U Pe du Diau

Con il mio collega di Centrale, Dino Canepa, l’appuntamento è dalle ex scuole del Pero, in località S.Lorenzo, arrivo in anticipo per visitare la bella chiesa di S.Luensu, contornata da un parco di abeti e ersci, querce, secolari.

Dino mi aveva parlato, dell’esistenza di una strana roccia, denominata u Pè du Diau, in questa zona, lungo un’antica strada di comunicazione.

Conoscendo lo stato di totale abbandono, di boschi e strade, si presenta all’appuntamento armato di una roncola.

Il tragitto è quello della vecchia strada lastricata, che da Campumarsu arriva a S.Luensu e a briva sciu pe l’Arpiscella.

Passiamo accanto alla Apicultura Montali, dove incontriamo il proprietario, Enrico, un cugino di mio papà, si parla di questa antica strada e di una diramazione, che sale fino alla località di Bin, ci rassicura della praticabilità della strada, perché ha provveduto lui stesso insieme ad altri al taglio dei vegetali, che ne impedivano il transito, sveliamo il perché della nostra escursione e anche lui conferma il mistero di quella strana pietra.

L’ambiente è quello del nostro entroterra, alle falde meridionali dei bricchi, che degradano dal Beigua, qui l’acqua sgorga da ogni fessura, riempie grandi vasche di raccolta e scorre in alcuni ruscelli.

Alti muri in pietra di buona fattura, delimitano e sorreggono il piano viario.

Nel primo invaso, di cui allego alcune foto, la trasparenza dell’acqua è esaltata dalla luce solare, che fa intravvedere il fondo della vasca con tronchi marcescenti, dove nuota un branco di pesci, chissà come, arrivati fin quassù.

Questo accumulo d’acqua è denominato du Dusce che in zeneise vuol dire Doge, chissà….forse era un nomignolo affibbiato al proprietario di questa vasca, oppure era un dominio della Serenissima?

Poco prima un ex cascina è stata abilmente trasformata anch’essa in cisterna.

Proseguiamo la strada, ora in discreta salita a l’è a Muntà di Orbi forse riferito alla fatiga da orbi, fatta dalle generazioni passate, per trasportare pesanti fardelli.

Come in altre mulattiere, quando il percorso si fa particolarmente acclive, il fondo è lastricato con le classiche pietre posè de taggiu, per essere il meno possibile scivolose in caso di neve o gelo, ma anche per garantire una più stabile presa, per i zoccoli degli animali da tiro.

Ammiro sempre queste pietre, ognuna posata con sapienza forza e tanta fatica, con un lavoro incessante, tramandato da padre in figlio lasciato ai nipoti e oggi in eredità a noi, gente moderna, che abbiamo perso la manualità, incapaci anche solo di pensare, come sia stato possibile da una terra ingrata e ostile trarre il sostentamento e crescere dei figli grazie alla terra contenuta nei muri a secco e alle fasce coltivate, il vero patrimonio della nostra regione, le Cattedrali di Liguria!

Sulla via del ritorno fotografo una strano muro con pietre abilmente incastrate.

Era anche questa, un’antica Strà da Lese e i segni dei legni, che hanno consumato la roccia, sono ben visibili in alcune pietre del selciato.

Alla fine di un leggero falsopiano, si intravvede ancora una salita verso la zona, denominata da Madunetta, chissà forse un tempo, c’era un’edicola votiva, come le tante che si trovano, lungo le strade di grande transito.

In questo punto, scavato in una grande pietra piatta, prima di un guado, c’è un simulacro, che calza perfettamente con un piede umano, u Pe du Diau!

E’ evidente lo scavo effettuato per dar la forma del piede, in un primordiale incavo già presente in questa pietra.

Chissà quale era la sua motivazione.

Dino afferma di una qualche attinenza di questa incisione con altre rocce simili, scavate in altri siti preistorici, l’impronta del piede per delimitare i confini di un terreno.

Il piede era una unità di misura di lunghezza, già usata dai romani 4 dita=1 palmo, 4 palmi=1 piede, 5 piedi= 1 passo.

La strada prosegue in salita, lastricata con pietre di taglio, sempre i muri a secco a delimitare e a sopportare la strada, una grande vasca, del consorzio per uso irriguo, raccoglie l’acqua che proviene da Ciusa du Punte di Ratti, l’acqua ora arriva a destinazione intubata, ma molti anni fa era regimentata da una fitta rete de surchi, solchi che la trasportavano nei campi coltivati.

A questo punto ci addentriamo nel bosco, fra eriche arboree alberi di pini e castagni, che sovrastano la sottostante zona de Ca-dana, per vedere un bellissimo esempio di muro a secco edificato con e Prie Sciappe’ a lato di questa parete, un incavo come quelli per lume che si trovano all’interno delle cascine in pietra.

In un pianoro, dove era un’antica cava si può scorgere in lontananza il mare. Si prosegue, arrivando in località Mungera ( il toponimo è già con una particolare inflessione dialettale diversa dal zeneise), sovrastati da un’altra zona chiamata Carèga l’accento cambia il naturale significato genovese della parola e in questo caso si riferisce a carica posto di caricamento.

Arriviamo alla fine di questa strada che si immette nell’attuale viabilità nella curva detta dei Tissuin, prima di Surzetti e du Runcu.

Sulla via del ritorno, Dino mi parla dei suoi numerosi viaggi, effettuati in altri continenti, delle tante cose che ha visto e anche mangiato!

Lo ringrazio per questa interessante escursione, per avermi offerto l’opportunità di scoprire una cosa inedita e molto interessante facente parte di quell’antica viabilità, verso l’Alpicella testimone di molte vicende storiche.

Un po’ d’oiu

Ancora negli anni 60/70 questo unguento miracoloso, era usato per lenire ogni sorta di lesione cutanea o disturbo del metabolismo ad esempio i temibili “vermi”intestinali che stranamente, in quegli anni infestavano tutte le interiora della popolazione sopratutto, quella giovanile, facendo la fortuna dei guaritori itineranti.

Gli interventi erano effettuati a domicilio massaggiando i ventri dei pazienti che erano “segnati”, sulla pelle con una miscela di aglio e olio, intonando versi religiosi o parole incomprensibili, ricompensati al termine del trattamento, con un offerta in natura, più spesso pagati con moneta cartacea.

In caso di scottature, la cute lesionata doveva essere ricoperta d’olio e mantenuta al caldo, nelle popolazioni dell’entroterra si consigliava addirittura di tenere la parte scottata sopra una fiamma!

Se poi ad essere colpito era l’occhio, con la comparsa di un semplice orzaiolo, allora bastava appoggiare l’occhio su una bottiglia e guardare all’interno,, dove naturalmente doveva esserci dell’olioI temuti “orecchioni” erano curati versando nel dotto uditivo un cucchiaio d’olio tiepido, aromatizzato con un poco di “spersia”.

Conversando con la sig.ra Lina classe 1927 ricorda anche un’altro metodo a cui era stata sottoposta da ragazzina, per estrapolare questa malattia, la testa del malato, era infilata in un sacco stretto con un laccio al collo, questo sacco, poi era estratto velocemente, richiuso a palla e gettato da una scala, così facendo si ammazzava lo spirito malefico.

La sig.ra Lina racconta anche il trattamento da fare in caso di insolazione, sopra la testa del paziente, si poneva un piatto con un poco di acqua e qualche goccia d’olio, se l’olio si diluiva, voleva dire che il colpo di sole era stato debellato.

Le malattie dell’apparato respiratorio erano curate, con il serio rischio di scottature, tramite degli impacchi di semi di lino bollenti avvolti in panni di stoffa e appoggiati sullo sterno, oppure con inalazioni di vapori di infusi di sambuco o foglie di eucaliptolo, questo è forse l’ultimo rimedio ancora in uso oggi.

Poi c’era lo spauracchio di tutti noi bambini, in caso di escoriazioni, la disinfestazione era effettuata con il terribile alcool denaturato, molto più doloroso delle ferite subite, la medicazione finiva poi con l’applicazione di polvere di penicillina, questo scongiurava il proliferare di batteri ma dopo un paio di giorni provocava la formazione di spesse e orripilanti croste che esageravano la gravità della lesione.

Come ultimo un consiglio pratico/funzionale che può servire, in caso di febbre, i termometri tradizionali sono sempre i più affidabili, ma far scendere il liquido a volte è complicato, però basta inserire il termometro in un calzino, con la punta rivolta in basso, chiudere con le dita e far ruotare velocemente.( controllare prima che non ci siano buchi nel calzino…)

A Ca di Scopellin

Un secolo, fa chi transitava da Valoia, S.Luensu o vegniva da Muntò di Orbi, per a Muntà da Cappelletta, in direzione delle Faje, arrivato au cianellu de Campumarsu, udiva distintamente dalla soprastante zona de Gruppine il ritmico martellare dei piccaprie, provenire dalla omonima cava di ofiolite.

Qui sei o sette scoppellin, perlopiù di origine piemontese, nel periodo invernale, sgravati dai lavori du gran e da vigna del basso Piemonte, convenivano in questa zona, molto acclive ma ampiamente terrazzata, dove avevano la concessione pe sciappò e prie, specializzati nella realizzazione de prie pe i recanti de che e de ciappe da strada, quelle con le striature trasversali, antisdrucciolo, calpestate e consunte dall’uso, presenti in ogni centro storico delle città di mare, tra cui via Roma, nella grande Genova, che era il più importante committente di Scopellin de Gruppine

E prie de Gruppine sono presenti anche nel primo monumento, edificato a Quarto, in onore dell’Eroe dei Due Mondi.

Non si hanno altre notizie, di questa attività, quando ebbe inizio, né quali furono i contratti di concessione e nulla dei paesi di provenienza degli scalpellini.

A memoria del loro lavoro, ci hanno comunque lasciato uno dei più belli manufatti in pietra, presenti oggi sul territorio di Varazze, la Ca di Scopellin un capolavoro a suo tempo esibito con orgoglio a riprova della loro maestria.

Oggi chi arriva al cospetto di questa costruzione, in parte diruta, si accorge di essere in presenza di una tipologia di costruzione diversa dal solito, le pietre sono mirabilmente squadrate e recano incisi sulla superfice le striature che fungono da decori, incise con una precisa diagonale, perfetti, feti cun punta e massetta e tanta bravua.

Di fronte a questo vero e proprio capolavoro litico, è grande il disappunto di averne perso la memoria di quella che era un’eccellenza del nostro entroterra.

L’appuntamento con Gianluca Venturino, è a Campomarzio nei pressi della sua abitazione, ai piedi dell’imponente frana che il 23 novembre del 2019, si è staccata dalle Gruppine, ed è rovinata a valle, trascinando grandi massi travolgendo ogni cosa, anche un rustico di sua proprietà, furono solo alcuni alberi di alto fusto sopra la sua abitazione, che fecero da scudo a pietre e fango scongiurando la probabile distruzione della casa.

Tragedia vissuta in diretta da Gianluca quella sera alle 19.30, quando era uscito per controllare gli scoli dell’acqua, durante quell’infinito eccezionale temporale, si accorse anche al buio, che l’intero monte stava lentamente scivolando a valle evidenziato dal visibile spostamento di alcuni manufatti, di una grande cisterna in plastica per la raccolta d’acqua e di una baracca in legno che erano finiti addossati insieme a terra e pietre, ad un grande albero, che resistette per qualche minuto all’enorme pressione, per poi cedere di schianto

Gianluca riuscì miracolosamente a mettersi in salvo, ma il suo telefonino cadde nel fango, si mise allora ad urlare con tutte le sue forze alla mamma e sorella che erano rimaste in case di uscire di scappare di mettersi in salvo, perché la massa d’acqua fango e pietre stava per travolgere ogni cosa, ma per fortuna o per caso, l’enorme frana aveva oramai terminato la sua furia distruttrice, fermata definitivamente, grazie anche ad alcuni alberi divelti e trasportati dalla massa terrosa, che si misero di traverso al contatto con quegli alberi di alto fusto che sovrastano la casa di sua proprietà, formando una rudimentale diga, scongiurandone così la sicura distruzione.

Acqua e fango riuscirono comunque a distruggere la piscina che era nel giardino di casa e ad invadere gli interni.

Ascolto questo racconto e so per certo che cosa si prova quando succedono queste tragedie le stesse sensazioni e rischi da me vissuti, il 4 ottobre del 2010 quando via Scavino divenne un fiume in piena a seguito dell’esondazione del rio Riva e ci mancò un nonnulla per avere un più tragico bilancio con delle vittime , poco o nulla è stato fatto o si prevede di fare per scongiurare il ripetersi di un altro dramma similare.

Io a distanza di dieci anni ancora passo insonni le notti di pioggia a controllare il deflusso dell’acqua lungo via Scavino.

Gianluca qualche tempo fa si era offerto per accompagnarmi a vedere la Ca di Scopellin, gli telefono, visto la giornata ventilata e con sole velato, chiedendo se era possibile andare a vedere la casa, mi risponde affermativamente e ci accordiamo per l’ora.

Conosce molto bene questo territorio dove e nato e risiede, a Campomarzio, possiede alcuni immobili nuovi o ristrutturati, nella zona di S.Lorenzo, attualmente in vendita e un grande rustico, con un bel progetto per fare un agriturismo.

Per prima cosa decidiamo di fare un sopralluogo ai punti di distacco delle tre distinte frane.

Arriviamo con l’auto al termine di via Belvedere, la naturale prosecuzio della Muntà da Cappelletta, qui ci addentriamo in un fitto bosco misto, di castagni pini e con le incredibili eriche arbore, veri e propri alberi, mentre il selciato della mulattiera è colonizzato, in questo periodo dalle felci, sono le quattro del pomeriggio ma nel folto di questo bosco, sembra già arrivato il crepuscolo, avanzare in mezzo alla vegetazione è molto faticoso, molti i fusti di alberi che giacciono a terra, occorre scegliere bene di volta in volta quale gavigno de ruvei e brughe affrontare, per non restare bloccati, girovaghiamo per un po’ nel bosco e troviamo i resti di una teleferica con il cavo ancora in tensione, le carrucole e i portalegna .

Seguendo una bozza di sentiero, arriviamo sopra una balconata sotto di noi il dirupo, dove è ben visibile l’imponente distacco di uno strato di 3 o 4 metri di montagna che è scivolato in basso. Gianluca mi fa notare un gruppo di alberi, che hanno “camminato” per un centinaio di metri, per poi formare un boschetto più a valle, questa parte di frana pur essendo molto vistosa, non è quella che ha provocato il disastro, ma lungo la stessa direttrice, oltrepassato un boschetto, c’è stato un secondo fatale distacco, composto da terra e fango e grandi massi ha tranciato la tubazione dell’acquedotto.

Questo ulteriore apporto di acqua ha contribuito a innescare la grande frana che è rovinosamente precipitata a valle, in un determinato punto è visibile lo strato di roccia, molto acclive, che ha fatto da scivolo naturale a questo enorme smottamento.

Con i miei kg in sovrappiù, scendo e poi risalgo la ripida Muntò da Cappelletta, oggi via Primavera, una antica strada vicinale , dove il selciato è lastricato cun prie posè de costa e tutto il tracciato è delimitato da muri in pietra e altre pietre, infisse con la stessa tipologia di un sentiero megalitico, un’altra mirabile opera dell’ingegno e della fatica umana.

Questa viabilità permetteva di raggiungere da Valloia e da S.Luensu, le soprastanti località delle Faje, munte Grippin e proseguire oltre verso il Beigua, le sue praterie e boschi, per la fienagione, per il taglio e trasporto della legna, pascoli e commerci.

Seguendo a Munta’ da Cappelletta, arriviamo al cospetto di quello che stavamo cercando!

L’imponente cava di ofiolite e la Ca di Scopellin.

La costruzione è in parte diruta, invasa dalla vegetazione e colonizzata, anche al suo interno, da specie arboree.

Mancante della copertura, la casa è alla mercè delle intemperie e al degrado del tempo, un portale è già crollato, ma la solidità della casa e’ evidente e sembra non ci sia il rischio di ulteriori crolli.

E’ una classica casa colonica, con la parte ad uso abitativo, sopraelevata, accessibile tramite una scala esterna, ha le pareti interne intonacate ci sono i fori dei legni per il tavolato del pavimento e la nicchia per il lume, il vano a piano terra, diviso da un muro, era adibito a stalla, nel sottotetto invece erano probabilmente stoccati fieno e paglia.

In aderenza a questa abitazione vi è forse la parte più antica di questo complesso, quasi del tutto crollata, qui verosimilmente era effettuata l’attività dei scalpellini, con la squadratura e la scalpellatura ad uso ornamentale o antisdruciolo delle pietre cavate per uso stradale, ma anche sculture a bassorilievo e altre decorazioni a richiesta del committente, oppure per diletto in un momento di svago.

Questo ambiente doveva essere, sufficientemente ampio ma era soprattutto al riparo dalle intemperie.

La Ca di Scopellin è una bella testimonianza del lavoro, dell’abilità e delle capacità tecniche, un indubbio patrimonio storico delle arti e mestieri da preservare.

A questo punto con Gianluca facciamo una constatazione di fatto, poco sopra a Ca di Scopellin, c’è il punto di distacco, del terzo movimento franoso, che anche qua ha divelto piante e fatto rotolare massi, un seppu de castagnu, e’ stato capovolto e trasportato a poca distanza dal rudere……. in altre circostanze se invece da Ca di Scopellin ci fosse stato che so….. un luogo di culto….. si penserebbe subito ad un miracolo!

Un’intercessione divina che ha fermato la frana, prima dell’immane disastro, salvando quei ruderi e magari questo luogo sarebbe diventato, oggetto di devozione, avrebbe attirato torme di visitatori, pullman anche dall’estero!

Ma niente di tutto questo accadrà, a chi può interessare questa storia, appartenente al mondo del reale, quello da Ca di Scopellin?

D’ altronde mica erano dei santi quei piccapria, ma solo della povera gente come tanti di cui, colpevolmente, abbiamo perso la memoria.

Chi erano quelli che qui avevano lavorato con ogni condizione meteo, faticato tribolato, per portare a casa la pagnotta a delle bocche da sfamare?

Ma così vanno le cose in questo nostro strano paese, della Ca di Scopellin fra qualche anno nessuno si ricorderà più, finirà fagocitata dal bosco e i suoi muri e quelle pietre scalpellate ad una a una da na man d’ommu, ritorneranno a far parte di uno dei tanti muggi de prie, che si trovano senza nessuna spiegazione nei nostri boschi.

Vorrei citare arrivati alla fine, una frase di Paolo Cognetti, che descrive molto bene a mio parere come dovrebbe essere l’approccio a questi luoghi, pensare e provvedere alla loro conservazione dovrebbe essere parte di una comunità che vuol conservare la sua storia, strade cascine muri di pietra, tutti dotati di una propria sacralità, dove generazioni di nostri concittadini e non, ma sempre esseri umani, si sono spezzati la schiena, per lasciarci un mondo migliore

“……….serve che queste voci continuino ad esistere, nei nostri tempi di conformismo imperante, tecnologico, capillare. Ci ricordano, perlomeno che cosa ci viene amputato senza che ne sentiamo dolore, così anestetizzati: eliminare le zone di silenzio dalla nostra vita è come abbattere gli ultimi boschi per costruire dei supermercati, come radere al suolo una montagna per farci passare una strada. Servono esploratori che esaurite le terre sconosciute, vadano a cercare in quelle dimenticate, tornino ai luoghi che l’uomo abitava e ora non più. Un paese fantasma, una fabbrica abbandonata. Che cosa c’è lì, dove tutti sono andati via?” Un amore che nessuno si ricorda”. Servono libri che mettano in salvo quell’amore” Paolo Cognetti.

Gianluca mi fa partecipe di un aneddoto che gli aveva raccontato suo papà. Ad una quota più bassa della cava, nella zona di Campomarzio in una casa ancora oggi visibile dove, si era accasato un valente fabbro, u Fero’, al servizio in toto per gli Scalpellin de Gruppine e per tutti quelli che lavoravano la terra e che avevano bisogno di rinnovare, affilare o riparare l’attrezzatura da scavo, da taglio o da spacco.

Quest’uomo, di cui non si conosce il nome, diventò con il tempo una persona di massima fiducia dei scalpellin a tal punto, che il commitente, per non sobbarcarsi un discreto tragitto in salita fino alla cava, lasciava il pagamento, per i lavori effettuati, al fabbro.

Ma un giorno ricevuti quei soldi destinati a quelli che si erano ciecamente fidati di lui, sparì dalla circolazione, qualcheduno disse che la cosa era stata pianificata e che con i soldi carpiti ai Scopellin de Gruppine u Fero’ si imbarcò per l’America e non fece più ritorno in patria!

Con questo racconto tramandato da generazioni si conclude questa bella escursione sciu e su da Muntà da Cappeletta.

Si sta facendo tardi, ringrazio Gianluca della bella escursione effettuata e delle cose che grazie a lui ho potuto ammirare , insieme abbiamo condiviso un intero pomeriggio a ritroso nel tempo.

Ringrazio anche Vittorio Mantero, comproprietario della Ca di Scopellin, per ulteriori notizie avute, utili per completare questo post.

John Ratto

Ci vollero 3 giorni di cavalcata ad Aleramo, per circoscrivere questa zona del Piemonte, il Monferrato,cavalcando un destriero ferrato con quattro mattoni,

 Tre giorni, non bastano per chi cumme mi u l’arive da u mo, per districarsi in questa zona, incisa da chilometri di stradine curve e saliscendi che portano a paesini e piccole borgate, in un suggestivo ambiente, con i filari di vite a perdita d’occhio e in questa stagione, belli da vedere con gli stupendi colori, nelle loro infinite varianti verde giallo e rosso.

E chi u l’arrive da Vase, abituato a vedde u mo, fatalmente si perde, in questo dedalo e sbagliar strada, vuol dire fare lunghi giri a vuoto, per poi ritrovarsi al punto di partenza.

Passo in mezzo a gruppi di case sparse e paesi avvolti in una nebbiolina, che offusca la vista di queste colline, ancora assonate, non c’è anima viva in giro, nessuno a cui chieder informazioni e pochissime le auto in corcolazione.

Telefono a Giovanni Ratto, che sono giunto a destinazione, almeno così mi ha detto il navigatore, indispensabile strumento di geolocalizzazione, impensabile arrivare in strada Praiotti a Nizza Monferrato, senza la guida di Google e pazienza se l’obbiettivo è ancora lontano 500 metri, l’importante è essersi districati, in quella immensa ragnatela viaria del Monferrato.

In questa zona sono pochi i filari di vite, qui prevale la coltivazione del cardo gobbo e in questo periodo si stanno ricoprendo le piante di terra, per prepararle all’inverno, nella cosiddetta fase di imbiancamento che rende la parte commestibile di questo vegetale, più morbida.

E’ l’inizio di una bella giornata, trascorsa con Giovanni Ratto, sempre cordiale e di buonumore, con i racconti del suo lavoro della sua vita in California, lui come molti altri giovani del nostro entroterra, molti nativi dell’Alpicella, emigrati in cerca di lavoro negli States, ma si parla anche dell’attualità delle cose che accadono in Italia e negli Stati Uniti.

Maya, una cagna, razza Shar Pei fa buona guardia e compagnia.

Una bella giornata, corroborata da una buonissima polenta, fatta con farina macinata al momento, condita con funghi e accompagnata da vino rosso.

La casa di Giovanni, si trova sopra una delle tante colline, tipiche del Monferrato. In un edificio distaccato c’è il ricovero attrezzi e laboratorio, una porta immette nel retro, dove all’aperto in un grande recinto, razzolano un centinaio di galline, al cospetto di una grande e suggestiva ex miniera di sabbia.

 Entro nel recinto e subito sono attorniato da una marea di pennuti, che mi accompagnano a far alcune foto in questo insolito giacimento.

Qui lavori di generazioni di minatori, hanno asportato un’ingente quantità di inerti e scavato delle gallerie.

In una di queste, trovo alcune incisioni e una nicchia che sembra essere un tabernacolo, questa grotta era forse adibita per cerimonie religiose, visto anche l’incrocio degli scavi laterali che determinano una pianta a forma di croce.

Giovanni mi parla di alcuni rilievi effettuati con una particolare strumentazione all’interno di questi cunicoli

All’aperto la nebbia sui colli, limita la visibilità, ma da quassù nelle terse giornate invernali, si spazia dal Monviso, alla pianura Padana, Monte Rosa e al Monte Beigua.

Come in tutte le dimore di campagna, non manca nulla, per ogni tipo di attività dal mulino per macinare i cereali, agli attrezzi per ogni disparato impiego e per ogni lavoro.

Il lavoro, sempre presente nella vita di Giovanni, anche alla base della motivazione del suo trasferimento, dopo il ritorno in Italia, in questa terra de Munferra’

Ho conosciuto John Ratto, tramite i social, lui è venuto a conoscenza del mio interesse per l’entroterra e per il lavoro delle generazioni passate troppo o per niente ricordato e durante una visita parentale a Varazze, mi aveva prestato una pila di libri di storia e di cultura, della nostra città e della Liguria.

Oggi ho riconsegnato quei libri, da dove ho preso alcuni spunti per dei miei racconti.

Impossibile, in un post solo, parlar della vita di un ragazzo, classe 1937 che all’età di 17 anni, il 30 ottobre del 1954, partì da Genova con la sua famiglia a bordo della motonave Cristoforo Colombo e dopo nove giorni di mare e tre giorni di treno, arrivò ad Oakland in California, attraversando quegli insoliti immensi paesaggi, tra grandi cimiteri di carcasse d’auto, mandrie di mucche pianure sconfinate.

Poi l’attraversamento delle montagne rocciose, con quel treno funzionante a gasolio, sottoposto all’arrivo a Denver, ad un “treno lavaggio” per togliere tutto quel nerofumo appiccicato ai vagoni.

Il 12 novembre 1954, ci fu l’arrivo alla stazione di Oakland, con tutti i nostri parenti, già in terra americana, ad accoglierci ….questa è una parte di storia narrata da John Ratto, scritta nel suo bloc notes, che mi ha affidato, per poi un giorno farne un libro, che racconti la sua storia, comune a tanti altri giovani come lui dell’Alpicella e delle Faje, quella di un ragazzo, che lasciò la sua terra, amici, parenti e un amore giovanile, per emigrare negli States, per inseguire un sogno, poi divenuto realtà di realizzazione e di sicurezza economica.

Ringrazio Giovanni, della sua cortese ospitalità, della bella chiacchierata che abbiamo fatto e dell’opportunità che mi ha dato, affidandomi il suo manoscritto, di raccontare un altro pezzo di storia della nostra comunità.

E’ giunta l’ora del ritorno, mi ero prefissato un altro itinerario magari più corto, attraversando Acqui Terme, ma il navigatore implacabile, mi devia per l’A26 di Alessandria Sud, itinerario meno complicato dalle curve, tutto sommato una buona scelta, visto anche il mio stato fisico, con un  persistente raffreddore in peggioramento.

Strada facendo ripenso alle parole di John, Giovanni nostro concittadino in quella lontana California, terra natia oggi di molti dei loro discendenti.

A Ca’ de Giuranin

Una scritta sulla casa rossa di via Scavino, informa chi passa che quella è “a Ca’ de Giuranin”.

 In questa casa incontro Gianna Cerruti, per quelli de Vase “a Meistra Botta”, dal cognome del marito.

 Lei, con lo stesso sorriso di quando giovinetta abitava qui al n°55 di via Montegrappa, oggi n°12 di via Scavino, con la sua famiglia, proprietaria di questo edificio.

 Io e Gianna facciamo una lunga chiacchierata, lei mi parla di suo papà, Giovanni Cerruti detto Giuranin, e della sua famiglia e di tante vicende accadute anche fuori dai confini nazionali, vite intere, impossibili da riporre tutte in un post.

 Giuranin, della famiglia Cerruti du Buggia (dal nome di un rione in località Parasio), classe 1904, era conosciuto anche come l’African perché lui, prima caretè e poi autista di camion, nel 1936 raggiunse, nell’allora colonia italiana di Somalia, il gemello Giuseppe e l’altro fratello, Giacomo, proprietari di una piantagione di banani, gestori di un’officina e di un cinema a Mogadiscio.

Baracche del campo di concentramento di Eldorel in Kenya dove probabilmente era prigioniero U Giuranin

 Nel 1941, a seguito della conquista della Somalia da parte degli inglesi, molti italiani furono fatti prigionieri e internati in campi di concentramento: Giuranin fu uno di loro. Era in Kenya, forse proprio nel campo 354 a Naniukyda, da cui il 24 gennaio del 1943 un gruppo di prigionieri italiani si allontanò, per scalare il monte Kenya: l’avventura fu raccontata in un libro da Felice Benuzzi, uno dei protagonisti di quella scalata che piantarono sulla vetta una bandiera italiana.

 Impossibile continuare la fuga per mille chilometri in mezzo a foreste e savane e allora fecero ritorno al campo di internamento.

 L’impresa fu in seguito narrata dagli stessi inglesi, per propaganda, atta a rendere noto e ad ingentilire il trattamento da loro riservati ai prigionieri di guerra.

 Dopo sei anni di detenzione, Giuranin fu liberato e ritornò in Italia, a casa. Riprese il suo mestiere come autista, il lavoro non mancava c’era da ricostruire una nazione intera, dopo i disastri lasciati da un regime di distruzione e morte.

 La seconda guerra mondiale, per l’Italia, fu anche guerra civile e fu grazie al sacrificio di tanti uomini e donne, nella guerra di liberazione, che un popolo intero conobbe quegli ideali di giustizia e di libertà e quando i cannoni tacquero ci fu la speranza e la voglia di un futuro migliore.

 Forse era questo lo stato d’animo che armava uomini e donne di buona volontà e poi non esistevano o perlomeno erano minime le pastoie e mangiatoie burocratiche e politiche.

A famiggia de Giuranin, Giovanni Cerruti, Giovanna Cerruti e Villafranca Iani

 Giuranin sposò Villafranca Iani nel 1948 e subito iniziarono i risparmi per potersi costruire una casa: ecco che ricorre un numero, il 55, numero civico di via Monte Grappa dove nel 1955 iniziarono ad edificare la loro grande e bella casa.

Gianna è la bambina in secondo piano, dietro di lei suo papà, la foto è stata scattata in occasione della “laccia” per festeggiare la gittata della prima soletta della casa di Giuranin

 Una concomitanza di cose, in questi giorni d’ottobre: una vecchia foto con uomini, vicini di casa e amici, al lavoro per fare o riparare via Monte Grappa, un antico, ma ancora solido cunicolo che emerge durante i lavori in corso sul rio Bagetti, costruito dagli stessi uomini e poi a Cà de Giuranin, anche questa costruita con l’aiuto di amici: bastava un gruppo de viscin, n’amigu baccan, n’otru mesa casoa o boccia e una casa come quella imponente di Giuranin, la si poteva tirar su a picconate per le fondamenta ben poggiate sullo scoglio, e poi fare una laccia ad ogni soletta gittata… e allora ecco Pippu u maiu da Ravina, imponente e massiccio, u Dria, Benardin du Doia, u Catullu, u Ruei, u Biundu e Mariu u Grillu e u Rudina.

  L’involucro esterno della casa è tutto di blocchi di cemento e ghiaia (spesso prelevata dal Teiro, a KM 0): ogni blocco è fatto a mano, servendosi di una forma in ferro, riempita con l’impasto girato con la pala e tanta fatica e tanto tempo.

A Ca de Giuranin

 Si costruirono altre case e in quel bel prato dove Gianna raccoglieva le margherite, mio padre con i miei zii, anche loro con picco e pala, scavarono le fondamenta della nostra casa, era il 1961. In seguito, arrivò altra gente, altri bambini con cui giocare, quando quel sentiero che proseguiva fra orti e terrazzamenti diventò una strada e furono costruiti i palazzi della parte alta di via Monte Grappa.

Da sinistra: u S. Martin ( Giacomo Masio) u Giuranin (Giovanni Cerruti) Giacomino ( Giacomo Bruzzone) u Dria (Andrea Bruzzone) Mario u Grillo ( Mario Delfino) Richetto (Enrico Parodi) Giuanin (Giovanni Casarimo) Questa foto degli anni 50 ritrae al lavoro gli abitanti vicini di casa della parte finale di via Monte Grappa

 Negli anni 60 ero bambino ed esisteva ancora il reciproco “te daggu na man” tra vicini…  ricordo via Monte Grappa ancora sterrata, quando insieme ad altri dirimpettai si tappavano i buchi dove l’acqua formava pozzanghere, io con mio papà ed altri si andava a fare il surcu da Milina, per deviare l’acqua intu lagu da Riva (che ora non esiste più), in Teiru.

 Molte cose sono cambiate e quell’acqua, non va più in Teiro, ma fa la curva e scende lungo quella che è oggi via Scavino, si è perso quel senso di reciproca solidarietà e cinicamente, arretra il nostro senso civico.

 Un ricordo presente per tutti quelli sciu da Teiru sono le piene del fiume.

Il ponte Du Rissulin dopo l’esondazione del Teiro il 1 novembre 1968

 Gianna mi racconta di quella tragica esondazione del novembre 1968 (Giuranin era morto nel luglio dello stesso anno, investito da un’auto a Sestri), quando il fiume in piena arrivò a lambire il pian terreno della casa e Gianna e la mamma furono ospitate dalla famiglia al piano superiore. Il mai dire mai si avverò anche in quella circostanza, quando per tranquillizzarle, fu detto che fintantoché quell’albero di mimosa sotto casa, lambito dall’acqua del fiume, fosse rimasto al suo posto, non ci sarebbe stato pericolo, ma… solo il tempo di terminar la frase e la piena sradicò quella pianta che fu portata via dalla corrente!

Via Monte Grappa frana presso la casa dei Pelosi a seguito della piena del Teiro il 1 novembre 1968

 L’alluvione lasciò la zona du simiteiu vegiu devastata: anche la falegnameria Baglietto subì ingenti danni.

 Nel 1970 il genio civile iniziò la costruzione di un argine, ma i progettisti dimenticarono di praticare un’apertura di sfogo delle acque del rio Bagetti e al primo acquazzone si formò un bel lago al posto dell’allora campu da ballun de nuiatri figgieu. Quello fu l’unico episodio che vide protagonista il rio Bagetti, un rian con poco invaso, che nasce poco più in alto, in mezzo alle fasce.

 Sono passate un paio d’ore e si è parlato un po’ di tutto, anche delle nostre famiglie, dei figli e del suo lavoro di maestra alle Faje e a Casanova, lasciato per seguire il marito, anche lui de Vase, a Udine.

 Ringrazio Gianna, della bella chiacchierata, delle sue correzioni e dei contributi apportati nella stesura di questo testo.

Il tempo insieme a lei è volato: si stava bene sul terrazzo da Ca’ de Giuranin, anche perché eravamo al cospetto del “nostro” pezzetto di sciu’ da Teiru, che ci ha visti bambini, nei nostri infiniti passatempi nell’età più bella della nostra vita.

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L’Emilia Scauri

Resti della strada romana Emilia Scauri presso il Bric Arenon

Nel post precedente, A Furnosce da Caasina, ho lasciato i resti della via Emila Scauri, poco dopo il guado dell’Arenon, in località Custà, nei pressi di Beffadosso, dopo aver oltrepassato la fornace della Calce.

Ero arrivato al cospetto di una casa diruta, ma poi era impossibile, proseguire in direzione della Custea, vista l’eccessiva vegetazione.

Un’antichissima via si trova, sulle alture di Varazze, percorrendo un segnavia con una linea rossa, che si dirama a sinistra della strada, che sale verso il monte Grosso, (Madonna della Guardia) in località Gua dell’Aniun, in corrispondenza del bivio per la chiesa del Beato Jacopo.

A Gua dell’Aniun

L’inizio del sentiero, non combacia con l’antico percorso, le prime tracce dell’antica strada, si trovano, dopo una decina di minuti di percorrenza in discesa.

Purtroppo la mancata manutenzione dei “surchi” ovvero la pulizia dei solchi, che drenavano l’acqua piovana, ad intervalli regolari, dalla strada è stata fatale!

La mancata manutenzione di queste opere idrauliche, è stata la causa principale, del dilavamento dello strato di terra e ghiaia, che bloccava le pietre e formava il sedime stradale, di questa strada.

Oggi ben poche, sono le pietre, ancora fisse a formare la base della via romana.

Una grande quantità di massi, giace ai lati del sentiero, che scende verso l’Arenon, erano quelli di quell’antica strada, divelti dalla forza dell’acqua .

Il sedime oramai compromesso e instabile, fu rimosso, nel corso degli anni, per liberare, quello che era diventato solo un impervio sentiero scavato dall’acqua.

L’antica viabilità romana, fu abbandonata del tutto, dopo l’apertura di una nuova strada, che tramite un ponte ad arco scavalcava il torrente Portigliolo e superava lo scoglio d’Ivrea.

Perdendo la sua funzione strategica la strada fini per essere declassata a viabilità minore. .

Questa antichissima strada, fu ancora utilizzata da chi se ne serviva, per raggiungere case e cascine, portare gli animali al pascolo e trasportar legna o altro.

Oggi quella che era una delle principali arterie della viabilità romana si è trasformata in uno scolo dell’acqua che scende dal pendio dell’Arenon.

Sullo sfondo la discarica della Ramognina

Questo sentiero prosegue a mezza costa, poi con due ampi tornanti, arriva sull’alveo del rio Arenon, come sfondo, dell’imponente discarica della Ramognina.

Il mio arrivo, disturba il pascolo di una famigliola di cinghiali, che si allontanano e spariscono con un grugnito in te un boscu de brughe.

Qua si perdono le tracce della strada, è probabile che ci fosse un guado e forse una stazione di riposo o un cambio di animali da trasporto

L’ambiente circostante, ha visto la presenza di qualche attività umana, molte le rocce spaccate da man’d’ommu, poco oltre la riva dell’Aniun, vi è una specie di riparo, un antro sotto ad una roccia, la cui entrata è occultata da alberi e rovi.

Proseguo e una masso, con evidenti segni de consummu da lese, fanno propendere per la prosecuzione dell’asse stradale in sponda sinistra dell’Arenon.

Non mi inoltro oltre nella vegetazione, il terreno è franoso e non ci sono piu tracce del lavoro dell’uomo, solo piste tracciate da animali.

La plastica, qua la fa da padrona, impigliata tra la vegetazione, imprigionata dalla terra, svolazzante ad ogni folata di vento, finirà inevitabilmente, nella nostra catena alimentare, e senz’altro sarà già nella pancia di quegli ungulati, che poco fa stavano grufulando, tra un sacchetto e un telo di plastica.

Inizio la salita del ritorno e scorgo, fra le pietre anche qualche terracotta, frammenti giunti fino qua, trasportati per formare il fondo stradale della strada romana.

Il paesaggio è brullo, scheletri di alberi si ergono carbonizzati, sono la risulta, dagli ultimi devastanti incendi, che hanno incenerito e raso al suolo, bellissimi boschi di pino e lecci.

Ponendo di traverso un tronco secco, stimo l’abbassamento del piano viario a seguito del dilavamento di almeno 70÷80 cm.

Peccato aver perso per sempre questa antica via di accesso alla nostra città.

I Romani o chi per essi, durante la costruzione della strada, non avranno avuto problemi a procurarsi la materia prima, le pietre, visto la notevole presenza in zona di massi a “spacco”.

E’ visibile ai lati del percorso una ex cava, per grosse pietre squadrate.

Lungo il sentiero almeno quattro le “smogge” ristagni d’acqua sorgiva.

In un prato un’immagine di “tenerezza” mamma trulla, con il suo trullino.

Sulla via del ritorno, effettuo una deviazione al prato “da maietta” dove della bella casa, dopo un paio di incendi e qualche crollo, poco rimane.

Belli i colori dell’autunno

D’obbligo l’uso di scarpe da escursionismo e sconsigliato, arrivare in prossimita del rio Arenon, per la presenza di un branco di cinghiali.

Al bivio del Beato Jacopo solito strepitoso panorama.

Le notizie storiche sono tratte da “Quaderni di Storia Locale ” edito dall’Associazione Culturale S.Donato.

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Na Centrale au Muinettu

A ciusa de Bombuggio

Nel 1962 fu istituita l’ENEL, che sarà fino agli anni 2000, l’unico gestore della produzione, trasmissione e distribuzione dell’Energia Elettrica in Italia-

In quella data, la quasi totalità delle centrali e reti elettriche che fino ad allora erano private, furono nazionalizzate.

L’obiettivo era di fornire l’energia elettrica a costi calmierati e controllati dallo stato, come vettore per l’industrializzazione dell’Italia.

A Ciusa de Bombuggio insabbiato visto dal Rian dell’Equabunna

A questo scopo si progettarono nuovi impianti o si potenziarono quelli già esistenti.

L’ENEL a metà degli anni “60 incaricò una società, la Cogoleto S.p.A. per effettuare uno studio preliminare, ma accurato, allo scopo di potenziare una centrale idroelettrica già esistente, denominata “Nuova Centrale Mulinetta” alimentata da una derivazione di acqua pubblica dal torrente Arrestra in sponda sinistra presso la località diga di Bombuggio, più conosciuta come “a ciusa dell’Arrestra”.

A Ciusa de Bombuggio insabbiato visto da u Rian de S.Anna

Lo sbarramento posto a 130 m di altezza slm. costruito alla confluenza dei rii S. Anna e Acquabona è ancora visibile oggi, ma completamente interrato, colmo di inerti trasportati negli anni dalle piene dei due corsi d’acqua.

Da questa confluenza, inizia il torrente Arrestra, l’acqua prelevata da questa diga, era convogliata in una condotta, in galleria, con un diametro di un metro, poi si dipartiva in due diramazioni.

La Centrale Idroelettrica della Mulinetta

Tramite una tubazione, l’acqua arrivava in località Prato Zanino, per le utenze dell’Istituto di Igiene Mentale.

Con un tubo di ghisa del diametro ridotto a 550 mm. la condotta forzata proseguiva in caduta verso la località Mulinetto, dove alimentava due turbine in tandem.

Proseguiva interrata e poi all’aperto in un beu, addossato alla collina a lato di via Mulinetto in sponda sinistra dell’Arrestra.

Il canale forniva l’energia idraulica, ad un frantoio per ghiaia, l’acqua era poi utilizzata dalla Gamma, che produceva contenitori in banda stagnata e dalla Stoppani Vernici che produceva la biacca un pigmento bianco per pitture.

Tramite una condotta sotterranea, l’acqua oltrepassava la strada statale e la ferrovia , per arrivare ad un serbatoio di accumulo, in località Arrestra alla foce del fiume.

U Muinettu anni 70

Lo studio della Cogoleto S.p.A. era preliminare anche e soprattutto, per verificare la fattibilità di una Centrale Termoelettrica in località Mulinetto e altri impianti ausiliari di servizio per la produzione di energia elettrica alla foce dell’Arrestra.

A questo scopo furono effettuati diversi studi, geologici e per quanto riguarda il giro delle correnti marine, la profondità e la temperatura media del mare, furono studiati i venti prevalenti e la distanza dagli insediamenti abitativi

Diversi erano i fattori a favore di una Centrale Termoelettrica al Mulinetto, la vicinanza della via Aurelia e della linea ferroviaria che poteva essere utilizzata, tramite una derivazione per la movimentazioni di materiali e materie prime.

Determinante anche la presenza di un corso d’acqua, dove scaricare le acque di raffreddamento provenienti dai condensatori della centrale.

L’impianto idroelettrico precedentemente descritto poteva essere utilizzato come ausiliario della Centrale Termoelettrica e l’acqua dell’invaso di Bombuggio, utilizzata nelle caldaie per la produzione di vapore.

U Muinettu visto dalla foce dell’Arrestra

Alla foce dell’Arrestra doveva essere costruito anche un pontile, per le opere di presa acqua mare, e per l’approvvigionamento tramite navi cisterne del combustibile.

La perdita di un tratto di arenile sarebbe stata ricompensata con qualche opera pubblica per la cittadinanza (alcune testimonianze parlavano anche della possibilità della costruzione di un porticciolo turistico per la città).

Non meno importante era la presenza di altre industrie nel territorio di Cogoleto e in particolare della Stoppani, posizionata a specchio lungo il corso del Lerone, dall’altra parte della citta , la preesistente industrializzazione della città non avrebbe creato problemi di intolleranza da parte della cittadinanza già abituata alla presenza di industrie sul suo territorio.

Centrale Termoelettrica Vado Ligure

Questo progetto fu accantonato a favore del sito di Vado Ligure/Quiliano dove si decise di effettuare una gigantesca movimentazione di terra per sbancare alcuni rilievi e poter installare quattro gruppi di termo generazione con una potenza totale di 1300 MW.

Nell’area del Mulinetto/Arrestra visto il limitato spazio disponibile si potevano installare delle unità con una potenza minore rispetto a quelle del sito di Vado Ligure.

Alla bocciatura del progetto di una Centrale al Mulinetto, avranno influito anche, altre strategie industriali, forse già si pensava alla diversificazione delle fonti energetiche e all’utilizzo del carbone e la Fornicoke di Vado presente con la sua cokeria, avrebbe poi fornito negli anni 80 il combustibile e il gas alla Centrale Termoelettrica di Vado Ligure.

La cava, che serviva il primordiale frantoio divenne una grande cava di estrazione inerti.

Ora dismessa per raggiunti limiti di sfruttamento ospita il deposito delle terre di rifiuto della Stoppani.

Un’altra cava era in sponda destra dell’Arrestra nel territorio del Comune di Varazze.

Torrente Arestra anni 70

Bella la foto con il primordiale ambiente lacustre, una casa colonica e le onnipresenti “fasce”

Le foto in b/n e la documentazione che ho allegato, anche se in cattivo stato di conservazione, furono da me “salvati” prima di essere smaltiti durante un “repulisti” di un’archivio ENEL.

U Furtin de Cian de Retin

Un grande manufatto militare, residuato della seconda guerra mondiale è presente sulle alture del Sarsciu, (Salice), tra il Rian du Furcò e u Rian du Sarsciu, nei pressi di un pianoro chiamato Cian de Retin.

Maurizio Caligiani

Maurizio Caligiani, che mi aveva parlato dell’esistenza di un ex presidio militare in questa zona, mi accompagna a vedere il manufatto.

Lasciata l’auto au Cian da Munega, si imbocca la strada, che oltrepassa il Rian du Sarsciu, al primo abbozzo di sentiero, ci si inerpica nella macchia mediterranea.

Sconsiglio l’approccio a questo percorso, se non si è a conoscenza dei posti.

Mirto nel mezzo dell’erica “femminina”

Nella boscaglia, in questo periodo è presente la fruttificazione del mirto, molti gli esemplari di ginestre sfiorite ed gli arbusti di lentisco, l’albero colonizzatore è il solito pino marittimo, frammisto con qualche sparuto esemplare di roverella, qua manca del tutto l’erica arborea, mentre sono ben presenti i ciuffi di bruga femminina.

Questo arbusto, era raccolto, per la fabbricazione di scope, da utilizzare per lo spazzamento pubblico di strade e piazze.

Le raccolta delle brughe, era l’attività principale dei Pellegro da Curva, Maurizio, è imparentato con loro, tramite la famiglia Vernazza.

Questo soprannome, derivava dal loro avo Pellegro Bruzzone.

I nonni Giacomo Vernazza e Antonietta Bruzzone, tagliavano, lavoravano e legavano i ciuffi di erica femminina, preferita per i lunghi rami diritti e sottili, atti a essere usati con le ramazze, quotidianamente adoperate, dagli operatori ecologici, loro grande cliente era il Comune di Genova.

Anche la mamma di Maurizio, Antonietta Vernazza, in gioventù era dedita al confezionamento delle spassuie de bruga, mentre il consorte Pietro Caligiani lavorava in una ditta di autotrasporti.

La famiglia dei Pellegro, che era dedita anche alla lavorazione del sale, diversificò ulteriormente le loro attività, aprendo un bar , nell’edificio dove erano fabbricate le scope, che fece epoca, negli anni 60/70 e oltre, era il Bar la Curva.

Maurizio abitò per un certo periodo di tempo, al piano superiore di quella casa.

Bruga Femminna

In una pausa del percorso, Maurizio mi parla di come erano raccolte le brughe e la posizione obliqua che erano obbligate ad assumere nella fase di stagionatura, per far si che la bruga piegata, trasformata in spassuia avesse maggior raggio di pulitura.

Vista a levante

E’ una bellissima giornata di sole con stupendi panorami dalle prospettive mutevoli mentre si sale lungo il ripido pendio

Maurizio segue un ipotetico sentiero percorso innumerevoli volte in gioventù, dove si alternano aride radure a macchie di verde impenetrabile.

Gli anni passano, cambiano molte cose, nella vita, in un bosco o a bordo di un fiume, ma si ritrova sempre un percorso un luogo, o chissà che cos’altro, visto con gli occhi di un bambino, da solo o con gli amici, mentre si è intenti a far scorribande o a costruir capanette, come noi, quelli sciu da Teiro, ricordi indelebili dell’età più bella, che resteranno per sempre nei nostri cuori.

La vegetazione ha ricoperto tutto e non è comunque facile, ritrovare l’insediamento militare, costruito verso la fine della seconda guerra mondiale, seguiamo due diverse direzioni, per aver più possibilità di imbattersi nel rudere.

Entrata

Ma è Maurizio che lo avvista per primo!

Le mie aspettative, sono ampiamente soddisfatte, siamo al cospetto di un grande insediamento militare, la copertura probabilmente realizzata con tronchi, impermeabilizzata con la solita carta catramata e poi resa mimetica, non esiste più, ma le mura, sono solo in parte dirute, la struttura ha una larghezza e lunghezza stimata in metri 5×4.

Il POC posto di osservazione costiera era dotato di strumenti atti a direzionare l’artiglieria contraerea e antinave.

Spicca al centro, verso il mare aperto, con la visuale che spazia da Portofino a Capo Noli, un cilindro in cemento del diametro di circa 80 cm, dove molto probabilmente, era fissato il telemetro, di questo punto di osservazione e di rilevamento trigonometrico, atto a fornire l’angolo di tiro, per colpire navi e aerei in avvicinamento alla costa.

A fine guerra, le difese costiere erano ancora in fase di perfezionamento ma potevano già annoverare, un dispositivo di comando remoto, via radio, in grado di poter gestire simultaneamente, più batterie di artiglieria, antinave, antiaerea e il treno armato, nascosto nelle gallerie di Albisola, dove in un’apposito bunker, oggi trasformato in magazzino, stazionava una locomotiva a vapore con la caldaia sempre in pressione, pronta a trainare i vagoni allestiti con cannoni da marina.

Un’altra di questi POC postazioni di osservazione costiera e di rilevamento con pari caratteristiche, si trova sulle alture di Savona e sopra un equale cilindro in cemento è incisa la rosa dei venti.

Le batterie di artiglieria, presenti a difesa della costa ligure, erano quelle di Punta S.Martino ad Arenzano e nella Pineta Bottini a Celle.

Una batteria di artiglieria contraerea era presente anche sulle nostre alture a Campomarzio, dislocata in quella zona per proteggere le spalle della nostra città, doveva colpire gli aerei, che solitamente effettuavano la virata sulle alture, per poi scendere a colpire gli obiettivi costieri.

E’ evidente che questo presidio, doveva ospitare una cospicua guarnigione fissa per il controllo e rilevamento h24.

L’entrata è rivolta ad est, è probabile che questa postazione fosse difesa da armi pesanti, dallo scavo di alcune trincee e dalla posa di mine antiuomo.

Questo presidio era sotto il comando italiano, i militari requisirono animali e viveri alla gente del posto, questo determinò alcuni episodi di maltrattamenti, nei confronti delle persone che qui avevano le loro abitazioni e le loro coltivazioni.

La guerra era persa, iniziarono le diserzioni di massa del contingente dei S.Marco, addetti alla vigilanza costiera, i nazifascisti per rappresaglia effettuarono un rastrellamento di civili, di questa zona, rei di aver agevolato la fuga dei disertori, minacciati di morte e terrorizzati con l’uso delle armi .

E’ molto probabile che fosse proprio questo,il fortilizio, citato da alcune fonti, che fu attaccato il 3 novembre del 1944 dai partigiani del distaccamento Sambolino e Bocci, che conquistarono il presidio impossessandosi di alcune mitragliatrici e di un mortaio (Gabriele Faggioni Il Vallo Ligure)

Lasciato il rudere del presidio, di cui nessuno, come il sottoscritto ne era a conoscenza, raggiungiamo in poco tempo un pianoro, denominato Cian de Retin, anche qui antichi terrazzamenti, sono testimonianze di una antica zona prativa, forse anch’essa irrigata dalla soprastante ex sorgente dei Funtanin.

Mascee a Cian de Retin

Almeno un paio i sentieri arrivavano e si dipartivano da questo prato oggi completamente persi nella vegetazione.

Posti da pigne, brughe e legna pe scadose, ma anche da sanguin e funsi neigri.

Fu durante una battuta, alla ricerca di funghi, in compagnia del padre, che il 24 giugno del 1975, Maurizio trovò il corpo senza vita, di Regula Teuscher, la maestrina svizzera di 24 anni, scomparsa l’11 giugno dalla Casa Henry Durant, l’Ostello Svizzero, in via Helvetia.

Le ricerche fino a quel giorno, avevano dato esito negativo, la ragazza sembrava sparita nel nulla.

Maurizio, mi racconta di quella drammatica circostanza, quando nei pressi del sentiero che scende verso il Salice, trovò il corpo della ragazza, già in stato di avanzata decomposizione, avvisò suo padre che si recò nelle sottostanti case dei contadini, per dare l’allarme.

Misteriose le cause della morte, il caso fu archiviato come decesso per arresto cardiaco, ma ad oggi restano insolute alcune domande, quella più significativa era: “Che ci faceva quella giovane ragazza in quel posto sperduto e senza particolari attrattive?”

Di quei giorni concitati e drammatici, Maurizio ricorda le innumerevoli rievocazioni, del ritrovamento del corpo, ripetute innumerevoli volte ad uso investigativo e giornalistico.

Il ricordo più indelebile, fu l’incontro struggente con i genitori di Regula Teuscher, che lo ringraziarono di aver trovato il corpo di quella povera ragazza.

Ritorniamo non senza qualche difficoltà di orientamento verso Cian da Munega.

Maurizio è la memoria vivente di questa zona e mi parla delle famiglie che in questa bellissima porzione di territorio, sospeso sopraelevato difronte al blu del mare, lavoravano la terra e vivevano dei prodotti a km 0, e commerciavano le primissie in ogni periodo dell’anno.

Al Salice i bambini negli anni 60/70, si ritrovavano a giocare e a scorrazzare liberi per boschi e prati come quelli de sciu da Teiru.

Poi quell’ambiente naturale, fonte di infiniti passatempi giovanili, fu stravolto, dai grandi lavori delle infrastrutture stradali e ferroviarie, in primis fu lo scavo della galleria del treno, che interruppe l’apporto della falda d’acqua, alle sorgenti di mezza costa e poi il raddoppio autostradale, con enormi movimenti terra, che modificarono la zona del Salice.

L’accanimento degli incendi anni 90, di sicura origine dolosa, completarono l’opera distruttrice, oggi restano le grandi peschee, completamente invase dai rovi e quei grandi terrazzamenti, a testimoniare la laboriosità, di chi in questa striscia di terra, dell’Invrea, du Sarsciu e da Vignetta, traeva sostentamento e cresceva dei figli.

Inevitabile non parlare della grande incompiuta strada, presente al Salice che doveva collegare, nell’intento di chi l’ha in parte realizzata, tutto il nostro entroterra, salendo dal Salice al Monte Grosso, per arrivare a essere unita alla strada, oggi esistente, che dal Muagiun raggiunge Alpicella.

A Cian da Munega, si intravvede a malapena, tra le canne radicate da anni e cresciute, la sagoma del menhir .

Ringrazio l’amico Maurizio di avermi fatto conoscere e accompagnato nei suoi luoghi d’infanzia, con i suoi racconti, grazie di avermi portato a vedere quel rudere di Storia d’Italia, e per la vista degli incomparabili panorami che ci regala questo angolo di mondo.

A Furnosce da Casin-a

Lo scoglio d’Ivrea, era troppo ostico da superare e così i romani si inerpicarono su dai “bricchi” per collegare con una strada Ad Navalia, Alba Docilia ecc.a Genua e quindi a Roma caput mundi!

Era l’Emilia Scauri, che da Hasta, l’attuale Sciarborasca, raggiungeva la nostra città, passando dalla Custo’ saliva alla Custea e scendendo, verso il mare, con una strada, ora chiamata via Gianca, arrivava ad Ad Navalia

La strada superava il passo da Custò, Costata e iniziava a scendere, verso il rio omonimo, qui al limitare di un un prato, si erge ancora oggi, una fornace da calce, con i classici cunicoli, alla sua base, dove la calce viva, al termine del suo percolato, era estratta.

Un provvidenziale tetto in tegole, penso costruito, da chi oggi, la adopera come magazzino, ha preservato questo edificio dalle ingiurie del tempo, ma non dal disinteresse della nostra comunità !

Testimonianze tramandate, da chi abitava in questa zona, fa ritenere che l’opificio, fosse in funzione, ancora nel XVII secolo, il periodo di edificazione delle case in questa vallata.

Ma forse, furono proprio i romani, per primi ad arrostire pietre in questa fornace, per usare la calce e consolidare i muri di sostegno, per la loro strada, che doveva inerpicarsi in un territorio molto acclive.

La presenza di consistenti affioramenti di terra rossa e di frammenti di mattone, fa pensare ad un possibile utilizzo della fornace anche per la cottura di questo materiale da costruzione.

A questo link le fornaci romane

https://www.meer.com/it/14934-le-fornaci-romane-e-la-civilta-moderna

Resti di altri manufatti in pietra in questa zona, indicano la possibile presenza di altre lavorazioni, fatte in loco.

E’ molto probabile che da questa fornace, fu estratta anche la calce, servita per costruire l’Eremo del Deserto e le poderose mura che circondano la sua proprietà.

Tracce dell’antica strada romana, lastricata dalla canonica larghezza di 2,40 metri, si trovano in un prato in direzione del rio Arenon.

Ma la vegetazione, particolarmente rigogliosa, le ha quasi cancellate è arduo avanzare, facendosi largo tra arbusti e rovi e come spesso succede, devo seguire un sentiero marcato dagli animali selvatici.

Oltrepassato il corso d’acqua, incontro altre tracce di lastricatura della strada, poi delle poderose mura, costituite da grosse pietre e poco oltre, in uno spiazzo, un”mucchio di pietre” un deposito o quel che rimane di un’antica costruzione?

Intravvedo nella vegetazione in alto, un rustico avvolto dai rovi, lo raggiungo con molta difficoltà, è arduo trovare il varco giusto tra i terrazzamenti, dove passare.

Anche qua, ci sono delle belle “fasce” molto larghe, con muretti a secco di buona fattura, colonizzati dai licheni e muschi, un peccato che sia tutto abbandonato!

Chissa’ chi erano le persone che qui vivevano e che hanno costruito, pietra su pietra, la casa, le fasce i muri a secco, un lavoro tramandato da una generazione all’altra.

Intravvedo un’ altro rustico più in alto, sulla direttrice della strada romana. Ma troppo lontano da raggiungere.

Osservo questo posto, sono molti gli alberi abbattuti, sopra questi terrazzamenti, molti sono sradicati penso dal vento.

Un tronco è carbonizzato e si erge al centro di una fascia, altri ceppi sono con molte ferle in bella vista.

Ora è veramente arduo proseguire, sono i rovi ad ostacolare il mio avanzare seguendo un’altra bozza di sentiero che si addentra verso una fitta boscaglia. Decido di ritornare e mentre cerco un varco, trovo un bel fungo porcino, ma lo lascio ai lumaconi che già lo hanno spolpato!

E poi ci sono le foto del rio Arenon…. il corso d’acqua che raccoglie, portata dal vento, la plastica che svolazza dalla Ramognina, non è un bello spettacolo!

Residui di imballaggi plastici aggrovigliati alle piante e milioni di borse usa e getta finiscono qui appese ai rami o si vedono semisepolte nel fango dell’arena.

Magra consolazione pensando quando lo vidi per la prima volta, una ventina di anni fa, era come trovarsi in un tunnel, la plastica era dappertutto fino all’altezza di due metri!

E stato in parte ripulito qualche anno fa.

Ora è sempre inquinato, ma in modo oramai fisiologico, come lo è il mare, le spiagge, i nostri scogli, i boschi prati ruscelli e fiumi, anche il cibo che ingeriamo, la plastica inutile nasconderlo è dovunque.

Dovremmo essere noi cittadini a rifiutarne l’uso ma nessuno lo fa troppo comodo l’uso di questo polimero.

Provenendo da S.Giacomo in direzione dell’abitato da Custò un cartello e una sbarra, vieta l’accesso ai non residenti, è possibile lasciare l’auto ai lati della strada e proseguire a piedi per circa 20 minuti prima di arrivare alla fornace.

Le notizie storiche sono tratte da “Quaderni di Storia Locale” edito dall’Associazione Culturale S.Donato.

U Muin di Posi

Ruota tipo a cuppi

La Ciusa di Cravassa, ben visibile dal ponte che in quella località scavalca il Teiro, alimentava, tramite il suo beo, il mulino e frantoio Cerruti in località Posi au Pei.

Il mulino per cereali, cessò l’utilizzo dell’energia idraulica nel 1970, sostituita per azionare gli impianti, dai motori elettrici.

Oggi ai Posi c’è un moderno frantoio per olive, Tomaso Delfino a cui fanno affidamento gli olivicoltori di Varazze e dintorni, sempre affollato durante il periodo della raccolta delle olive.

Nel 2000 grazie ad un bel servizio di Tele Varazze, il mulino per farine fu rimesso in funzione, ad uso divulgativo.

Le mugnaie Antonietta e Bartomelina (Lina) Cerruti, furono intervistate da Piero Spotorno.

Tomaso Delfino, il titolare dell’omonimo frantoio, mi invita a vedere il CD di sua proprietà, relativo a quel servizio di Tele Varazze.

Ero arrivato nell’ampio piazzale, antistante il laboratorio e l’abitazione per vedere il mulino, l’ultimo rimasto dei sei che erano in attività il secolo scorso Sciu da Teiru.

 Tomaso mi accompagna all’interno del locale, dove ancora oggi si possono ammirare le macchine in legno e acciaio, vecchie di qualche secolo ma ancora funzionanti.

 Appena varcata la soglia si è catapultati indietro nel tempo!

Trasmissione a coppia conica fra assi ortogonali

I due mulini uno per fo a faina de gran e l’otru pe quella di granun stanno sopra di un piano rialzato, per lasciar lo spazio sottostante agli ingranaggi di trasmissione.

Una scaletta consunta dall’uso e dal tempo, permette l’accesso alla parte superiore, dove sono le camere di frantumazione, sovrastate dalle tramogge.

Il sistema è abbastanza complesso, le ruote dentate, alcune di queste con la dentatura in legno, devono moltiplicare i numeri di giri della ruota azionata dall’acqua, far ruotare velocemente la coppia conica, che trasforma il moto da quello orizzontale della ruota idraulica a quello verticale a cui sono solidali le due macine.

Ruota dentata in legno

Una lunga cinghia di trasmissione piatta, forniva il moto au burattu, che separava la farina dalla crusca

I chicchi di cerali, sono fatti precipitare dalle tramogge e dosati tramite un pratico sistema di regolazione, introdotti fra le macine, vengono triturati per pressione e sfregamento e poi per forza centrifuga, la farina fuoriesce da una canaletta, pronta per essere insaccata.

Il macinato, può essere sottoposto poi ad un’ulteriore pulitura, separato dalla crusca, i residui di buccia, u brennu.

Questo in grandi linee è anche il racconto che fecero Antonietta e Lina, la mamma di Tomaso, durante l’intervista di Piero Spotorno, descrissero con dovizia di particolari il funzionamento del mulino e il mestiere della mugnaia.

Insieme a Rosa un’altra sorella, erano le tre figlie di Alessandro e di Nettin, la Muinea Valle, che dopo la morte del marito, condusse per decine di anni, coadiuvata dalle tre figlie, il mulino dei Posi, che per tutti diventò il Mulino Cerruti Netin.

U troggiu e u miagin duvve fo dui ceti

L’intervista inizia in esterno, quando Lina racconta del troggiu, alimentato dal beo di Cravassa, dove le donne dei dintorni facevano la coda, per lavare i panni e aspettavano il proprio turno sedute a fo dui ceti, sopra un muretto costruito, per far riposare le lavandaie, in aderenza all’edificio.

Questo muretto, raccontava sempre la signora Lina nel filmato, era anche un punto di ritrovo nelle serate estive, ricercato dagli abitanti dei Posi, per il refrigerio dall’afa, che dava la vicinanza dello scorrere dell’acqua, nel beo.

Volantino di regolazione della finezza del macinato

La sorella Antonietta, molto pratica nell’usare il mulino, nel filmato, azionava con disinvoltura le regolazioni dell’altezza delle macine, mentre il mulino era in funzione, apprezzando con il tatto la finezza della farina.

Sempre nel filmato, Antonietta raccontava dei tempi della seconda guerra mondiale, quando palanche nu ghe n’ea e si usava quasi sempre il baratto, i contadini portavano il grano e granoturco a far macinare e al ritiro della farina, lasciavano i loro prodotti del lavoro dei campi.

Il molino o mulino dei Posi diventò così una specie di grossista di ortofrutta e fornitore dei negozi della città.

Appassionata e commovente, la dedica di affetto e di riconoscenza, che fece Antonietta al termine dell’intervista, ricordando la sua vita trascorsa da giovinetta, all’interno del mulino, in ricordo dei suoi genitori e di tutta la sua generazione, che radicarono la loro dimora quella di un ramo dei Cerruti Bertumè, presso questo opificio, che aveva anche un frantoio per olive.

 Qua tra l’opificio e il fiume Teiro in mezzo alle farine crusca olio e sansa hanno cresciuto dei figli che poi a loro volta, hanno proseguito l’attività paterna quella di famiglia.

Questa attività, pervenne ai Cerruti da un loro avo, vicende perse nella notte dei tempi, all’alba del XVII secolo, quando il marchese Centurione, cedette questo suo possedimento con annesso na fabrica pe oiu e faina, a un rappresentante della famiglia Cerruti, navigatore al soldo della Repubblica di Genova.

Chiedo il permesso per fare delle foto all’interno e dell’esterno, peccato per quel beo senz’acqua.

Sta arrivando la serata di una bella giornata di sole autunnale nel grande piazzale fa manovra un furgone è quello di un tecnico arrivato per mettere a punto il frantoio per la prossima spremitura, Tomaso mi conferma che quest’anno è prevista un non fruttuosa raccolta di olive.

 Lo saluto e ringrazio Tomaso della sua cortesia e della visione di quel bel filmato di Tele Varazze, un patrimonio storico della nostra città, come questo mulino, ruota e beo, che è l’ultima testimonianza reale e ancora rimasta dei 14 opifici presenti il secolo scorso, Sciu da Teiru.

Le foto in b/n sono tratte dal libro “Gli opifici ad acqua della Valle del Teiro” di Lorenzo Arecco.