Ca de Toe, l’Equa Ferruginusa u Cavettu da e Oche, poi in discesa verso u Rian da Moa e la risalita sulle pendici del Briccu de Rive.

A Ca de Toe

 Lina ricorda quegli operai costretti a legarsi ad alberi o rocce per poter scavare con il rischio di precipitare nei dirupi, e poi la costruzione di un apposito carrello adibito al trasporto del cemento per la costruzione delle  fondamenta e della vasca che fu posizionata a metà del briccu de Rive. 

U Briccu de Rive

Il sistema è ad autoclave una valvola a galleggiante interrompe l’afflusso di acqua alla vasca e in caso di troppo pieno l’acqua è scaricata verso u rian da Moa.

Lina racconta quando era necessario avviare manualmente e poi spegnere il sistema di pompaggio e dovevano partire dalla Vignetta e poi scendere nell’Arzocco nei pressi del tunnel di sfogo, e la paura di dover andare da soli .

La gola dell’Arzocco

 Oggi a carico degli utenti è il consumo di energia elettrica, la manutenzione e la quota destinata al Demanio terrestre per l’utilizzo dell’acqua.

Questo altro racconto finisce qua, mi congedo dalle due gentili signore, che ringrazio della loro disponibilità, starei ancora a lungo, qua alla Vignetta in questo giardino, in loro compagnia, con la vista del mare, ora con la luce del tramonto, a sentire altri racconti, ricordi ancora vivi di un tempo passato, di lavoro e di fatica e di quelle cose semplici che davano una felicità che abbiamo perduto. .

 Mi scuso ancora della mia intromissione, ma per loro non c’è alcun problema e fa piacere, quando mi dicono, che è una bella cosa la mia, quella di raccontare queste storie oramai quasi del tutto dimenticate.

“Ma u l’è vegnuu tardi e bisogna mette una pignatta in so fogu se vuremmu mangiò quarcosa pe senna”.

Le saluto e ci accordiamo per un’altra visita, quando porterò copia del testo di questo racconto.

foto in B/N Archivio Fotografico Varagine.

A Cruscetta de Selle

Estate del 1911 la spiaggia di Celle a destra il promontorio della Crocetta

Anche quelli Sciu da Teiru primma o poi han piggiou un treno pe Sanna

Come non pubblicare le foto e scrivere un mio resoconto, dopo aver visto le immagini e aver letto il bellissimo libro “Celle e la Ferrovia” in immagini d’epoca 1859-2006. Disegni di Dino Cerisola, Grafica Antonio Ferro, Note Flavio Nebiolo, Ricerca Storica Luigi Venturino

Varazze uscita del treno dalla galleria Invrea

Il libro mi è stato dato, in visione, da Monica Badano e Piero Perata, titolari della tipografia SMA di Cogoleto, che ringrazio di cuore, per avermi dato un’altra opportunità, di conoscere aspetti inediti o dimenticati, accaduti nella nostra città e anche di quelle limitrofe . Grazie!

La Villa Araba

Il successo turistico delle nostre cittadine rivierasche, iniziato nei primi anni del secolo scorso lo si deve alla ferrovia…… non solo per la rapidità degli spostamenti, ma anche e soprattutto per i bellissimi scorci di paesaggio, che si potevano vedere dai finestrini di un treno che transitava a bordo mare.

Varazze uscita galleria Invrea vista dalla galleria dei Pescatori

 Cent’anni fa un viaggiatore in una carrozza ferroviaria, oltrepassata Genova Voltri in direzione di ponente, avrebbe distolto e abbandonato sopra il sedile il libro che con tanto interesse stava leggendo, per ammirare panorami di incomparabile bellezza, apparire e scomparire ad ogni galleria, specie quegli scorci di natura, che si possono ancora ammirare oggi, del Lungomare Europa, una scogliera, un arenile, le macchie di colore della ginestra o dell’erica, boschi di piante grasse, palme e poi come non ammirare gli imponenti manufatti, le gallerie scavate nella nuda roccia o rivestite con milioni di mattoncini e ancora  le poderose massicciate a protezione dai marosi e le pregevoli muraglie con archi in pietra.

 E quei piccoli caratteristici paesi di pescatori, attraversati dal treno, dove si poteva scrutare fin dentro le case, dirimpettaie alla ferrovia.

Io e quelli della mia generazione, studenti a Savona, siamo stati gli ultimi fortunati utenti della Ferrovia Litoranea, ad assaporare quelle sensazioni, non sempre così belle, ma comunque spettacolari, come quando, specie nel tratto Varazze Albisola, nelle fredde giornate invernali, il treno fendeva le onde delle mareggiate, che si frangevano sui binari, non di rado, se casualmente era rimasto un finestrino semichiuso, l’acqua entrava nello scompartimento, con urla e disappunto di chi si era bagnato.

Mareggiata

In seguito, la presenza dei binari in mezzo alle case, i numerosi e pericolosi passaggi a livello il rumore ecc, non furono più tollerati e fu progettato ed eseguito, lo spostamento della ferrovia a monte, a binario doppio con la costruzione di scomode e decentrate stazioni ferroviarie.

Celle

Nel 1977 fu attivata la linea da Varazze fino alla nuova tribolata stazione di Mongrifone a Savona, da quel giorno, niente più panorami di incomparabile bellezza, apparire e scomparire ad ogni galleria.

Il passaggio a livello di Roglio

Nei primi anni del 900 l’immagine più suggestiva di Celle, era il promontorio della Crocetta, dominava la città, era la classica foto cartolina, il castello, quella chiesetta arroccata sulla scogliera, la spiaggia sottostante con i turisti già al mare….. anche quel 10 giugno del 1940.

Primi del 900 il tracciato originale della ferrovia e della via Aurelia e il promontorio della Crocetta

 Quel giorno affacciato in piazza Venezia il duce spezzava reni a destra e a manca, portando un povero paese arretrato confuso dalla retorica convinto a bastonate e olio di ricino, verso una catastrofe umana mondiale

Passarono le prime tradotte cariche di soldati che andavano verso il confine francese, ordine del regime, serviva avere almeno un migliaio di morti, da portare in dote al duce, per avanzare qualche pretesa al tavolo della resa di Francia.

Cantavano, ridevano, quei giovani soldati, ignari di quello che era stato ordito a loro insaputa, canti, slogan e dichiarazioni d’amore, urlate da un finestrino, quando avvistavano qualche bellezza al mare o delle ragazze nelle strade delle cittadine attraversate dai treni.

Già dalle prime avvisaglie, si capì quanto fosse impreparata la nostra marina, tanto glorificata nelle poderose sfilate, vanto del regime, e volutamente tenuta lontana dalle acque della nostra regione, il 13 giugno non si accorse dell’arrivo di una squadra navale francese, che prese a cannoneggiare i depositi costieri di Vado Ligure, Zinola, Legino la zona industriale di Savona e Albisola, la città di Genova, fu risparmiata a seguito dell’intervento delle batterie costiere, che colpirono, senza affondarla, una nave francese. 

L’unica risposta, furono alcuni siluri lanciati a vuoto dalla vecchia torpediniera Calatafimi, in questo scontro a fuoco, fu ingaggiato anche il treno armato nascosto nella galleria Castello ad Albisola, con grande e menzoniera enfasi fu data la notizia di questo primo vittorioso, scontro armato.

I treni armati, furono l’unica arma temuta dagli alleati e di conseguenza le località dove stazionavano, diventarono bersagli da bombardare.

Quelle tradotte, transitate baldanzosamente verso la Francia, tornarono mestamente indietro, cariche di feriti e bare. Furono circa 1200 i morti italiani durante “l’attacco infame”.

Nei paesi di mare, iniziarono ad arrivare gli sfollati, provenienti dalle città, si incrementò il fenomeno della borsa nera, si commerciava olio per avere la farina dal basso Piemonte, il sale era ricavato da improvvisate saline.

Quando la sirena dell’allarme aereo, posta sul campanile del convento di S. Maria della Grotta, iniziava a suonare, tutti si rifugiano nelle gallerie di S. Sebastiano o della Crocetta.

A questo punto i treni, anche ad allarme terminato, dovevano rallentare perché l’entrata in galleria doveva essere ispezionata da un ferroviere, che con la lanterna, doveva assicurarsi che nessuna persona fosse rimasta all’interno.

L’accesso alle gallerie, fu proibito e per far rispettare questo divieto, furono posizionate delle garitte, con le sentinelle che presidiavano l’ingresso.

Fu costruito un rifugio antibombe, presso l’hotel Excelsior e posizionate due batterie contraeree dislocate a Pecorile e nella Pineta Bottini.

La Colonia e il Cottolengo in costruzione

 Le colonie dei Milanesi e dei Bergamaschi visto il loro privato accesso alla linea ferroviaria, furono adibite ad ospedale e identificate con due grandi croci, dipinte sulle facciate, le Colonie Bergamasche, furono adibite nel corso del conflitto a prigione e centro di smistamento di antifascisti e renitenti di leva, verso il campo di sterminio di Mauthausen.

 Gli abitanti di Celle e delle altre città rivierasche, cercarono i più disparati espedienti per tirare a campare, ci si abituò come fosse cosa normale all’economia di guerra e alle notizie che trapelavano dai vari fronti.

Nella vicina Varazze, sfilavano i giovani avanguardisti e il Grand Hotel era sede di feste e banchetti, in onore dell’alleato tedesco nei mesi estivi ci fu, nelle città costiere, il ritorno anche se in forma ridotta, di quel primordiale turismo estivo.

 Ma le cose precipitarono dopo l’8 settembre, la guerra era finita persa per le potenze dell’asse dopo la disfatta in Africa e in Russia, specie per l’Italia un povero paese mandato allo sbaraglio, impreparato, disorganizzato, capace solo di contar dei morti, ma in un rigurgito di vana onnipotenza, per paura di un ventilato sbarco alleato sulla riviera di ponente, nelle nostre città fu incrementato il reclutamento anche di giovanissimi da addestrare per forgiare un’improbabile stirpe di eroi, furono dislocate ingenti truppe nazi fasciste, costruite imponenti muri antisbarco, con uno sperpero di finanze pubbliche.

Nella primavera del 1944 la V armata che era sbarcata ad Anzio, riprese ad avanzare sfondando la linea Gustav, Roma venne liberata restò solo la Linea Gotica a difesa delle pianure del nord Italia.

A destra lo squarcio prodotto dalla bomba da 500 libbre che colpì la galleria Fighetto e la Lapide a ricordo dei caduti

 Si intensificarono i bombardamenti a partire dal 6 agosto tutta la nostra regione fu sottoposta a incursioni aeree, fino ad arrivare al fatidico 12 agosto 1944 quando alcune squadriglie di bombardieri B24 bombardarono Savona, Albenga, Vado e Varazze, ad Albisola nell’intento di colpire il treno armato, occultato nella galleria Fighetto, provocarono una strage di civili.

 Gli aerei, provenienti da una base aerea in Corsica, sorvolarono le alture di Pecorile e poi con un’ampia virata, scaricarono le bombe, colpendo per una tragica concomitanza un  treno passeggeri, che stava cercando rifugio proprio nella galleria Fighetto, una bomba perforò la volta della galleria e colpì le prime carrozze, morirono sette persone.

Il 15 di agosto del 1944, gli angloamericani sbarcarono in Provenza, mentre la V armata era ancora, per poco, impegnata a superare la linea gotica.

Arrivò il 24 aprile, la guarnigione tedesca di stanza a Celle, ripiegò verso Levante, per unirsi agli altri reparti dislocati a Varazze e insieme raggiungere le fortificazioni del Giovo Ligure.

Dopo l’esplosione della galleria Crocetta

La galleria della Crocetta, era stata minata per coprire la fuga e i tedeschi erano pronti per farla saltare, ci fu una trattativa con vari esponenti cellaschi, perché fosse risparmiata la chiesa della Crocetta, che era proprio sulla verticale del tunnel ferroviario, la situazione degenerò, quando le truppe tedesche convinte dell’inutilità di quella distruzione e in procinto di lasciare Celle senza dar seguito ai loro propositi, ebbero la notizia dell’uccisione di un loro commilitone.

L’esplosione causò il distacco di enormi massi che possono essere rapportati con le figure umane nel cerchio

A questo punto l’interprete italiano fu preso come ostaggio, riuscì poi a fuggire, i tedeschi ritornarono alla galleria Crocetta, collegarono i detonatori che nel frattempo erano stati messi fuori uso, fecero brillare le cariche e di quel bellissimo panorama ottocentesco, del promontorio della Crocetta, quando, la nuvola provocata dalla potente esplosione si diradò, non rimase più nulla.

Effetti dell’esplosione visti dalla via romana

Termina qui il resoconto, della lettura di questo libro, che all’inizio descrive i primordi della linea ferroviaria che transitava fra le case di Celle, dopo la parentesi della guerra con la distruzione della Crocetta, la lettura del libro continua e parla della ricostruzione, arriva ad un passato più recente con la nuova ferrovia, sono citati dati, fatti, luoghi, molto interessante.

La distruzione della Crocetta fu perpetrata per vendetta e per frustrazione.

Oggi le distruzioni continuano, non fanno rumore, ma deturpano cementificano, stravolgono paesaggi e centri urbani, in una folle rincorsa al massimo profitto, nulla sembra poter fermare questi scempi.

le foto del tratto ferroviario oggi Lungomare Europa sono dell’Archivio Fotografico Varagine.

Il Zenagliano

Il Zenagliano era l’idioma dialettal-italiano parlato negli anni del secondo dopoguerra Sciu da Teiru, nelle frazioni, ma anche nel Borgo, Solaro e S.Nazario, da chi madre lingua zeneise era costretto a imparare una nuova lingua, l’italiano.

Alessandro Manzoni

Dopo l’unità d’Italia e per tutto il secolo XIX si scontrarono sulla questione italiano/dialetto, due posizioni abbastanza inconciliabili: I manzoniani avevano sperato di poter condurre attraverso la scuola una duplice lotta, volta da un lato a sradicare la «malerba dialettale», dall’altro a imporre come tipo linguistico unitario il fiorentino.

Francesco De Sanctis

Altri, come il De Sanctis, l’Ascoli, il d’Ovidio erano decisamente sfavorevoli ad una lotta indiscriminata contro i dialetti, nei quali scorgevano i depositari di un ethos locale da non disperdere… i dialetti, perciò, non andavano messi in ridicolo, ma studiati e confrontati con la lingua italiana (De Mauro 1973, 88-89).

E’ noto che l’atteggiamento ufficiale delle autorità fu vicino alle posizioni dei manzoniani ma in realtà l’obbligo”, vuoi per la scarsa efficienza delle istituzioni scolastiche primarie “carenze legislative, povertà delle finanze comunali, ostilità del clero, degli amministratori locali e del ceto dirigente conservatore contrario alla diffusione dell’istruzione” agli inizi del nuovo secolo i bambini continuavano a rivelare gravi carenze linguistiche, e questo anche perché, tra le altre cose, i maestri tendevano ad usare in classe il dialetto o «un misto di dialetto e lingua letteraria», il che «val peggio dell’uso del puro dialetto» (Relazione, in De Mauro 1973, 93).

Tulio de Mauro

Nel secondo dopoguerra, il boom economico con l’industrializzazione indotto dalla ricostruzione, fu un altro potente fattore di mobilità interna, soprattutto dal sud al nord, ed i fenomeni migratori, dalle campagne alle città e quindi di incontro di lingue e di culture.

Quando poi nel 1962 fu introdotta in Italia la scuola media unica che innalzava l’obbligo scolastico a 14 anni, un nuovo pubblico di scolari tradizionalmente fermi all’istruzione elementare, vale a dire i figli delle classi operaie e contadine, si affacciarono per la prima volta alla scuola superiore, e questa radicale trasformazione nella composizione del pubblico scolastico non fu indolore.

La dialettofonia diffusa nelle classi popolari si abbatté sugli insegnanti della ‘nuova’ scuola media unificata cogliendoli del tutto impreparati. Anche perché costoro, a differenza dei maestri elementari da tempo abituati al modesto compito di istruttori di tutti i cittadini nelle abilità di base del ‘leggere, scrivere e far di conto, non riuscirono a percepire il disagio le difficoltà degli studenti.

Le ‘insufficienze’ accumulate nelle diverse materie erano per lo più interpretate come il frutto di disattenzione, scarsa applicazione allo studio, quando non di scarsa intelligenza. Il risultato fu che molti ragazzi, immessi per obbligo nella scuola media, ne venivano espulsi dopo uno o più anni di frustranti esperienze.

La fuga dalla scuola, e quindi l’evasione dall’obbligo, fu per molti di quei ragazzi la soluzione quasi scontata del problema.

A Vase

Tutti questi ultimi elementi erano presenti nella società della nostra citta’ negli anni 50/60 ricordo i pensierini delle elementari infarciti con parole dialettali e poi il fenomeno dell’abbandono scolastico, dovuto anche alla troppa rigidità del corpo insegnante, lungi da applicare quello che oggi è chiamato “il sei politico”

Anni 50 costruzione nuovo edificio scolastico in via G.B.Camogli

La media era pura matematica, e così alcuni nostri compagni non appena raggiunti i 14, anni abbandonarono la didattica, per il mondo del lavoro, dove peraltro erano già impiegati e mai sopportati in questa duplice condizione di scolaro/lavoratore dalla scuola statale, anzi a volte e di questo ne sono testimone, trattati anche in malo modo e spronati all’abbandono scolastico, a questo proposito è bene saper che nell’elenco del registro di classe nell’ultima colonna a fianco del nome dello scolaro era scritta la professione del padre, un retaggio del ventennio fascista rimasto in essere anche negli anni del dopoguerra.

Scuola Elementare G.B.Camogli Varazze 1965 Classe Quinta con i maestri Camiciottoli, Cavalleri, Damele.

Le carenze accumulate negli anni delle elementari, poi si scontavano alle medie specie nell’uso corretto dell’italiano abituati in famiglia e con gli amici a parlar in dialetto poi si finiva per fare un miscuglio, citato da De Mauro come «un misto di dialetto e lingua letteraria», il che «val peggio dell’uso del puro dialetto» è il cosidetto Zenagliano, parlato, se capita, ancora oggi tra di noi alunni degli anni 60, termini pratici inseriti, in una frase in lingua italiana, utilizzati con efficacia e velocità per descrivere cose, azioni o ricordi, evitando così anche una problematica traduzione nella patria lingua.

Molte parole sono diventate patrimonio linguistico, correntemente usato oggi anche dalle generazioni più giovani quali rumenta, abelinato, sguarato, zetto, carruggio, tomate ecc.ecc.

Oggi, a quarant’anni da quelle accesissime polemiche tra apocalittici e integrati, tra nostalgici delle parlate locali e fautori delle magnifiche sorti e progressive, sembrano tutti sconfitti di fronte al pauroso ristagno economico, culturale e linguistico. L’allarme lanciato da De Mauro chiama in causa anche il nuovo governo, che finora, ha detto lo studioso, «sembra aver dimenticato l’istruzione». Istruzione e scuola sono i due concetti chiave. Se nel dopoguerra, fino agli anni Novanta, il livello di scolarità è cresciuto fino a una media di dodici anni di frequenza scolastica per ogni cittadino (nel ’51 eravamo a tre anni a testa), oggi si registra, con il record di abbandoni scolastici, un incremento pauroso del cosiddetto analfabetismo di ritorno, favorito anche dalla dipendenza televisiva e tecnologica. Non deve dunque stupire che il 33 per cento degli italiani, pur sapendo leggere, riesca a decifrare soltanto testi elementari, e che persista un 5 per cento incapace di decodificare qualsivoglia lettera e cifra. Del resto, pare che la conoscenza delle strutture grammaticali e sintattiche sia pressoché assente persino presso i nostri studenti universitari, che per quanto riguarda le competenze linguistiche si collocano ai gradini più bassi delle classifiche europee (come avviene per le nozioni matematiche).  da Corriere della Sera Cultura “Se sette italiani su dieci non capiscono la lingua

Sergio

Sciu da Teiru, In ta Cin-a, u ghe sta u Sergio, u l’e du 1928, me grande amigu!Pe fome arvì a porta, ghe diggu che sun Garibaldi…ciu o menu sun de leva!

Sergio Romano

Con Sergio, abbiamo iniziato a parlar di strumenti musicali a fiato, costruiti nel Lurbasco, con la corteccia del castagno, localmente chiamati, muse, borgne e sciurei, e poi questo racconto è diventato la storia del suo lavoro, dal Lurbasco, alle foreste della Borgogna in Francia e poi in un’impresa edile nella nostra città dove attualmente risiede, Sciu da Teiru

Fu così che conobbi suo figlio, Giorgio, grande sfortunato amico mio, amici negli anni più belli della nostra vita.

Sergio, da buon Lurbasco, conosce quei strumenti musicali e sorridendo mi dice che anche lui costruiva gli sciurei, ricavati dai rami, non più grandi di cinque centimetri di diametro, quando la pianta è in “sugo” ed è facile distaccare la corteccia dall’alburno, operazione da effettuare in primavera, quando il castagno, rinato dal letargo invernale, allunga e ingrossa i suoi rami e fa sbocciar le gemme fogliari.

Ma la costruzione di questi flauti, è lo spunto per un’altra storia.

Sergio, fu il primo de na nio’ de figgi, nella casa au Maraschin in Vara Superiore, della famiglia Romano Antonio e Pesce Rina, seguito da Delio, Marisa, Ines, Tina e Giancarlo.

Dopo un anno e un mese, dalla nascita di Sergio, venne alla luce il secondogenito, Delio, ma fu un parto molto travagliato, la mamma fu dichiarata in fin di vita, riuscì a sopravvivere, ma ebbe bisogno, in seguito di molte cure. Sergio, piccolino, si trasferì in località Cian Malone, nei pressi di Acquabianca, in casa della nonna materna Maria.

Sergio ha un buon ricordo della nonna e ogni volta che la nomina, si percepisce il senso di gratitudine nei suoi confronti, in quella casa a Cian Malone, trovò l’affetto e tutto quanto necessario per la sua infanzia.

Rimase per quasi dieci anni, nella casa della nonna. Era la lalla Maria, ad aver cura di lui, mi racconta di quella sua zia, che era molto comprensiva e premurosa, a volte lo accompagnava au Maraschin, a trovare la sua vera famiglia, ma la strada da fare era lunga e allora spesso lo portava in spalletta, a Sergio piaceva star lassù e guardar le cose dall’alto.

Maria era una bella ragazza e non passò molto tempo, prima che qualche ragazzo di paese le facesse dei complimenti. Ma a lei non interessavano i suoi conterranei, in una festa di paese, aveva conosciuto quello che poi sarebbe diventato suo marito, u Pedrin.

Pedrin abitava a Masone, in linea d’aria non molto distante da Equagianca, ma era un lungo tragitto, da fare a piedi, per sentiero, in mezzo a boschi, superando colline e corsi d’acqua.

Lo spasimante di Maria, arrivava la domenica mattina, per poi ripartire nel pomeriggio, prima che facesse buio. Fu Pedrin che costruì al giovane Sergio la sua prima sciurei e gli insegnò l’arte della fabbricazione di questi strumenti musicali a fiato, forse per tenerselo buono e impegnarlo in quel lavoro, in caso di qualche evenienza… .

Sergio nel 1950 militare di leva nei Radiotelegrafisti

Era divenuto grandicello Sergio e ora era lui, inviato dalla nonna, che doveva accudire la lalla Maria, sorvegliare da vicino i due fidanzatini, perché si diceva, che bisognava stare molto attenti e tener distanti fuoco e paglia… un incendio era sempre possibile…..

Chiedo a Sergio, se era mai stato corrotto, da quei due fidanzatini, mi risponde, che mai aveva lasciato da sola la Maria, con Pedrin, la nonna era stata tassativa e lui, anche se non era a conoscenza, del perché era lì a far da terzo incomodo, stette agli ordini ricevuti. Dico a Sergio se si rende conto, di quanto non fosse gradita la sua presenza e lui sorridendo, mi dice che a quell’età, non ne sapeva niente di come funzionava il mondo!

Sto bene con Sergio, siamo vecchi amici e basta un commento, un’allusione e si ride per un nonnulla.

Questo è stato il preludio per raccontare del suo lavoro, mentre mi parla sta rifinendo un mestolo da cucina, in acero, suo legno preferito per il suo grande passatempo l’intaglio dal pieno di mestoli cucchiai e qualche forchetta poi regalati a parenti, amici e conoscenti.

I lurbaschi, di ritorno dalla Francia, quelli che per primi erano andati a fare i taglialegna, tornavano a casa nei mesi estivi, per un periodo di riposo.

Con i loro racconti e la prospettiva, specie per i giovani, di buoni guadagni “fomentarono” una massiccia emigrazione dall’alta Val d’Orba, verso la Francia, solitamente nella regione della Borgogna, dove gran parte del territorio, era ricoperto da foreste di querce, rovere e faggi.

Sergio con na rue, rovere abbattuto

Così fu, anche per Sergio e suo cugino, insieme ai rispettivi padri, intrapresero il lungo viaggio in treno, Genova – Digione.

L’alloggio, lo si trovava nei paesini a ridosso del bosco, dove prima dell’alba, si partiva a piedi o in bicicletta per raggiungere il luogo del taglio.

Si lavorava in squadre, divise per tipologie di attività, i taglialegna e i segantini, quest’ultimi, erano quelli che squadravano i tronchi, ricavandone traversine per binari ferroviari, e sul permesso di lavoro erano distinti in: Bucheron e in Scier de Suvre.

Sergio, era adibito alla costruzione delle traversine.

Erano due gli addetti al taglio, da effettuare con una sega avente una lunga lama, con due impugnature alle sue estremità, uno doveva stare sopra al tronco, per tirare verso l’alto l’attrezzo e seguire la linea di taglio, il tronco era messo sopra un cavalletto, ad un’altezza sufficiente, perché l’altro, poteva così azionare la sega verso il basso.

Serviva un buon grado di affiatamento forza fisica, e una buona affilatura della lama, perche’ l’attrezzo, potesse eseguire un taglio preciso e rapido.

La produzione per ogni coppia era di circa 10 traverse al giorno.

Le dimensioni, in centimetri, delle traversine erano 260x30x20, con una tolleranza di 2 cm.

Il bosco, non presentava grandi dislivelli o zone impervie, in virtù di questo gli alberi solitamente, crescevano in modo regolare. L ‘aspetto simmetrico di un albero è garanzia di un buon abbattimento.

Il tronco era tagliato con la scure, anche questa operazione era effettuata da due addetti, che si alternavano per effettuare la “tappa” una profonda incisione, fatta in direzione della caduta dell’albero, poi con l’ausilio di cunei, si procedeva al taglio con la sega e poi a colpi di mazza sui cunei, si determinava la caduta dell’albero.

Con precisione millimetrica la pianta era fatta precipitare nella direzione voluta.

Sergio con na ciascia, acero abbattuto

A questo punto, erano i più giovani, come Sergio, che si arrampicavano sopra l’albero appena tagliato, per tagliare i rami, a volte questa operazione era effettuata quando l’albero rimasto impigliato, con i suoi rami era rimasto pericolosamente inclinato. Sergio racconta della pericolosità di questa operazione, con il rischio di cadute a seguito dello spostamento dell’albero, liberato dei rami che impedivano l’atterramento della pianta .

I tronchi “remunde’ ” dai suoi rami, erano trasportati da autisti francesi, alla guida dei giganteschi e inarrestabili camion GMC, veicoli militari americani, lasciati poi al termine del conflitto sul suolo francese.

Si faceva la pausa pranzo, riscaldando il portavivande, quando era possibile in bagno maria e consumando il pasto sul posto di lavoro, se la giornata era fredda si accendeva un fuoco, un momento conviviale, una pausa dalla fatica.

Si lavorava fino all’imbrunire, sabato compreso, per poi ritornare dopo un viaggio a volte di un paio d’ore al proprio alloggio.

Ma la giornata ancora non era finita, c’ era da fare la spesa, il bucato, preparar cena e le vivande per il giorno dopo.

La domenica era giorno di riposo, ma il mattino era dedicato al riassetto dell’alloggio e alle operazioni di affilatura degli attrezzi.

In gita a Parigi

Il pomeriggio era libero.

I giovani cercavano compagnia, in qualche ritrovo o locale da ballo.

Ascoltare questa storia con le parole di chi l’ha vissuta, fa pensare a un mondo lontano dove la fatica era la compagna di tutti i giorni.

Quanto lavoro ha dovuto fare la generazione dei nostri padri, vita grama, nel dopoguerra, tragica conseguenza, lasciata da un regime dittatoriale che ha insanguinato l’Europa, ristrettezze economiche, fatica, disagi, lontananza da casa, vanno annoverate come un’ulteriore colpa di chi in preda a visioni deliranti, portò l’Italia, un povero paese di contadini, in un conflitto mondiale.

L’Italia al termine della guerra era in ginocchio e in alcune zone, come nell’alta Val d’Orba, ridotta alla fame e con nessuna prospettiva per il futuro, dove chi voleva avere una vita dignitosa, farsi una famiglia o anche solo metter via del soldi, acquistare un’ auto e avendo solo due mani per lavorare, era costretto a lasciare la sua terra ed emigrare in un paese straniero, che spesso mal sopportava, a causa della guerra appena conclusa, la presenza degli italiani a torto o a ragione, anche di chi andava lì per lavorare.

Lucia Giorgio Sergio

Sergio rimase una decina d’anni, a tagliar alberi e a far traversine in Francia, e come tutti i lurbaschi, ritornava a casa nei mesi estivi, da giugno fino a settembre e poteva così dare una mano con il lavoro nei campi .

Alla domanda qual’è il ricordo più’ vivo oggi, di quel periodo della sua vita lavorativa, Sergio riflette un poco poi decide: era il freddo! Specie quando c’era vento, neve e ghiaccio, il freddo penetrava dappertutto, a malapena si riusciva a tenere aperti gli occhi e a poco servivano i fuochi accesi, dove ad ogni pausa, ci si riscaldava un po’. Nell’inverno del 1956, la temperatura si abbassò fino ad arrivare a meno 26°C!

Dalla Francia Sergio riceve ogni mese una piccola pensione per i contributi versati negli anni di lavoro nei boschi della Borgogna.

Sergio sposò Lucia e nel 1957 nacque Giorgio.

A poco a poco, in Italia, il tenore di vita migliorò, negli anni sessanta ci fu il boom economico, aumentarono le offerte di lavoro e serviva anche quella mano d’opera, emigrata in Francia.

All’inizio e al termine della giornata lavorativa Sergio doveva salire sul traliccio della gru per bloccare/sbloccare il sistema di rotazione del braccio.

C’era bisogno di nuove abitazioni a seguito dell’incremento demografico e della costante immigrazione dalle regioni del sud d’Italia, verso le città industriali di Genova, Milano, Torino.

Copertura del Teiro

Sergio lavorò per molti anni, con Impresa Edile Perata di Varazze, muratore e poi con la mansione di gruista. Faceva parte delle maestranze che costruirono la copertura sul fiume Teiro, di cui ricorda i disagi durante i lavori nell’alveo del fiume, il porticciolo di Varazze, la grande vasca dell’acquedotto all’Invrea, alcuni palazzi in centro città ecc.

Lucia sulla Lambretta

Prese la residenza a Varazze, Sciu da Teiru e nel Lurbasco a Vara Superiore ci ritornava nei fine settimana, durante la bella stagione, con la Lambretta, a volte erano in tre Sergio, Lucia e Giorgio. Poi con l’acquisto di un’auto fu più agevole affrontare il lungo tragitto da Varazze a Vara Superiore, 50 km e ben 180 curve!

La 600 di Sergio e Lucia.

La Seicento di Sergio fu la prima auto guidata da Giorgio……. ma questa è un’altra storia.

Villa Teresa e a Furnosce de Muin

Qualche tempo, fa ho notato, seminascosta dalla lelua in località Defissi, una targa in marmo, affissa su di un accesso, in disuso, nei pressi del pontino che attraversa il Teiro per andare in località Frati

Villa Teresa, c’è scritto sulla lastra di marmo, affissa su un antico portale, questo era l’ingresso di una grande tenuta agricola, che sovrastava la strada in direzione del Pero, il terreno con innumerevoli terrazzamenti, arriva in alto fino alle località di Murta’ e Fossello .

Portale di accesso a Villa Teresa

La strada di accesso, a questa zona, si trova in prossimità della curva dove svolta chi va al ristorante il Gombo, con questa nome è nota a tutti questa località, ma il suo vero toponimo è Sotto Fossello.

Imboccando questa strada, a sinistra c’è la zona residenziale, sono tutti ex opifici ristrutturati, ampliati, modificati che hanno perso le fattezze originali tipici delle cartiere, e i dei loro essiccatoi.

A destra due ampi parcheggi, uno per il ristorante e l’altro nei pressi di un edificio molto antico, che ho scoperto essere un ex fornace per mattoni è il parcheggio privato di Villa Teresa.

Le ex cartiere Piccardo e Ghigliotto adibite ad abitazione e il ristorante Il Gombo

Siamo Sciù da Teiro, al cospetto dell’ennesima trasformazione ambientale, effettuata da generazioni di nostri concittadini, che anche qui hanno modificato, plasmato questa parte della nostra città, estratto pietre per edificare le case di abitazione, ricoveri per animali e grandi opifici, creando da un’acclive pendio, un ammirevole sistema di terrazzamenti per le coltivazioni di ortaggi e frutta.

E poi il resto lo ha fatto l’acqua….. prima per uso irriguo, poi come fonte di energia motrice, prelevata incanalata, deviata dall’operosità e dall’ingegnosità di una comunità che nei secoli passati, ha saputo trarre, da ambienti ostili, difficili al limite della sopravvivenza umana, le risorse per il proprio sostentamento e per l’arricchimento dell’economia della nostra città.

Ristorante il Gombo

In questa zona erano presenti fino agli anni 50 del secolo scorso, diversi opifici, alimentati dal beo della ciusa du Ballin, che raccoglieva anche le acque di scarico della cartiera Riva, proseguiva seguendo il corso del fiume e poi spariva sotto alla strada per arrivare in sponda sinistra del Teiro nella località dei Defissi con un bel salto d’acqua, dove alimentava in primis, la cartiera Piccardo, l’acqua di scarico di questo opificio, forniva energia alla cartiera Ghigliotto e con un’altra diramazione, faceva ruotare la macina del frantoio per olive u Gumbu , già esistente a metà del 1700

Ai primi del 1900 il Gumbu, era di proprietà di Tortarolo Paolo poi Pregliasco Serafina, ved. Tortarolo e poi per successione ereditaria pervenne alla famiglia Castagneto Michele e quindi ai figli Bartolomeo, Clotilde, Pia e Teresa, dopo qualche anno il frantoio, fu dato in gestione a Berio Vincenzo, che a sua volta lo cedette a Valle i Pantellin, poi subentrarono i fratelli Damonte i Bacchetti e infine negli anni 50, fu ristrutturato e divenne poi in seguito, sede di un noto ristorante il Gombo. Il beo sottopassava,  la strada e andava ad alimentare la cartiera Eredi Piccardo e il lavatoio per sanse Berio ( cit. Lorenzo Arecco).

Località Defissi ex Cartiera Eredi Piccardo

Una diramazione del beo du Ballin, irrigava tramite l’utilizzo di una paratoia gli orti e i frutteti di Villa Teresa, costruita dalla famiglia Pregliasco, poi passata alla famiglia  Tortarolo e quindi per via ereditaria a Castagneto Teresa da cui ha preso il nome la villa.

Villa Teresa ristrutturata, con il suo bel giardino, è prospicente all’antichissimo edificio della fornace, questo edificio, ingentilito dalla crescita di un’edera e con vasi di fiori è arrivato fino ai giorni nostri,  come una rara testimonianza, di un’insolita unica attività presente Sciù da Teiro nei tempi passati, doveroso a questo punto ringraziare chi ha avuto cura di questo manufatto.

Se tornassimo indietro nel tempo, l’ampio piazzale dove si trova ora il parcheggio di Villa Teresa, ma anche alcuni terrazzamenti, sarebbero risultati ingombri di depositi di legna di argilla e di mattoni e una densa nube di fumo specie nelle giornate di maccaia, stazionerebbe in tutto questa parte del Sciu da Teiru.

Antica fornace di mattoni

Avremmo visto in questa località tanta altra gente indaffarata al lavoro presso le cartiere e il gombo e poi sopra le fasce, contadini curvi intenti a seconda delle stagioni alle più diverse coltivazioni e alla cura degli alberi da frutta .

Oggi di quel passato di operosità non resta più nulla in questa zona, solo il forno delle Sorelle Giusto e il ristorante Il Gombo.

Dirimpetto a villa Teresa, parallelo al corso del fiume. si è al cospetto di un bel terreno pianeggiante e terrazzato grazie all’opera infaticabile di generazioni, che si sono prodigate per trasformare le ripide pendici della località Sciandra in terreno terrazzato fertile e coltivabile.

Novembre 1968 la piena del Teiro ha divelto il ponte dei Frati

Questo ampio appezzamento oggi è del tutto incolto e occluso alla vista dalla crescita vegetale , tutte le zone nei pressi del Teiro un tempo erano intensamente coltivate e dove non arrivavano i canali dell’acqua, prelevata tramite i bei dal Teiro, rigorosamente regolamentati da orari di utilizzo, c’erano posizionate in alto, al disopra delle coltivazioni delle peschee, che raccoglievano le acque piovane delle sorgenti o alimentate da diramazione artificiali di qualche rio, in alternative c’erano sigogne o testa di cavallo, bilancieri che prelevavano l’acqua dai canali.

Anche questa località, Sotto Fossello, aveva la sua grande vasca per uso irriquo, oggi inservibile perché completamente invasa dalla vegetazione.

A seguito dell’inaridimento della sua sorgente, il riempimento della peschea, fu potenziato da una tubazione di adduzione dell’acqua del Teiro, tramite l’azionamento di una pompa con motore termico, posizionata, nei pressi del ponte dei Frati,

Na Scigogna

Nel 2019 le soprastante località del Fossello e di Sciandra sono state interessate da un grande smottamento di terreno ai lati del rio alcune case furono sgombrate perchè dichiarate non agibili e le famiglie sono state ospitate presso delle strutture alberghiere di Varazze, nel 2020 sono stati effettuati interventi di consolidamento tramite palificazioni della strada del Fossello e dei muri di sostegno.

Vista della località Frati in alto la casa non più esistente dau Ciasu

Nella località detta du Ciasu esisteva un grande edificio in pietra utilizzato in passato dai manenti del terreno. Nei pressi di questa abitazione c’era un sentiero che saliva fino alla soprastante toponimo di Murtà dove si saliva per arrivare a Casanova o a S.Pietro e dove i bambini si inerpicavano per andare a scuola.

Nota dell’autore

Gli articoli sono di libera fruizione e possono essere utilizzati in copia, previa comunicazione e citando la fonte, in alcun modo ne deve essere modificato il test0

Na Otta Tutti Davan na Man


Da sinistra: u S. Martin ( Giacomo Masio) u Giuranin (Giovanni Cerruti) Giacomino ( Giacomo Bruzzone) u Dria (Andrea Bruzzone) Mario u Grillo ( Mario Delfino) Richetto (Enrico Parodi) Giuanin (Giovanni Casarimo)

Questa foto degli anni 50, scattata nella parte finale di via Montegrappa, oggi via Scavino, immortala i lavori di ampliamento della strada eseguiti dai residenti in quella zona del Sciu da Teiru.

Via Montegrappa era carrabile fino dau Campusantu Vegiu, per garantire l’accesso durante la seconda guerra mondiale, ad una batteria contraerea mimetizzata nel bosco, poi era solo un sentiero che proseguiva in mezzo agli orti e ai terrazzamenti.

Il sentiero fu trasformato, negli anni 50, in una via carrabile, da chi era residente in questa zona, aveva costruito una casa di proprietà o abitava in ta ca di vegi.

C’era da superare un rian e fu così realizzata anche la condotta del rio Bagetti, che sottopassa via Scavino, la condotta ancora perfettamente integra, fu realizzata dalle stesse persone ritratte nella foto, sotto la guida du Dria il papà di Giacomino.

U rian Di Bagetti

Grande merito a quelle persone, capaci di rimboccarsi le maniche e di aiutarsi reciprocamente..

Na otta tutti davan na man, specie se il lavoro era impegnativo e di fatica, come nella foto, fra vicini parenti, amici e conoscenti.

Ricordo cun. u Gino, mio papà, si faceva u surcu in tu giu da Milina, pe mandò l’equa in Teiru, con i miei zii Angelo e Mario, Mario u Grillo, Giacomino, Giuanin, Stefano Raimondo, Steva u Suia e u Geru, si chiudevano i garbi, che si erano formati nella strada sterrata e si eliminavano le pozzanghere cun u zettu.

I Scarabocci de S.Duno’

La collina di S.Donato, oggi è un’oasi di pace e tranquillità, che io ritrovo sempre, quando arrivo al cospetto di questo luogo di culto, immerso fra i lecci, che avvolgono, quasi nascondono la chiesa, ma che attutiscono il rumore di fondo delle attività umane.

Tutte le vicissitudini storiche, forse non sufficientemente indagate, che si sono perpetrate, su questo colle per secoli, hanno lasciato una sorta di sedime, su di cui regna finalmente una pace, rispettosa di tante vicende umane vissute, su questo piccolo cocuzzolo, spianato dagli insediamenti dei primi esseri umani, arrivati da chissà dove, e che per primi hanno qui fondato un punto nevralgico di osservazione e di comunicazione.

 Da qui sono transitati, in direzione dei primo nucleo urbano della nostra città, viandanti, soldataglie, commercianti, ma vi erano anche appestati, storpi a reclamar un pezzo di pane, ai primi cristiani che si insediarono su questo colle, costruendo la prima pieve cristiana della città, demolendo un antico luogo di culto pagano e chissà che altro ancora di quelle vestigia A.C.

La storia, nel suo incessante lavorio, muta i luoghi frequentati dagli umani, la costruzione di una nuova viabilità, di un nuovo nucleo urbano e di un’altra chiesa, sulla collina di Tasca a Varagine, fu causa della decadenza di questo sito.

A Fabrica vista da S.Dunò

Il colle perse la sua supremazia e sarà muto testimone, delle modifiche a seguito delle attività umane, operate nel Sciù da Teiru, specie in prossimità dell’alveo del fiume, dove a partire dalla fine dell’800, si insediò la zona industriale della città, suggellata dalla costruzione del Cotonificio Ligure, che diede impulso per altre attività, il cosiddetto indotto.

Il gigantesco insediamento tessile, ben visibile da S.Dunò, per un secolo fornì lavoro a molte famiglie della città, ma anche dei paesi limitrofi.

Le donne, diventarono parte attiva e importante di questo nuovo insediamento industrale..

Operaie della Fabrica

Dal 1900 al 1920, il personale femminile del Cotonificio Ligure di Varazze superava le 500 unità, di cui circa 300 erano di Varazze e frazioni. Delle restanti 200 circa la metà provenivano dai comuni limitrofi, le altre anche da Alessandria, Voghera, Cuneo ecc. per queste donne lavoratrici che provenivano da fuori regione, la proprietà aveva trovato degli alloggi in località Muinetti, dalle suore della Provvidenza e poi nel Palassu da Fabrica edificato appositamente per le maestranze del Cotonificio, nel 1925.

Non esistevano mezzi di trasporto pubblico e alle 10/12 ore di lavoro in fabbrica bisognava aggiungerne altre di cammino per chi da, Sciarborasca Cogoleto Arenzano o Celle, in qualsiasi condizioni climatiche su sentieri e strade impervi dell’entroterra doveva arrivare al Cotonificio.

L’organico femminile era composto perlopiù da ragazze, ed erano poche quelle che avevano più di 21 anni. Il 20% del personale femminile erano bambine di 12/13 anni.

Oggi si stringe il cuore, a pensare a queste ragazzine chiuse per 10/12 ore in un’ambiente insalubre di polveri e agenti chimici, soggette al freddo invernale e al caldo torrido.

Alle più piccoline, basse di statura era messo uno sgabello sotto ai piedi, per arrivare ai telai

Giovanissimi dipendenti del Cotonificio Ligure del 1910 è tratta dal bel libro di Lorenzo Arecco “Cotonificio Ligure”

La durata media del rapporto di lavoro di queste lavoratrici, era di circa 4 anni, il tempo necessario per accumulare i soldi del corredo da sposa.

 Il licenziamento in tronco colpiva specialmente le maestranze femminili, le donne erano le prime ad essere lasciate a casa, se doveva essere ridotta la forza lavoro, oppure per malattia anche a causa delle dure condizioni di lavoro, se una donna era cagionevole di salute “non rendeva” allora era licenziata.

Una grande percentuale di lavoratrici, lasciava il lavoro a causa di motivi di famiglia per accudire dei famigliari indigenti o a seguito di matrimonio, quando dovevano quasi da subito allevò na nio de figgi.

Oggi di quel periodo storico industriale, sono rimasti i racconti dei nonni, famigliari o conoscenti che hanno vissuto in quegli anni, ma del passato quello più remoto, esiste solo la bella pubblicazione di Lorenzo Arecco “Cotonificio Ligure” ricco di dati e cenni storici.

Quello fu un periodo fecondo, per l’economia della nostra città, ma non solo, anche dal punto di vista demografico, a seguito degli esodi di queste maestranze, si formarono nuove famiglie.

Del Cotonificio Ligure, non esiste più alcuna traccia, ma esiste un luogo del cuore, dove sono custodite le testimonianze di quel pezzo di storia che ha vissuto la nostra comunità.

Nei primi anni del 900, dopo l’apertura del varco, che facilitava il collegamento del Sciu da Teiru con la città di Varazze, il Colle di S.Donato continuava ad essere unito alla via Bianca, con la costruzione di un ponte in legno che sovrastava la viabilità da e verso il Parasio.

Sul Puntin transitavano le maestranze provenienti dal nostro entroterra, che dovevano raggiungere il Cotonificio Ligure.

Ma perché allungavano ulteriormente il già lungo tragitto che dovevano fare ogni giorno?

Era più semplice e meno dispendioso, proseguire la via Bianca, scendere ai Muinetti e poi attraversare il Teiro, sopra il ponte fatto costruire proprio davanti all’ingresso dello stabilimento.

Perchè si faceva questa deviazione?

Forse per una preghiera o un segno della croce davanti alla chiesa?

A Lomellina a Fabrica e San Dunò e u Teiru

Il colle di S.Donato era un punto di ritrovo, per le funzioni religiose i sacramenti e le feste dei Santi, le famiglie del circondario si ritrovavano qui nella piazzetta della chiesa, per un momento conviviale, sul sagrato, in tu Praettu dietro alla chiesa o nelle fasce sottostanti, si consumavano frugali pasti, portati fin li da casa, che poi con il passare degli anni diventarono anche pranzi di matrimonio all’aria aperta.

Il doppio accesso al colle, tramite due opposte scalinate, la bella piazzetta, e un certo non so che, di misterioso, dovuto ai visibili segni di antiche frequentazioni suggestionava chi arriva al cospetto di questo luogo di culto.

 Certo il fattore religioso, era molto importante a quei tempi, ma quando si è giovani sono gli ormoni che decidono per noi.

Il colle di S.Donato, era luogo di aggregazione giovanile, all’inizio o al termine della giornata di lavoro in Fabrica, si aspettava qui, su questa altura, l’amico/a collega di lavoro diventato qualcosa di più, per una promessa d’amore, suggelata con un’incisione, sopra l’intonaco della chiesa e magari resa più intima, appartandosi fra le frasche del colle.

Alcune scritte sono state fatte, issando in qualche modo l’incisore ad un’altezza ragguardevole. Altre scritte più semplicemente sono state fatte da ragazzi o bambini, probabilmente già operai da Fabrica, ognuno aveva la sua chance l’occasione di lasciare la sua firma ai posteri, tanto….. “così fan tutti”.

I scarabocci de S.Dunò, sono un “Luogo del Cuore”, un pezzo di storia della nostra comunità, che si spera, non venga dimenticato o peggio cancellato, da qualche, già prevista, riqualificazione edilizia! Sarebbe un’altra dimostrazione di mancato rispetto, del nostro passato e del disprezzo, verso chi ha vissuto su questo colle, un pezzo della sua vita a rincorre un pò di felicita di una vita grama, fatta di tanto lavoro, fatica e malattie. Giovanni Martini.

Al cospetto di questi muri, così fittamente incisi, bisogna rinunciare al solito banale detto, oggi opinione di molti, che siano solo scarabocchi in spregio ad un luogo di culto!

Abbandoniamo per un attimo questi stereotipi, pensiamo a quegli anni, ai tanti giovani, soprattutto tante ragazze adolescenti ma anche di 10/12 anni, che non hanno mai vissuto la loro età.

Ragazze e donne che qui transitavano e arrivate a questa altura, avevano la vista severa, di quell’immenso stabilimento, laggiù dove il Teiro, fa ancora una curva, l’ultima prima del mare, in quei capannoni dove dovevano star rinchiuse per 10/12 ore, moltiplicate per una settimana lavorativa di sei giorni, frastornate dal rumore di 800 telai, tra calore, fatica, sudore e molti pericoli.

Nei muri della chiesa di S.Donato, sono incisi molti nomi, molte sono promesse d’amore, nomi racchiusi in un cuore con tanto di freccia che lo trafigge, chissà chi sono Gianni e Milena, Maurizia, Emma, Maria Teresa, Giuseppe e centinaia di altri nomi e quelle due E racchiuse da un cuore eseguito con grande cura e poi trafitto con una freccia, quali erano quei due nomi, racchiusi in quel simbolo d’amore?

 Ancora altri cuori, cerchi triangoli e le casette simboli di una promessa di matrimonio e di una vita a due, tante scritte sovrapposte stratificate dal tempo, alcune cancellate, forse volutamente per una promessa non mantenuta, altre da decifrare e che cosa è successo il 10-4-1924?

Questo è un Luogo del Cuore della nostra città!

A mio parere può essere interessante recarsi sul luogo, per alcune foto, da poter essere poi ingrandite in un secondo momento, come ho fatto io, scoprendo particolari non visibili ad occhio nudo.

Come non percepire al cospetto di queste incisioni la presenza di una grande umanità, una moltitudine di persone adulte e bambini, prima di noi in questo angolo di mondo, è ancora qui presente su questo Colle con il suo nome inciso.

Sarebbe una cosa bella, per la storia della nostra comunità, fare una mappatura di queste incisioni, si potrebbero scoprire curiosità, annedoti e magari qualcheduno, potrebbe riconoscere il nome inciso di qualche parente nonno o bisnonno e avere qualche storia da raccontare.

Le più antiche datazioni, incise sembrano essere degli anni 20 dello scorso secolo.

Lapide del sacerdote Pietro Craviotto Augustini

Come non notare, a questo punto altre incisioni, belle, autorevoli e su marmo, sono quelle che danno risalto ad un illustre sacerdote e l’altra quella grande e ben manutenuta, che commemora il battesimo del nostro più illustre, fino ad oggi, nativo di questo territorio, il Beato Jacopo, che proprio in questa pieve, in antichità facente parte del mandamento di Casanova, ricevette il sacramento battesimale, reso eterno ai posteri, dalle parole incise nella bella lapide di marmo bianco.

Targa in marmo battesimo Beato Jacopo da Varagine

Giacomo De Fazio, il Beato Jacopo narrò nella Legenda Aurea la vita dei santi.

Mi chiedo, al cospetto di tutte quelle incisioni, nomi di persone, date e simboli incisi nell’intonaco di questo luogo di culto, perchè non è mai stata scritta la storia della vita, di almeno uno di loro, poveri cristi, che della loro esistenza terrena, non ci resta altro che un nome inciso nella calce?

Sarà stata un’esistenza, terrena, reale, senza gloria, ma esemplare onesta e da elogiare, come quella dei Santi, fatta di tanto lavoro, di stenti e di sacrifici pe tiò sciù na niò de figgi, figli a cui trasmettere un pò meno sofferenza fatica e fame da loro patita.

Ma c’erano anche momenti di gioia, quella semplice quotidiana della gente “di tutti i giorni” dopo una giornata di lavoro, di solidarietà, di voglia di vita, giornate spensierate, trascorse su questo colle, suggellate da una data e da un nome inciso a perenne memoria, sul muro di questa chiesa .

Biasimo ancora, a distanza di tempo chi, alla mia domanda, come mai non sono mai state scritte quelle storie? Mi rispose che quelle furono vite insignificanti, non degne di essere descritte!

Le foto in B/N sono dell’Archivio Fotografico Varagine, la foto dei Giovanissimi dipendenti del Cotonificio Ligure del 1910 è tratta dal bel libro di Lorenzo Arecco “Cotonificio Ligure”

A Ca Russa de Tascee

Quando c’è un’allerta meteo e arrivano come in questo periodo dell’anno, violenti nubifragi, qualcosa del nostro entroterra, frana, sprofonda o sparisce e con esso, se ne va’ un altro pezzo della nostra storia, quella recente o antica di mille anni, sparisce per sempre alla vista e poi dalla memoria, di una comunità, che dedica ben poco tempo e risorse per preservare il suo passato e il suo entroterra.

Con questo pensiero, sono andato dalla Ca Russa de Tascee, prima che salga l’acqua del fiume, prima che sparisca qualche altra cosa della storia di Varazze.

Arrivati in località S.Anna, si attraversa il ponte de Tascee, si lascia l’auto bici o moto e si scende, solo se si è escursionisti esperti, sul greto del fiume.

Edicola votiva presso il ponte de Tascee

Ho scattato molte foto prima di arrivare alla casa rossa, foto del Teiro e dei suoi laghetti, con un’ acqua limpida, che ti viene voglia di farci un bagno e poi di sdraiarti sopra una ciappa o sopra la rena, che il fiume accumula nelle zone di stanca, a fo asciugò e osse,

Lago de Preustin

Ma quello che mi attrae e stupisce sempre, ogni volta, sono i manufatti di pietra su pietra. Come quella casa rossa, dirimpettaia alla cartiera da Riva, miracolosamente ma stabilmente infissa su di una roccia, dalla sapienza umana, di chi avrà scrutato, magari per anni, una piena, dopo l’altra del fiume e deciso che quella casa l’avrebbe costruita proprio lì, attaccata ad quella roccia del Teiro, convinto che mai e poi mai, la furia delle acque l’avrebbero trascinata via!

Avrà utilizzato le pietre, di quella vecchia cava li’ vicino e poi tanto sudore e tanta fatica, ogni pietra la mano dell’uomo a incastrarla, spezzarla, adattarla e poi a fargli la camicia di calce, finire poi, con la tinteggiatura di un bel rosso scuro con le rifiniture bianche .

A Ca Russa

Forse una sfida verso la natura o verso chi, avrà osteggiato e dileggiato una simile bizzarria, chi sarà mai stato quel pazzo costruttore? Ma lei oggi è ancora lì, eretta, anche se oramai rudere, a ricordare chi l’aveva edificata, molti, troppi anni fa, in un altro mondo quello di una società la cui economia era basata quasi esclusivamente sulle risorse del territorio e con le attività lungo l’asta del Teiro.

Serviva terra da strappare alla collina de “Tascee” e una casa “rubava” troppo terreno alle coltivazioni. E allora ecco spiegato il perché, di tante edificazioni in posti scoscesi, impervi o poco soleggiati, anche perchè, in casa si stava ben poco, si partiva presto e si rientrava tardi la sera per un boccone e “pe daghe na schenò da seia a matin”.

Qui ci sono, in grandi quantità quella che reputo la mia “passione”, i muri in pietra di fiume e di cava, in questa zona sono possenti e vista la loro tipologia molto antichi.

Mi è solito pensare, chi erano le persone che li hanno costruiti che sono riusciti a posare in opera veri e propri macigni, ma di loro si è persa la memoria , nessuno sa chi erano e come sono state le loro vite.

Persa per sempre la memoria antica, stiamo perdendo anche quella più recente. Come il luogo dell’eccidio di Emilio Vecchia, si sa che lo avevano trucidato sul greto del fiume in questa località “de Tascee” e che quelli della S.Marco, avevano lasciato per un giorno intero, il suo corpo legato ad un albero a vista e a monito di chi passava sulla strada soprastante in direzione del Pero.

Mi raccontò il “Furmine” in una delle nostre chiaccherate sul Ponte Nuovo, di quella mattina del 24 novembre del 1944, mentre, insieme alla sorella transitava a piedi in direzione di Pero e S.Martino, udì delle voci alterate, provenire dal greto del Teiro e sporgendosi dal muretto della strada, vide dei militari che stavano legando una persona ad un’albero, per paura di esser visti, il Furmine e sua sorella si allontanarono, ma sentirono distintamente, i colpi di un’arma da fuoco, erano quelli che stroncarono la vita del giovane partigiano.

Una persona, uno che ha vissuto quel tragico periodo, Alessandro Risso “Penolle” parlando della guerra mondiale e dell’uccisione di Emilio Vecchia mi disse che fu fucilato davanti alla casa rossa, legato con un cavo da telefono, ad una verna, un’albero di ontano, cresciuto sul greto del fiume davanti alla Ca Russa. Questa versione dei fatti mi è stata confermata anche dalla signora Adriana Pisano, che abita alle Tascee nelle vicinanze della Ca Russa.

Su quell’albero, a guerra finita, fu affissa una targa commemorativa, persa e non più ritrovata, quando la pianta fu sradicata e portata via dall’eccezionale piena del fiume nel 1968

Eccomi nuovamente qua una seconda volta a far qualche foto a questo rudere, costruito solidamente sopra una roccia del fiume, quanta storia è passata sotto a queste finestre! Quante cose avrà sopportato questa casa, non solo i rombi di guerra, ma anche tutte le piene disastrose del Teiro. Ma chi l’ha costruita sapeva il fatto suo e questa casa è ancora ben aggrappata alla sua roccia!

Su questa pietra si basa il muro maestro della Ca Russa

Ora regna l’incuria e il degrado naturale, di un manufatto, destinato alla rovina, presto la vegetazione la fagociterà del tutto. Ma a Ca Russa de Tascee deve essere un luogo della memoria, per noi e per le future generazioni!

Nelle foto il probabile itinerario con le ultime cose che avrà visto, se era cosciente, quel giovane di vent’anni, prima di essere trucidato, dalla barbaria nazifascista: A “Cappella de S.Anna” e “Tascee” il lago di “Preustin” a diga e u “beo” e quella Ca Russa.

I suoi aguzzini lo stavano trascinando, lungo questa “fascia” verso il luogo prescelto per la sua fucilazione, sfinito dalle torture a lui inflitte nel luogo di prigionia che era al Pero in località Ca-Dana.

Legato mani e piedi all’albero dopo la fucilazione, fu lasciato lì, perché il suo cadavere fosse visto e essere da monito a chi transitava lungo la strada soprastante o erano arrivati a S.Anna, dopo che si era sparsa la voce dell’uccisione di Emilio Vecchia molto conosciuto in città.

Fu un’inutile barbaria uccidere un ragazzo di vent’anni, ormai la guerra era persa, ma un regime comandato da un pazzo criminale, continuava a uccidere chi combatteva per la Libertà dal fascismo e mandava a morire in nome della patria, tanti giovani mai più ritornati dalle loro famiglie.

L Italia aveva un’esercito dove erano arruolati a forza perlopiù contadini e boscaioli, perchè di buon comando e già avvezzi ad una vita tribolata.

Emilio Vecchia fu legato ad un ‘albero, che è poi cresciuto alto massiccio imponente, come è stata la guerra di liberazione!

Solo un’eccezionale piena quella del Teiro nel 1968 è riuscita a sradicarlo ma era già un’albero vecchio e malandato, altri alberi in questo punto dell’alveo del Teiro sono cresciuti e resistono da tanti anni alla furia dell’acqua, altri invece languiscono soffocati dall’edera, nessuna mano ha tagliato eliminato dal tronco di tanti alberi, quest’arbusto inutile infestante mortale, come lo è stato il regime fascista, che ha avvinto in un’abbraccio di odio e di ideologia di morte il nostro paese e pensare, che come per l’edera, anche per l’ideologia fascista basta poco, solo reciderla sul nascere.

Il 25 Apile di quest’anno, l’Anpi sez. di Varazze ha voluto commemorare il sacrificio di Emilio Vecchia, portando dei fiori, presso la Ca Russa de Tascee

A Ciusa da Fabrica

A Ciusa da Fabrica

A Ciusa da Fabrica da figgio` era un luogo di passatempi infiniti, fra di noi la chiamavano A Cascota, quando il Teiro asciugava del tutto, nella pozza, scavata dal salto d’acqua e visibile tutt’ora, restavano intrappolati migliaia di pesci ma erano pochi quelli grandi, il fiume era molto inquinato e a stento riuscivano a diventare adulti, e comunque impossibile vederli, restavano nascosti nelle loro tane sotto la massa di cemento e pietre.

A Cascota

A Ciusa è coeva con l’edificazione della Fabrica nel 1882/84, il Cotonificio Ligure di Figari & Bixio, fu insediato grazie ad un sostanzioso aiuto finanziario comunale, nella località Lomellina e Bacino.

L’intento degli amministratori della nostra città, era quello di creare nuovi posti di lavoro, dopo la grave crisi in cui versavano i nostri cantieri navali, una conseguenza, a seguito dell’avvento dell’acciaio per la costruzione degli scafi, l’evoluzione industriale determinò in pochi anni una diminuzione corposa delle commesse, questa fu la causa della perdita di molti posti di lavoro, subentrò una grave carestia, in tutto il comprensorio varazzino, mancavano i soldi anche per comprare il pane.

A partire dal 1884 per quasi un secolo, il Cotonificio Ligure dette lavoro a uomini e donne di Varazze anche dei comuni limitrofi.

Antecedente alla Ciusa da Fabrica, nella stessa zona c’era, di dimensioni ridotte, una presa d’acqua, che tramite un beo, canale, alimentava una macina per grano posta nell’odierna zona delle case Fanfani. Dell’esistenza di questo opificio, me ne aveva parlato u Furmine, compianto amico mio, in una delle nostre chiacchierate sul Ponte Nuovo.

E Parme du Furmine

Lui e altre persone mi avevano anche parlato della presenza di grandi anelli infissi in una roccia, sulla verticale della casa dei Pelosi, ho chiesto a Roberto Pelosi e anche lui ricorda da bambino quei cerchi di ferro fissati nella pietra.

Erano i residui della presenza di approdi in epoca romana, ai piedi del Colle di S.Donato.

E` cosa risaputa che un tempo la Liguria era terra di fiordi e il mare rientrava di almeno un chilometro nell’entroterra, in questa zona le onde del mare si frangevano contro le rocce dei Busci nel Parasio.

A Ciusa da Fabrica

E` probabile che tutta la zona del Cimitero Vecchio in sponda destra nei pressi del Muin a Vapure, fosse un’immenso invaso marino e guarda caso la zona dove è la Ciusa era chiamata U Basin, il Bacino!

Almeno una volta l’anno vado dalla Cascota, un tempo il Teiro asciuga appena dopo l’inizio della bella stagione a giugno luglio era già tutto completamente asciutto, solo in alcuni laghetti, quello della Besestra, dau Giu, da Cascota e da Pelosi, restava un pò d’acqua ma impietosamente tutto si prosciugava e i pochi pesci rimasti senz’acqua asfissiavano saltellando nel fango.

Lagu da Pelosi

Alessandro e Veronica qualche anno dopo, con alcuni loro amichetti si prodigarono per prendere e mettere in un secchio quei pesci moribondi per poi rimetterli in acqua, alle prime piogge autunnali, a volte li portavano nelle pozze d’acqua quelle che non asciugavano mai, come u Lagu Scuu in Bosin, un grande invaso scavato dall’acqua nella roccia.

Quest’anno il Teiro è asciugato a fine agosto, nella pozza della Cascata sono rimasti intrappolati migliaia di pesci di tutte le taglie grandi e nascoste alla vista c è anche qualche trota e le immancabili anguille. Solitamente serve circa una settimana prima che questa pozza si prosciughi, speriamo che piova prima!

Il lago dei Pelosi per ora non è in crisi idrica, poiché si avvale dell’ex vena d’acqua del Pisciuellin deviata dopo il traforo della galleria autostradale.

Guida per paratia mobile

Faccio alcune foto ai resti di quella che era un’importante presa d’acqua, una catena lungo il beo, resiste al passare del tempo, ad essa era fissata una paratia mobile di cui restano a viste le guide, il canale poco oltre era è coperto da lastre di pietre e cemento, per non essere occluso da terra e pietre che possono precipitare dalla soprastante sede viaria.

A metà 800 questa era la strada dei morti… che arrivava al Simiteu Vegiu, a cui si accedeva con una breve discesa, oltrepassando due colonne e un cancello. Poco sopra c’era U Pisciuellin, una sorgente con relativa grande peschea, vasca per i servizi cimiteriali e per irrigare gli orti.

Il Camposanto subì un esondazione del Teiro con danneggiamenti alle sepolture e fu poi trasferito dal Tanon

U Muin a Vapure

Quanti ricordi! A Cascota U Muin a Vapure a Grangia u beo, la pietra ippopotamo che è ancora là ma nessun bambino le salterà più sulla groppa, un peccato che nessuno ragazzo scenda più nell’alveo del Teiro, fonte di infiniti passatempi.

L’ippopotamu

Oggi si ha paura di tutto dai ragni alle bisce e poi tutti questi bambini sempre alle prese con mille impegni, non va bene, serve anche il giovanile annoiarsi, per poter inventare un gioco o un passatempo magari in un bosco o lungo un fiume.

Mancano quei giochi fatti con la fantasia di un bambino, uno dei doni più belli , un peccato perderli.

A Foa du Lunò

U Luno`,Pian della Luna, è una morena, residuo di antiche glaciazioni, situata alle pendici del monte Cavalli.

Monte Cavalli

Toponimo comune ad altre zone dell’appenino ligure, deve il suo nome al chiarore delle pietre riflesse, durante le notti di luna piena, vista da distante, sembra una striscia luminescente, che emerge dal buio dei boschi.

I taglialegna sono a conoscenza di una fiaba, nata chissà quando in quelle foreste del Beigua, narrata dagli anziani a nipoti e bambini davanti ad una stufa, nei lunghi e freddi inverni del nostro entroterra tramandata e arrivata fino ai giorni nostri.

Diventata poi una storia, raccontata con l’aggiunta di personaggi e particolari davanti a un gotto de vin e un toccu de pan, in quell’ostaia Sciu da Teiru in Bosin, dove si fermavano i caretè, quelli che scendevano dalla via del legno, con le lese stracariche di legno, fino ad arrivare sull’arenile della nostra città, dove una cittadinanza laboriosa di buon comando, sempre china sul lavoro, allestiva vere e proprie flotte navali per battaglie o per commerci.

 E’ stato grazie ad un taglialegna dei nostri giorni,che sono venuto a conoscenza di questa bella fiaba che riguarda il Luno`, racconti leggende, fiabe, di cui se ne perderà il ricordo.

Una autoctona lampada di Aladino, dove però i desideri espressi, non erano sogni di bellezza o di denaro, ma quelli destinati a risolvere i problemi reali, la fatica quotidiana, di chi era alle prese con un territorio, quello della nostra Liguria, dove la gente viveva aggrappata ad un lembo di terra, arido, acclive e roccioso.

La fiaba è ambientata, in quel periodo storico il XVII secolo, quando la nostra città aveva il primato delle costruzioni navali e i boschi del Beigua fornivano la materia prima.

Lungo le pendici dei nostri monti, nel XVII, erano rimasti ben pochi boschi da taglio, quasi tutto il legname era già stato utilizzato per le costruzioni navali o per ardere e sui bricchi più bassi, era stata introdotta a questo scopo, una specie vegetale a più rapido sviluppo, il pino marittimo.

Era necessario salire alla sommità del Beigua, oppure avventurarsi nel Lurbasco o nella foreste del Sasselese, per trovare buona legna per gli scafi. Gli alberi erano visionati dal committente che sceglieva la legna “in piedi” e stipulava un contratto scritto, comprensivo dei tempi di consegna, prezzo di acquisto e penali.

A Foa du Luno`di Francesco Bagetti

” Buscaiò du belin! Go bisognu de quellu legnu! U meise de masu u l’è quesci finiu, ma ancun nu se vistu un baccu in riva au mo`e tutta a me legna a l’è ancun in pe!”

A Peioa

Così si espresse il Capuciantè, il Capo Cantiere, arrivato a sorpresa, in quella zona del Beigua chiamata Peioa, lamentandosi vistosamente con il tagliaboschi, dopo aver constatato, il mancato taglio di quegli alberi, che portavano incisa sulla corteccia il marchio del suo cantiere a cui erano destinati.

Il tagliaboschi non fece una piega, anzi estrasse da una tasca un pezzo di carta e lo sventolò davanti al committente, era il contratto fra di loro stipulato, che prevedeva la consegna di tutti quegli erbi “sensa ramme e scurtese`entro la fine di maggio.

” Mia che ghe l’ho anche mi quellu toccu de pape` e u ghe  scritu, che se ti sgarri, me piggiu tuttu quellu legnu de badda!”

” Vanni a ca to` e fra due giurni, u to legnu u saia` in riva au mo”

” Ma ti me piggi in giù? “

Rispose sempre più adirato il committente.

Ma il tagliaboschi ripete` la sua promessa.

Sentiero Megalitico

Il Capo Cantiere se ne andò scuotendo la testa, salì lungo il sentiero del Monte Cavalli, seguì la cresta fino ad arrivare sul bric Montebè, in vista delle praterie del  Priafaia, deviò a sinistra per il Canain, ma non attraversò quello strano sentiero, dove c’erano quelle misteriose rocce megalitiche, con il sole al tramonto, assumevano l’aspetto di esseri umani, tramutati in pietre e facevano paura, colpa anche di tutte quelle leggende che raccontavano in Bosin o in Berlanda.

Passando da e Muiazze, raggiunse le quattro case delle Faje, dove un mulo attaccato ad un carro lo aspettava per il ritorno in città, dalla Muntà da Cappelletta, versu e Mugine, Campumarsu, Berlanda, Cian Merlin, Canaeta, Quinnu, Bacchettu, Bosin Pasciu e Vase.

A Muntà da Cappelletta

Quella notte, dormì profondamente, per nulla preoccupato della mancata consegna di quel legname, anzi quasi contento, perché pensava già alle rimostranze da portare al Minor Consiglio della città, dove avrebbero sicuramente condannato il boscaiolo a risarcire il committente in virtù di quel pezzo di carta.

Passarono due giorni, alle prime luci dell’alba, il Capo Cantiere, si avviò, come era solito fare, sulla strada del lungomare, lo faceva per sbirciare gli allestimenti navali dei suoi concorrenti, ma arrivato nei pressi del suo Cantiere, si bloccò non poteva credere ai propri occhi!

 Quegli alberi, da lui scelti in quella lontana foresta del Beigua, e visti ancora in piedi nel bosco, solo due giorni prima, erano lì nel suo cantiere tutti ben accatastati e in bella vista del mare!

Il legno fu subito messo in lavorazione e ridotto in tavolame. Ma quella somma pattuita per la consegna del legname, scritta su quel pezzo di carta, dopo un mese non era stata ancora pagata dal Capuciantè al Buscaiò.

Il taglialegna aveva diverse bocche da sfamare e solo un figlio in età da lavoro, decise così di sollecitare quel pagamento.

E per recuperare quel credito, un giorno di fine giugno, inviò il suo primogenito in città, non prima di fornirgli alcune raccomandazioni.

” Figgiu me cau, vanni da quellu baccan de Capuciantè e dighe che in su cuntrattu nu ghe sulu quandu ma  anche quantu…dighe sulu ste parole. Aspeta te voggio dà na cosa, porta sta scatua de legnu cun ti, e se u te da e palanche va ben, ma se maniman u fo u stundoiu e nu vò tiò foa i scui, alua ti devi arvì sta scatua, quandu vegne notte, viscin a na pilla delle toe. Dorestu nu ti devi mai arvi`sta scatua! Te capiu?”

” Si babbo mio adorato vado giù a Vase dal baccan e se lui non mi da le palanche allora apro il cop..”

“Va ben va ben ho capiu che te capiu, me raccumandu portime sempre sta scatua, se maniman succedde quarcosa, ti devi vegni a ca cun a scatua! Stanni attentu ai ciappa ciappa, quandu ti passi dau Suà, scappa se te voan piggiò e palanche!  Te capiu?”

” Si babbo mio adorato la scatola la devo sempre portare meco..”

” Va ben va ben aua basta vanni a dormi` Mi devu andò in tu boscu, digghe a to muè che me fermu a durmì in ta Peioa”

” Posso restare con te babbo mio adorato?”

” Nu vanni a durmi a cà!”

“Belin da quandu u va dai previ all’Arpiscella, stu figgiò u se abburtumeliu!” pensò a voce alta il tagliaboschi

Il mattino seguente, al canto del gallo, il giovanetto dalla Ceresa dove abitava insieme alla sua famiglia, scese verso Vase, dalla Colletta e raggiunse quelle quattro case delle Faje, seguendo il beo del rio Gambin, passò sotto au Muagiun, per poi risalire e seguire quella gigantesca opera idraulica, fino al bivio di Leicanà per poi imboccare a Via Gianca

Dopo quella vertiginosa discesa fra sentieri Surchi per l’acqua e Mulaioe, eccolo arrivare Sciù da Teiru e poi in città a Vase, dove sulla spiaggia c’erano i Ciantè.

A via Gianca

Il ragazzo rimase incantato a guardar tutta quella gente indaffarata, intorno a quegli scafi in costruzione, c’era chi tribolava a tagliar le assi, chi adoperava strani attrezzi e poi c’era lo spettacolo di quelli che arrivavano di corsa con e Toe da Fasciamme fumanti, facendosi largo in mezzo a quella moltitudine di lavoratori,, tutto allora si fermava in religioso silenzio, fino a che non si udivano i colpi di martello sui chiodi per fissare a e Stamanee quelle tavole curve, riscaldate e preformate in un bagno di acqua calda .

Alcune imbarcazioni erano veri e propri bastimenti erano tanto alte, che il sole del mattino formava, con la loro sagoma, una grande ombra sulla spiaggia.

Aveva con sé quella scatola di legno che gli aveva dato il suo adorato papà e la teneva stretta sotto l’ascella, ricordava l’insistenza con cui il padre gli aveva raccomandato, comunque in ogni caso, di riportarla a casa. Aveva due grandi responsabilità recuperare il credito e custodire quella scatola.

 Ricordava le parole del suo adorato babbo, doveva aprirla al buio, solo se quellu Stundaiu du Capuciantè non gli dava la somma pattuita, per il taglio trasporto e consegna di quella legna.

Ma pensò anche per tutto il giorno a chissà che cosa poteva contenere quella strana scatola, chiusa con due lacci di corda.

Non ci fu bisogno di aprire il coperchio, il Capuciantè riconobbe il figlio del taglialegna e si affrettò a dargli la somma che gli competeva, gli diede anche una Slerfa de Figassa, appena sfornata e un Gotto di Giancu, che il giovanettu rifiutò perché u Preve dell’Arpiscella gli aveva detto di non bere mai del vino che si diventa Abburtumeliti!

Con in tasca una bel pacco de Scui, e il buon sapore di quella Slerfa di Figassa, il ragazzo salutò educatamente il Capociantè e tutti gli operai che incontrava.

Il cantiere era nella parte di levante della città e sulla via del ritorno bisognava attraversare il quartiere du Suò , forse qualcheduno era in agguato, aveva saputo di quel ragazzino facilmente identificabile dall’aria sparuta, sceso dai bricchi con quella ridicola scatola di legno, tenuta sotto al braccio, forse lo stesso Capuciantè si era accordato con qualche lestofante, per ritornare in possesso di quel denaro…….

 Ma questo lui non poteva saperlo, arrivato in ciassa Cambi si fermò a guardare dei ragazzini che giocavano a Ballun, fu in quell’istante che una bella donna molto elegante, gli si parò davanti e gli chiese da dove veniva, se era un bravo ragazzo e se si poteva fidare di lui per fare una commissione.

Il ragazzo balbettando gli rispose dicendo “Si mia adorata signora! Sarò un umile servo ai suoi voleri” e accompagnò le parole con un vistoso inchino.

Quella bella donna molto elegante ne aveva visto di cose nella sua già avanzata età, in quella piazza e all’ombra dei caruggi.

Ma quelle ingenue parole pronunciate con un soffio di voce da quel giovanotto cosi educato, la lasciarono senza replica, provocarono in lei una reazione strana inconscia mai provata prima, gli venne un groppo in gola e trattenne a stento le lacrime, seppe solo dire singhiozzando

A via Gianca

“Scappa da questa città! C’è gente cattiva che ti vuol prendere i soldi che hai in tasca! Ma non passare dalla Via Gianca, li ci sono i Taggiague che ti aspettano!

Vanni Sciu da Teiru li gh’è gente che a Travaggia e a l’è Ciu santa che i Cristu appeisi in Giescia! Quandu ti arrivi da Gambun piggia a Muntò du Legnu, ma prima che vegne notte. Ti se duvve a l’è?”

“Si conosco la strada, il mio adorato babbo mi porta con lui a cammalare gli Erbui taggiati e io sono contento quando mi fa guidare la lesa quando è vuota perchè non ci ho ancora la forsa di menare le lese cariche di erbui”

“Poviu figgiò, n’agnellu in mesu ai lui!” pensò a voce alta quella donna.

Ma congedandosi le disse di raccogliere un fiore e metterlo sulla mensola sotto al niccio, sulla sommità da Muntà di Buei.

Spaventato e a passo svelto il ragazzo prese la carrareccia, Sciu da Teiru passando dagli orti da Camminà, seguendo il Beo e arrivato ai Muinetti, dove iniziava la Via Gianca, vide un gruppo di persone nel Teiro, intente a lavorare dove il Beo della Besestra sottopassava il letto del fiume e irrigava gli orti della Lomellina.

Quelli erano persone che Tribulavano e Giastemmavano, ma non potevano essere i taggiague, che aveva menzionato quella bella signora.

U Lagu Scuu

 Proseguì la strada parallela al Teiro verso la Rochetta fece una deviazione per andar a vedere la Grangia dei Cistercensi, con quella grande vasca piena di pesci, sutta San Dunò.

Arrivato in tu Pasciu, in breve  raggiunse Bosin dove da alcune Ostaie arrivava un buon odore de Cuniggiu Cottu.

Strada facendo pensava alle parole di quella donna, ma non è che forse…. ma si era lui! Il suo angelo custode che era comparso vestito da elegante signora! Ma no non era possibile che una donna facesse l’angelo custode ad un ragazzo!

Forse era una santa che lo aveva salvato dai taggiague! E aveva ragione quella bella signora, il Sciu da Teiru era molto operoso pieno di poveri cristi che governavano quelle infernali macchine idrauliche, mentre nei campi coltivati la gente si spaccava la schiena a coltivare rancò de patate sapò e sceguò.

Ex Frantoio Damele dau Lago Scuu

Il ragazzo arrivato al Lago Scuu si soffermò ad ammirare le ruote a pale che azionate dall’acqua del beo, facevano ruotare ruote ingranaggi frantoi mole e seghe a nastro e pialle di queste macchine ne conosceva il rumore le aveva viste in funzione manovrate dal bancalaro.

Ma non doveva indugiare doveva ritornare, ed era ancora lungo il tragitto per arrivare alla Peioa, dove suo papà lo stava aspettando, pensando a lui, altri pensieri si affollarono nella sua giovane mente: come faceva, quel pover’uomo a tagliar tutta quella legna da solo? Non riposava mai, lavorava anche di notte! Era per questo che non rientrava a fine giornata, nella loro casa alla Ceresa ma si fermava in quella cascina alla Peioa?

Iscrizione su legno inizio di via Quinno già Via del Legno ” Tramandi questo legno scritto la memoria di quanti per lunghi secoli e indicibili stenti camparono trainando legni dalle giogaie dei monti ai cantieri di Varagine per questa via”

Imboccò quella mulattiera, la più importante via del legno de Vase dove a intervalli regolari arrivavano le Lese, stracariche di legname, con al giogo i Cabanin i famosi muli dei Lurbaschi ma anche vacche da traino e qualche mulo.

Lungo le ripidi discese, il carico di Toe era tenuto a freno con catene ma anche con bastonate, urla e bestemmie.

A Muntà di Buei

 Il ragazzo ad ogni imprecazione, si faceva il segno della croce o si tappava le orecchie ! Passata la cappelletta di S.Bastian, arrivato in ta Canaetta, raccolse un mazzetto di fiori, poco oltre c’era ad ub crocevia la Munta di Buei una ripidissaima discesa che scendeva verso Cian de Banna.

Arrivato all’incrocio di queste due Strà da Lese, al cospetto di imponenti mura di contenimento, di recinzione e del rudere di una grande casa colonica, c’era, oggi fagocitata dall’edera e in stato di abbandono, ecco l’edicola votiva, citata da quella bella donna.

Lasciò il mazzo di fiori sotto quel profilo di donna, scolpito in una formella di ardesia, dove appena leggibile emerge un nome…. Anna….ecco chi era quella bella signora che si era materializzata a lui in piazza, era S.Anna dei Buei! Un’apparizione da raccontare ai previ!

Nicciu di Buei formella di S.Anna (A Madonna che a se gia)

Proseguendo la strada diventava quasi pianeggiante, scendeva in Berlanda e si raccordava con la Muntà da Cappelletta passando dalle Muggine, lungo questa importante via di comunicazione, era tutto un’andirivieni di gente, c’era chi saliva verso le quattro case delle Faje e chi scendeva durante la bella stagione con le Ballainin-e le balle di fieno, sulle spalle dalle zone prative sotto al monte Greppin, posando quei pesanti fardelli per qualche minuto di riposo e una preghiera, in prossimità degli innumerevoli nicci, edicole votive, dove sempre c’era una posa, catasta di pietre per appoggio.

Arrivato a e Gruppin-vece una deviazione per andare a vedere a Cà di Scopellin, dove nei mesi invernali, si sentiva l’incessante rumore delle punte e mazzette dei sciappaprie che spaccavano, squadravano e incidevano le pietre utilizzate per le pavimentazioni stradali .

A Ca di Scopellin

In prossimità della Ceresa, a casa sua, fu riconosciuto dal suo cane che scodinzolando lo accompagnò per un tratto di strada, gli fece qualche carezza, quella povera bestiola voleva giocare come facevano tutti i giorni, ma lui doveva continuare ed era ancora lunga la strada verso la Peioa.

Arrivato sul pianoro di S.Anna, si soffermò in preghiera, di fronte all’originale edicola votiva e poi ad ammirare quello stupendo panorama, il sole era quasi al tramonto, di quella che era stata una giornata piena di cose da raccontare, fece un grande sospiro di fronte a quella struggente bellezza, che solo chi è già stato in questo luogo conosce!

Proseguì sulla mulattiera oltre il bric Vultui, il Priafaia, e il Montebè , ma aveva sempre quel chiodo fisso… lo aveva da quando era partito al canto del gallo.

Aveva promesso al suo adorato papà che mai e poi mai, avrebbe aperto quel coperchio,….. però poteva sempre dire che quella scatola si era aperto da sola o che l’aveva persa, ma avrebbe preso tante di quelle botte! No forse era meglio tenerla chiusa…

Niente da fare il pensiero non gli dava tregua… Ma perché era così importante tenerla chiusa? Poteva aprirla e sbirciare dentro, ma doveva farlo in un posto lontano da quella via così battuta.

Con quel tormento interiore, prosegui oltre il Montebè e salì sopra quell’immensa pietraia che du Lunò la gigantesca pietraia del monte Cavalli , un gigantesco ammasso di rocce che sbarrava il passaggio a chi voleva proseguire verso i boschi sulla sommità del Beigua, più volte suo padre aveva detto che bisognava aprire un varco fare una strada, fra quell’ammasso di pietre, per raggiungere quelle foreste.

Cappelletta de S.Anna

Le rocce nella loro lenta marcia, inglobate nella massa del ghiacciaio, avevano formato alcune grotte e lì nascosto, alla vista avrebbe aperto quella scatola!

Arrivato non senza fatica in uno di quegli anfratti, da lui ben conosciuto, si rannicchiò, appoggiando quella scatola per terra, ebbe un brivido alla schiena, per quello che stava facendo….prese un grande respiro e svolse quelle corde che tenevano chiuso il coperchio…. attese qualche istante, prese ancora un altro grande respiro e prima di aprire la scatola rivolse l’apertura verso l’esterno di quella grotta.

Ecco ora era pronto…alzò il coperchio……a quel punto ebbe appena il tempo di portare le mani alle orecchie! Un sibilo fortissimo uscì da quella scatola e continuò per alcuni minuti, il ragazzo d’istinto richiuse quella scatola e rimase come stordito.

U Grupassu

Mancava l’aria dentro quel buco uscì fuori in mezzo a quel mare di rocce con le orecchie che ancora fischiavano, ma quello che vive lo fece trasalire…attratti da quel fischio potentissimo, erano arrivati migliaia di omini piccoli piccoli ma tarchiati armati de Picosse, Smare, Masse e Messuie e ora gli erano tutti intorno, saltellando in preda ad una frenesia incontenibile ripetevano in coro “cosa fumma? cosa fumma? cosa fumma….il ragazzo conosceva bene quel dialetto lo parlavano oltre l’egua del Sansobbia, ma era confuso frastornato spaventato “cosa fumma?cosa fumma?cosa fumma?…continuavano a ripetere quegli omini! Saltellando in tondo intorno a lui erano una moltitudine e altri ne stavano arrivando dal bosco!

In un barlume di lucidità, chissà perché gli vennero in mente le parole di suo padre, seppe solo dire “Levè via e prie e fate una strada in mesu au Lunò !” Come fossero un solo corpo, quella marea di omini, si misero tutti al lavoro, fecero diversi passamani, lavorando tutta la notte, tolsero tutte quelle pietre, liberando così il passaggio verso il Beigua.

Come dal nulla erano apparsi, quegli omini, nel nulla sparirono, il ragazzo pensò di aver sognato, ma non era possibile, le pietre non c’erano più, e ora una bella strada anche lastricata attraversava tutta la pietraia du Lunò! Aveva carpito il segreto custodito in quella scatola di legno da suo padre per tanto tempo !

A Cascina da Peioa

Si era fatto buio e là in mezzo a quel bosco nella Peioa, un papà in una cascina, aveva acceso il lume aspettando il suo ragazzo.

La luna emerse da dietro i monti e quando fu alta nel cielo, illuminò tutte quelle pietre ammassate e come per magia, diventarono una lunga striscia luminescente, che emerse dal buio della notte, riflettendo la luce lunare…. U Lunò che ancora oggi possiamo ammirare, a sinistra, scendendo dalla cima del Beigua.

Padre e figlio si ritrovarono, quando già si era fatta notte, in quella cascina il ragazzo consegnò quella cassetta di legno e la somma che aveva ricevuto dal Capociantè, e poi gli racconto di quella sua giornata a Vase e del suo incontro in ciassa Banchi con quella bella signora, S. Anna, che lo aveva salvato dai taggiague e gli parlò di quella grande nave sulla spiaggia di tutti quegli uomini tutti indaffarati a tagliar fissare e calatafare poi ancora di quei poveri cristi Sciu da Teiru che governavano le acque del fiume .

Dopo aver consumato una frugale cena, il padre rivolto al suo ragazzo gli disse “Bravo figliolo oggi hai fatto cose da grandi! Beviamo al futuro uomo che sarai!” E così dicendo riempì un bicchiere di vino, il ragazzo sentendosi grande lo bevve tutto d’un sorso, poco dopo iniziò a sudare e a gli girava la testa. Ma riuscì come sempre a dire “Buona notte padre mio adorato”

Il padre preparò un giaciglio per due, quella notte l’avrebbero passata alla Peioa, Ma nel dormiveglia prima di prendere sonno, pensò alle parole e dalla descrizione fatta dal figlio, riconobbe chi era quella “S.Anna” per sentito dire era una donna di malaffare e giravano strane storie sul suo conto “Belin da quandu u va dai previ all’Arpiscella stu figgiò u se abburtumeliu!”ripensò il taglialegna.

“Adesso dormi sarai stanco di tutta quella strada che hai fatto e di quello che hai visto!”

Il ragazzo a quelle parole trasalì, forse il suo adorato padre sapeva già tutto? Ma non proferì parola di quello che era successo della scatola e di quegli omini del bosco. Chiuse gli occhi e si addormentò

 Passò qualche giorno, il taglialegna vide tutte quelle pietre tolte dalla pietraia du Lunò e quella nuova strada da lese, capì quello che era successo, il figlioletto aveva aperto quella scatola!

U Lunò

Pensò a voce alta “Ora che ha scoperto il mio segreto, non c’è più ragione che mio figlio resti qui con me fra questi bricchi a far la mia stessa vita grama, capirà che ho ben più di un’aiuto e quando serve, basta che apra quella scatola e quegli omini quando è buio, arrivano anche se sono lontano”.

“E poi… ma che disastro abbiamo fatto! Tutto è stato raso al suolo, non c’è più un’albero in piedi! Presto dovrò andar a cercar lavoro da un’altra parte nel Lurbasco o a Sciascellu, e quando qua ricresceranno altri alberi, io non ci sarò più a questo mondo”.

“Meglio che segua il consiglio dei preti, mi hanno detto, che il ragazzo è delicato ben educato e bravo e potrebbe seguire la via del Signore, sarebbe andato in seminario lì avrebbe mangiato due volte al giorno e imparato a leggere e a far di contò”.

E Magari chissà ,sarebbe andato dai frati, in quell’Eremo del Deserto che lo si vedeva bene dai Cumbotti, laggiù tra il rio Malanotte e l’Arrestra era vicino alla sua famiglia, e poteva arrivar a far visita ogni tanto, per un piatto di polenta.

L’Eremo del Deserto

E così fu il ragazzo divenne uomo di chiesa, non mise più piede in quel bosco che finì per essere raso al suolo. Il tempo la disciplina religiosa e la lontananza da quei bricchi e dalla sua famiglia, cancellarono i pochi ricordi di una gioventù mai vissuta, pensò che era stato tutto un sogno, quella scatola di legno e tutti quegli omini forse era stato colpa di quel vino che faceva diventare Abburtumeliti!

Però ricordò fino alla fine dei suoi giorni, il volto di quella signora in lacrime che un lontano giorno in quella piazza oggi du Ballun, gli salvò la vita e gli chiese in cambio di portar un fiore lassù da quel nicciu ai Buei.

Chissà se qul nicciu era rimasto in piedi e se qualcheduno ogni tanto ancora va a portar dei fiori a S.Anna e a liberarlo dalla Lelua, l’edera?

Il padre con tutta la famiglia dopo qualche anno si trasferirì definitivamente nel Lurbasco, gli omini non avevano più nessun bosco dove nascondersi e chissà dove erano andati. Quella Scatua de Legnu non serviva più a niente, la nascose in un anfratto fra le rocce del Grupasso….. e forse lì ci sarà ancora…….

P.S.

La fiaba, è diventato un racconto, con un ipotetico viaggio, dalle pendici del Beigua alla battigia. La fiaba originale che mi è stata raccontata da un taglialegna, era ad uso infantile, gli omini erano contenuti nella scatola, la bella signora non era mai esistita e finiva, quando il padre si accorse che il figlioletto aveva aperto la scatola vedendo tutte quelle pietre accatastate a formare il Lunò.

1) A questo punto per chi voleva raggiungere Vase a piedi, c’era un altro itinerario molto panoramico e anche più veloce, con na scursa che dalla Ciassa passato l’abitato delle Faje, dove inizia il beo del rio Gambin attraversava il bosco dei Veggetti arrivava au Prò da Gobba e quindi  al passo del Muraglione, antica via d’acqua del castello d’Invrea. Si seguiva il beo camminando sul suo bordo e dopo un’ampia curva si arrivava alla vista del mare, si aggiravano le Prie de Limma e il monte Arenon, passando dalla Ramognina poi  passo Valle e tramite un sentiero si arrivava dove c’era una  vecchia mulattiera che portava verso la via Bianca e poi giù di corsa fino ai Mulinetti e al Teiro.

2)Perché il toponimo Buei? In questo punto iniziava la lunga, ripida, discesa, verso Vase e si poteva fare un cambio di animali da traino, con una coppia di buoi di grossa taglia, che riuscivano a rallentare considerevolmente, la velocità lungo quello che è il tratto più ripido della via del legno.In ta Canaetta u ghe a Muntà di Buei alla sua sommità esiste veramente un nicciu con una formella in ardesia con una scritta appena leggibile, il profilo sarebbe quello di S.Anna, ma la scritta è S. Maria questa effige è conosciuta anche come U Nicciu da Madonna che a se gia” sono diverse le leggende che raccontano del perché quel volto è girato verso sinistra ma questa è un’altra storia. La Muntò di Buei fu ripristinata da prigionieri austriaci della prima guerra mondiale.